Tale divieto non può, infatti, evincersi dal divieto di destinare gli stessi locali a depositi di materie infiammabili, esplodenti e maleodoranti ovvero a fonti di esalazioni nocive, come asserito invece dai ricorrenti.
Gli attori si rivolgevano al Tribunale di Bologna lamentando l'illegittimità della trasformazione da parte dei convenuti dei locali precedentemente adibiti ad uso commerciale in autorimesse, chiedendo il ripristino della precedente destinazione e il risarcimento dei danni subiti.
Il Tribunale adito rigettava le domande, così come la Corte d'Appello a seguito di...
Svolgimento del processo / Motivi della decisione
1. (omissis), anche quale erede di (omissis), ha proposto ricorso articolato in due motivi avverso la sentenza n.871/2017 della Corte d'appello di Bologna, depositata il 4 aprile 2017.
2. Resistono con quattro distinti controricorsi
3. Sono stati altresì intimati (omissis) (omissis), che non hanno svolto attività difensive.
4. Con atti di citazione notificati tra il 25 novembre 2003 e il 1° dicembre 2003, (omissis) convennero innanzi al Tribunale di Bologna (omissis) lamentando l'illegittimità della trasformazione in autorimesse, da parte dei convenuti, dei locali in precedenza adibiti ad uso commerciale siti (omissis) e chiedendo pertanto il ripristino della destinazione precedente, nonché la condanna al risarcimento dei danni subiti. Gli attori sostennero che le trasformazioni operate dai singoli convenuti tra l'anno 1984 e l'anno 1999 avrebbero dovuto considerarsi vietate dagli artt. 6 e 7 del regolamento condominiale contrattuale, nonché causa di intollerabili immissioni a danno della loro proprietà, aggiungendo che dalle modifiche fossero altresì derivata una lesione del decoro architettonico dell'edificio. La convenuta (omissis) chiese in via riconvenzionale il risarcimento dei danni dovuti alle immissioni derivanti dai fumi dell'impianto di riscaldamento della proprietà degli attori e chiamò in causa (omissis), dai quali aveva acquistato uno dei locali oggetto di giudizio. I terzi chiamati si costituirono eccependo il proprio difetto di legittimazione passiva analoga eccezione fu sollevata anche da (omissis).
Il Tribunale di Bologna rigettò tutte le domande con sentenza del 12 maggio 2009.
Gli appelli di (omissis) sono stati respinti dalla Corte d'appello di Bologna, la quale ritenne che dagli articoli 6 e 7 del regolamento condominiale non potesse desumersi un divieto di utilizzare i locali come autorimesse, e che neppure risultasse violato l'articolo 9 del regolamento quanto al danneggiamento della statica dell'edificio.
5. La trattazione del ricorso è stata fissata in camera di consiglio, a norma degli artt. 375, comma 2, e 380 bis.1, c.p.c..
Il ricorrente, la controricorrente (omissis) (omissis) e i controricorrenti hanno depositato memorie.
6. Il primo motivo del ricorso di (omissis) denuncia l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c. Secondo i ricorrenti, la Corte d'appello avrebbe mancato di valutare il profilo delle immissioni provenienti dalle autorimesse dei convenuti, lamentate già nell'atto di citazione con cui venne introdotto il giudizio, nel quale ci si doleva del rumore e delle vibrazioni derivanti dai motori delle automobili che accedevano alle autorimesse e dallo sbattimento delle portiere, nonché delle esalazioni dei gas di scarico delle vetture. Affermano, in merito, che sarebbe stato necessario disporre c.t.u. al fine di valutare il superamento della soglia della normale tollerabilità, tenuto conto anche del possibile pregiudizio alla salute che potrebbe derivare da tali immissioni.
3 Va disattesa l'eccezione della controricorrente (omissis) fondata sull'art. 348-ter, comma 5, c.p.c., in quanto la relativa previsione di inammissibilità della invocazione del vizio di cui al numero 5) dell'art. 360 c.p.c. non si applica, agli effetti dell'art. 54, comma 2, del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, per i giudizi di appello, come nella specie, introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione anteriormente all'11 settembre 2012.
Il primo motivo di ricorso è comunque altrimenti inammissibile. Il ricorrente censura, adducendo il vizio di motivazione ex art. 360 n. 5 c.p.c., che nella sentenza della Corte d'appello di Bologna "non esiste non solo una disanima ma neppure il più piccolo accenno" del "fatto" inerente alle immissioni intollerabili provenienti dalle proprietà delle controparti. La doglianza, tuttavia, delinea all'evidenza l'omesso esame non di un "fatto storico" (come previsto dall'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., riformulato dall'art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134), quanto del fatto costitutivo di una domanda introdotta in causa e quindi di un fatto principale della controversia, che doveva poi tramutarsi in motivo di appello, il che avrebbe imposto la deduzione del vizio di omessa pronuncia per violazione dell'art. 112 c.p.c. (ex multis, Cass. Sez. 2, 22/01/2018, n. 1539).
In realtà, la Corte di Bologna non riferisce in sentenza che era stato proposto da (omissis) uno specifico motivo di appello relativo proprio alla domanda di immissioni, affermando che le due censure formulate in secondo grado attenevano unicamente alla interpretazione ed alla violazione degli articoli 6, 7 e 9 del regolamento condominiale.
Neppure il ricorso di (omissis) adempie all'onere - imposto dall'art. 360, comma 1, nn. 3 e 6 c.p.c., al fine di esporre i fatti di causa e indicare gli atti si cui si fondano le censure, anche ove si tratti di denuncia di errores in procedendo: Cass. Sez. U, 22/05/2012, n. 8077 - di specificare l'avvenuta formulazione di un motivo di appello, ex art. 342 c.p.c., diretto a confutare la ragioni addotte dal primo giudice o l'omessa pronuncia a questo addebitabile sulla domanda di immissioni. La domanda di immissioni costituiva, infatti, pretesa autonoma e distinta rispetto a quelle radicate sulla violazione delle prescrizioni regolamentari ed era quindi suscettibile di statuizione di soccombenza a sua volta autonoma e distinta, che avrebbe perciò imposto specifiche censure nell'atto di gravame, altrimenti derivando dalla mancata impugnazione una preclusione processuale da giudicato "interno", che impone alla Corte di cassazione, investita del ricorso avverso la sentenza resa dal giudice di appello, di dichiarare inammissibile la doglianza.
Infine, pure l'esame diretto dell'atto di appello conferma che lo stesso si riferiva unicamente alla "disamina sull'applicabilità degli articoli 6 e 7 del regolamento condominiale" (pagina 3 e ss.), al difetto di autorizzazione dei lavori per la trasformazione in autorimessa e alla mancata ammissione della consulenza tecnica d'ufficio (pagina 6 e ss.).
7. Il secondo motivo del ricorso di (omissis) allega la falsa applicazione degli articoli 1362 ss. c.c. Viene impugnata la sentenza di appello nella parte in cui ha ritenuto che dalla lettura congiunta degli articoli 6 e 7 del regolamento condominiale contrattuale non potesse ricavarsi la sussistenza di un divieto a trasformare i locali dei convenuti in autorimesse. In particolare, si afferma nella censura che tra i "servizi inerenti" di cui all'ultimo periodo dell'articolo 6 non avrebbero potuto ritenersi comprese le autorimesse, in quanto tali "servizi" dovevano ritenersi riferiti solo ad eventuali esercizi commerciali svolti nei locali del condominio. Sostengono inoltre i ricorrenti che le autovetture sono in grado di sprigionare esalazioni nocive ed incendiarsi ed esplodere "da sole, senza una causa apparente": ne ricavano che ai sensi dell'articolo 7 del regolamento, che vieta di "destinare locali a depositi di materie infiammabili, esplodenti, maleodoranti o fonti di polvere o esalazioni nocive", deve ritenersi preclusa la possibilità di adibire ad autorimessa i suddetti locali. Viene poi contestato il richiamo fatto dalla Corte d'appello alla delibera del 21 febbraio 1972, rilevandosi sul punto che l'articolo 7 del regolamento condominiale non avrebbe potuto essere modificato né altrimenti integrato a maggioranza, trattandosi pacificamente di regolamento contrattuale. Da ultimo, i ricorrenti lamentano la mancata ammissione della c.t.u., evidenziando come da ciò sia derivata per il giudice di appello la falsa convinzione circa il fatto che i locali destinati ad autorimessa si trovassero tutti in una condizione "analoga" e come tale omissione abbia precluso la possibilità di ben comprendere l'offesa arrecata al decoro dello stabile.
2 Il secondo motivo di ricorso è infondato.
3 La sentenza della Corte d'appello di Bologna ripercorre testualmente il disposto degli articoli 6 ("Di norma i locali facenti parte delle singole proprietà dovranno essere usati come abitazione, ufficio, studio, negozio, magazzino od esercizio commerciale e servizi inerenti") e 7 ("In particolare, salvo l'eccezione per gli attuali affittuari che hanno negozi o di combustibili, arrotineria, industria per la lavorazione della gomma con relativo forno, idraulico con piccolo macchinario ed attrezzatura, viene senz'altro stabilito che è vietato destinare locali a depositi di materie infiammabili, esplodenti, maleodoranti o fonti di polvere o esalazioni nocive; è inoltre vietato l'esercizio di attività industriali rumorose o pericolose o sotto ogni altro aspetto fastidioso") del regolamento di condominio, e ne ha desunto che tali prescrizioni regolamentari non contenessero un divieto di impiego dei locali ad uso autorimessa. La sentenza impugnata ha evidenziato che l'articolo 6 del regolamento si apre con "[D]i norma." al fine di escludere che l'elenco dei possibili usi consentiti dei locali compresi nell'edificio potesse considerarsi tassativo ed ha rilevato come l'articolo 7 non vietasse espressamente la possibilità di impiegare i medesimi locali ad autorimessa, né sarebbe stato possibile ricondurre una tale destinazione nell'ambito del divieto di utilizzare i locali come deposito di materie infiammabili, esplodenti, maleodoranti o fonti di polvere o esalazioni nocive. A sostegno di tale interpretazione, la Corte d'appello ha richiamato anche la delibera assembleare del 21 febbraio 1972, con la quale era stato stabilito che la sussistenza delle condizioni di pericolosità, rumorosità, fastidiosità, ecc. di cui all'art. 7 del regolamento avrebbe dovuto escludersi laddove il singolo condòmino avesse ottenuto dall'autorità competente il permesso alla modificazione; sul punto i giudici del merito hanno accertato che tutte le unità immobiliari oggetto di trasformazione furono autorizzate da concessione edilizia.
La Corte d'appello ha altresì escluso la violazione dell'articolo 9 del regolamento, che dispone: "I Condomini hanno diritto, come stabilito dalla legge, di eseguire nell'interno delle singole proprietà, tutti i lavori che crederanno necessari, purché essi non rechino danno agli altri Condomini né possano danneggiare la statica dell'edificio. Tutti gli altri lavori, ed anche quelli che solo in parte interessano la proprietà comune, dovranno preventivamente venire autorizzati dalla maggioranza dei Condomini che ha facoltà, ove lo creda opportuno, di delegare il giudizio a tecnici da nominarsi a maggioranza. L'onorario di questi sarà a carico del Condominio che esegue i lavori. Il consenso ricevuto non esime da eventuali risarcimenti di danni"). La sentenza d'appello ha richiamato le concessioni edilizie, i progetti dei lavori, le certificazioni di prevenzioni incendi, le relazioni tecniche e le fotografie in atti per concludere che i lavori di trasformazione non abbiano in alcun modo pregiudicato la statica e la sicurezza dell'edificio.
4 E' noto che le restrizioni alle facoltà inerenti al godimento della proprietà esclusiva contenute nel regolamento di condominio, volte a vietare lo svolgimento di determinate attività all'interno delle unità immobiliari esclusive (nella specie, ". destinare locali a depositi di materie infiammabili, esplodenti, maleodoranti o fonti di polvere o esalazioni nocive; è inoltre vietato l'esercizio di attività industriali rumorose o pericolose o sotto ogni altro aspetto fastidioso"), costituiscono servitù reciproche e devono perciò essere approvate mediante espressione di una volontà contrattuale, e quindi con il consenso di tutti i condomini, mentre la loro opponibilità ai terzi, che non vi abbiano espressamente e consapevolmente aderito, rimane subordinata all'adempimento dell'onere di trascrizione (arg. da Cass. Sez. 2, 07/01/2004, n. 23 Cass. Sez. 2, 18/04/2002, n. 5626 Cass. Sez. 2, 04/04/2001, n. 4963 Cass. Sez. 2, 07/01/1992, n. 49 Cass. Sez. 2, 15/07/1986, n. 4554 Cass. Sez. 2, 19/03/2018, n. 6769).
Configurandosi tali restrizioni di godimento delle proprietà esclusive come servitù reciproche, intanto può allora ritenersi che un regolamento condominiale ponga limitazioni ai poteri ed alle facoltà spettanti ai condomini sulle unità immobiliari di loro esclusiva proprietà, in quanto le medesime limitazioni siano enunciate nel regolamento in modo chiaro ed esplicito, dovendosi desumere inequivocamente dall'atto scritto, ai fini della costituzione convenzionale delle reciproche servitù, la volontà delle parti di costituire un vantaggio a favore di un fondo mediante l'imposizione di un peso o di una limitazione su un altro fondo appartenente a diverso proprietario. Non appaga, pertanto, l'esigenza di inequivoca individuazione del peso e dell'utilità costituenti il contenuto della servitù costituita per negozio la formulazione di divieti e limitazioni nel regolamento di condominio operata non mediante elencazione delle attività vietate, ma mediante generico riferimento ai pregiudizi che si ha intenzione di evitare (quali, ad esempio, l'uso contrario al decoro, alla tranquillità o alla decenza del fabbricato), da verificare di volta in volta in concreto, sulla base della idoneità della destinazione, semmai altresì saltuaria o sporadica, a produrre gli inconvenienti che si vollero, appunto, scongiurare (arg. da Cass. Sez. 2, 20/10/2016, n. 21307 Cass. Sez. 2, 07/01/2004, n. 23).
5 Il divieto di ". destinare locali a depositi di materie infiammabili, esplodenti, maleodoranti o fonti di polvere o esalazioni nocive; è inoltre vietato l'esercizio di attività industriali rumorose o pericolose o sotto ogni altro aspetto fastidioso", recato dall'articolo 7 del regolamento di condominio, costituisce, dunque, pattuizione contrattuale con cui, al fine di imprimere determinate caratteristiche all'edificio, si impongono limitazioni (il "peso" di cui all'art. 1027 c.c.) alla libertà di utilizzazione delle porzioni di proprietà esclusiva, attinenti non all'attività personale dei condomini, bensì alla proprietà del singolo immobile, incidendo oggettivamente, in modo negativo, sulla sua funzione ed arrecando vantaggio agli immobili contigui. Il contenuto di tale diritto di servitù si concreta nel corrispondente dovere di ciascun condomino di astenersi dalle attività vietate, quale che sia, in concreto, l'entità della compressione o della riduzione delle condizioni di vantaggio derivanti - come qualitas fundi, cioè con carattere di realità - ai reciproci fondi dominanti, e perciò indipendentemente dalla misura dell'interesse del titolare del Condominio o degli altri condomini a far cessare impedimenti e turbative.
6 È comunque da ribadire come l'interpretazione delle clausole di un regolamento condominiale contrattuale, contenenti il divieto di destinare gli immobili a determinati usi, enunciati in modo chiaro ed esplicito, è sindacabile in sede di legittimità solo per violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale, ovvero per l'omesso esame di fatto storico ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (Cass. Sez. 2, 30/06/2011, n. 14460 Cass. Sez. 2, 31/07/2009, n. 17893 Cass. Sez. 2, 23/01/2007, n. 1406 Cass. Sez. 2, 14/07/2000, n. 9355 Cass. Sez. 2, 02/06/1999, n. 5393 Cass. Sez. 6-2, 14/05/2018, n. 11609 Cass. Sez. 6-2, 21/06/2018, n. 16384).
In particolare, la condivisa esigenza di chiarezza e di univocità che devono rivelare i divieti ed i limiti regolamentari di destinazione alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in proprietà esclusiva, coerente con la loro natura di servitù reciproche, comporta che il contenuto e la portata di detti divieti e limiti vengano determinati fondandosi in primo luogo sulle espressioni letterali usate. L'art. 1362 c.c., del resto, allorché nel primo comma prescrive all'interprete di indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle parole, non svaluta l'elemento letterale del contratto, anzi intende ribadire che, qualora la lettera della convenzione, per le espressioni usate, riveli con chiarezza ed univocità la volontà dei contraenti e non vi sia divergenza tra la lettera e lo spirito della convenzione, una diversa interpretazione non è ammissibile (Cass. Sez. 3, 27/07/2001, n. 10290 Cass. Sez. 2, 22/08/2019, n. 21576).
7 Nella specie, non rivela alcuna violazione dei canoni di ermeneutica l'interpretazione fatta dalla Corte d'appello di Bologna della clausola regolamentare, secondo cui la destinazione delle unità immobiliari al parcheggio e ricovero di autoveicoli non collide col divieto contrattuale di deposito "di materie infiammabili, esplodenti, maleodoranti o fonti di polvere o esalazioni nocive". Tale interpretazione non risulta, invero, né contrastante con il significato lessicale delle espressioni adoperate nel testo negoziale, né confliggente con l'intenzione comune dei condomini ricostruita dai giudici del merito, né contraria a logica o incongrua, rimanendo comunque sottratta al sindacato di legittimità l'interpretazione degli atti di autonomia privata quando il ricorrente si limiti a criticare il risultato ermeneutico raggiunto dal giudice ed a lamentare che quella prescelta nella sentenza impugnata non sia l'unica interpretazione possibile, né la migliore in astratto.
8 È infine inammissibile la doglianza del ricorrente diretta, sempre nell'ambito di una censura per falsa applicazione degli artt. 1362 e ss. c.c., a lamentare la mancata nomina di un consulente tecnico di ufficio. Non sono state evidenziate ragioni che delineassero la necessità di far ricorso a nozioni scientifiche, esulanti dal comune patrimonio di esperienze dell'uomo medio, necessarie a supportare le conoscenze del giudice sulla materia del contendere, nella specie limitata alla interpretazione di un testo contrattuale.
8. Il ricorso va perciò rigettato, con condanna del ricorrente a rimborsare ai distinti controricorrenti le spese del giudizio di cassazione nei rispettivi importi liquidati in dispositivo.
Sussistono i presupposti processuali per il versamento - ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 -, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l'impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rimborsare le spese sostenute nel giudizio di cassazione da (omissis), che liquida in complessivi € 3.200,00, di cui € 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge da (omissis) che liquida in complessivi € 2.500,00, di cui € 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge; da (omissis), che liquida in complessivi € 3.200,00, di cui € 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge; da (omissis) che liquida in complessivi € 2.500,00, di cui € 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.
Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater del D.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.