Confermata la condanna al risarcimento dei danni subiti all'appartamento a causa delle infiltrazioni provenienti da quello sovrastante di proprietà del ricorrente. Per la Cassazione, manca la dimostrazione del caso fortuito idoneo ad interrompere il nesso di causalità.
La Corte d'Appello di Brescia confermava la decisione di primo grado condannando l'attuale ricorrente a risarcire la controparte per i danni subiti al proprio appartamento per effetto delle infiltrazioni d'acqua provenienti dal sovrastante appartamento di proprietà del ricorrente. Quest'ultimo aveva cercato di dimostrare il caso fortuito idoneo...
Svolgimento del processo
con sentenza resa in data 2/7/2021 (n. 867/2021), la Corte d'appello di Brescia, pur ridimensionandone l'entità in termini monetari, ha confermato la decisione con la quale il giudice di primo grado ha condannato M.B. a risarcire A.F. dei danni da quest'ultimo subiti a carico del proprio appartamento (alienato a terzi dopo il fatto illecito dedotto in giudizio e prima dell'instaurazione di questo), per effetto di talune infiltrazioni d'acqua provenienti dal sovrastante appartamento di proprietà del B.; a fondamento della decisione assunta, la torte territoriale ha evidenziato la correttezza della decisione del primo giudice nella parte in cui aveva escluso l'avvenuta dimostrazione, da parte del B., del ricorso di un caso fortuito idoneo (ai sensi dell'art. 2051 c.c.) a elidere il nesso di causalità tra i danni denunciati dal F. e le infiltrazioni d'acqua provenienti dall'appartamento del B., con la conseguente attestazione della responsabilità di quest'ultimo in relazione ai danni di natura patrimoniale verificatisi a causa delle ridette infiltrazioni (ma non anche a quelli d'indole non patrimoniale, giudicati dalla forte territoriale non adeguatamente comprovati dall'attore); avverso la sentenza d'appello, M. B. propone ricorso per cassazione sulla base di tre motivi d'impugnazione; A.F. resiste con controricorso; a seguito della fissazione della camera di consiglio, la causa è stata trattenuta in decisione all'odierna adunanza camerale, sulla proposta di definizione del relatore emessa ai sensi dell'art. 380-bis c.p.c.;
Motivi della decisione
con il primo motivo, il ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione dell'art. 112 c.p.c., per avere la Corte territoriale omesso di pronunciarsi sul motivo di appello avanzato dall'odierno istante avente ad oggetto l'eccepita carenza di legittimazione attiva del F. a rivendicare il risarcimento di danni in relazione a un appartamento di cui lo stesso F. non era già più proprietario al momento dell'instaurazione dell'odierno giudizio; il motivo è inammissibile; osserva il Collegio come la questione sollevata dal ricorrente con la censura in esame (con particolare riguardo alla questione concernente la pretesa carenza di legittimazione attiva del F. a rivendi care il risarcimento di danni in relazione a un appartamento non più di sua proprietà al momento dell'instaurazione del giudizio) non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata; al riguardo, secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa Corte, qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l'avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di puntuale e completa allegazione del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (cfr. ex plurimis, Sez. 2 - , Sentenza n. 20694 del 09/08/2018, Rv. 650009 - 01; Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 15430 del 13/06/2018, Rv. 649332 - 01); nel caso di specie, spettava al ricorrente, ai sensi dell'art. 366 n. 6 c.p.c., allegare in modo specifico (provvedendo altresì a localizzarla all'interno degli atti del giudizio) la documentazione processuale indispensabile al fine di consentire a questa Corte la verifica dell'effettività dell'omissione denunciata, ossia di acquisire riscontro dell'avvenuta proposizione del motivo di appello asseritamente trascurato dal giudice a quo; non avendo il ricorrente in alcun modo provveduto alle ridette al legazioni, il motivo deve ritenersi per ciò stesso inammissibile; con il secondo motivo, il ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell'art. 2051 c.c. in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c. e all'art. 2729 c.c., (con riguardo all'art. 360 n. 3 c.p.c.), nonché per vizio di motivazione, per avere la Corte territoriale erroneamente distribuito gli oneri probatori tra le parti dell'odierno giudizio, e per aver erroneamente escluso l'avvenuta acquisizione di elementi istruttori sufficienti ad attestare la riconducibilità delle conseguenze dannose ex adverso denunciate all'incidenza di un fatto del terzo valutabile alla stregua di un caso fortuito rilevante ai sensi dell'art. 2051 c.c.; il motivo è manifestamente infondato, quando non inammissibile; osserva preliminarmente il Collegio come la formulazione dell'art. 2051 c.c. ("ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito") evidenzi chiara mente che: - la responsabilità ex art. 2051 c.c. postula la sussistenza di un rapporto di custodia della cosa e una relazione di fatto tra un soggetto e la cosa stessa, tale da consentire il potere di controllarla, di eli minare le situazioni di pericolo che siano insorte e di escludere i terzi dal contatto con la cosa (Sez. 3, Sentenza n. 15761 del 29/07/2016, Rv. 641162 - 01); - ad integrare la responsabilità è necessario (e sufficiente) che il danno sia stato 'cagionato' dalla cosa in custodia, assumendo rilevanza il solo dato oggettivo della derivazione causale del danno dalla co sa, mentre non occorre accertare se il custode sia stato o meno diligente nell'esercizio del suo potere sul bene, giacché il profilo della condotta del custode è - come detto - del tutto estraneo al paradigma della responsabilità delineata dall'art. 2051 c.c. (ex plurimis, Sez. 3, Sentenza n. 4476 del 24/02/2011, Rv. 616827 - 01); - ne consegue che il danneggiato ha il solo onere di provare l'esistenza di un idoneo nesso causale tra la cosa e il danno, mentre al custode spetta di provare che il danno non è stato causato dalla cosa, ma dal caso fortuito, nel cui ambito possono essere compresi, oltre al fatto naturale, anche quello del terzo e quello dello stesso danneggiato; - si tratta, dunque, di un'ipotesi di responsabilità oggettiva (per tutte, v. Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 12027 del 16/05/2017, Rv. 644285 - 01) con possibilità di prova liberatoria, nel cui ambito il caso fortuito interviene come elemento idoneo ad elidere il nesso causale altrimenti esistente fra la cosa e il danno; - resta dunque fermo che, prospettato e provato dal danneggiato il nesso causale tra cosa custodita ed evento dannoso, la colpa o l'assenza di colpa del custode rimane del tutto irrilevante ai fini dell'affermazione della sua responsabilità ai sensi dell'art. 2051 c.c.; quanto ai criteri di accertamento del nesso causale, va richiamato il consolidato orientamento di legittimità (cfr., per tutte, Sez. U, Sen tenza n. 576 del 11/01/2008, Rv. 600899 - 01) secondo cui: - ai fini dell'apprezzamento della causalità materiale nell'ambito della responsabilità extracontrattuale, va fatta applicazione dei principi penalistici di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., sicché un evento è da considerare causato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non); - tuttavia, il rigore del principio dell'equivalenza delle cause, posto dall'art. 41 c.p. (in base al quale, se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale), trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente - desumibile dal capoverso della medesima disposizione - in base al quale l'evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all'autore della condotta sopravvenuta ove questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto; - al contempo, neppure è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all'interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che appaiano idonee a determinare l'evento secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quello similare della c.d. regolarità causale, che individua come conseguenza normale imputabile quella che - secondo l'id quod plerumque accidit e quindi in base alla regolarità statistica o ad una probabilità apprezzabile ex ante (ancorché riscontrata con una prognosi postuma) - integra gli estremi di una sequenza co stante dello stato di cose originatosi da un evento iniziale (sia esso una condotta umana oppure no), che ne costituisce l'antecedente necessario; ne deriva che tutto ciò che non è prevedibile oggettivamente, ovvero tutto ciò che rappresenta un'eccezione alla normale sequenza causale, integra il caso fortuito, quale fattore estraneo alla sequenza originaria, avente idoneità causale assorbente e tale da interrompere il nesso con quella precedente, sovrapponendosi ad essa ed elidendone l'efficacia condizionante; ovviamente, anche l'imprevedibilità che vale a connotare il fortuito dev'essere oggettiva - dal punto di vista probabilistico o della causalità adeguata - senza che possa riconoscersi alcuna rilevanza dell'assenza o meno di colpa del custode (sull'insieme di tali principi, cfr. da ultimo, Sez. 3, Ordinanza n. 2477 del 01/02/2018, Rv. 647933 - 01); poste tali premesse, osserva il Collegio come la corte territoriale - dopo aver correttamente attestato la riconducibilità dei danni subiti dal F. alle infiltrazioni proveniente dall'appartamento del B. - abbia correttamente interpretato e applicato i principi di diritto sopra richiamati, impegnandosi a rilevare come l'equivocità o l'insufficienza delle evidenze complessivamente acquisite agli atti del giudizio impedisse in concreto l'individuazione dell'effettivo intervento di un ipotetico (benché specifico) caso fortuito idoneo a interrompere il nesso di causalità tra i danni subiti dal F. e le infiltrazioni provenienti dall'appartamento del B.; in altri termini, muovendo dalla corretta premessa secondo cui, ai fini dell'art. 2051 c.c., rileva esclusivamente la sussistenza del nesso causale tra le dinamiche proprie della cosa custodita e il danno (come, nel caso di specie, tra la fuoriuscita d'acqua dagli elementi componenti l'appartamento del B. e il danneggiamento del sottostante bene del F. per effetto dell'infiltrazione dell'acqua) - ed eventualmente l'incidenza di un caso fortuito idoneo in via esclusiva a determinarlo - il giudice a quo ha espressamente sottolineato come la mancata dimostrazione, da parte del B., dell'incidenza di un caso fortuito idoneo ad elidere il nesso di causalità tra le infiltrazioni provenienti dal proprio appartamento e i danni provocati al F., fosse valsa a confermare la responsabilità del B. in relazione alla rivendicazione risarcitoria dell'originario attore, senza incorrere in alcuna violazione del principio di ripartizione degli oneri probatori di cui all'art. 2697 c.c.; quanto alle restanti censure, è appena il caso di rilevare come, attraverso le doglianze avanzate in questa sede, il ricorrente - lungi dal denunciare l'erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata dalle norme di legge richiamate si sia limitato ad allegare un'erronea ricognizione, da parte del giudice a quo, della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa: operazione che non attiene all'esatta interpretazione della norma di legge, inerendo bensì alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, unicamente sotto l'aspetto del vizio di motivazione (cfr., ex plurimis, Sez. L, Sentenza n. 7394 del 26/03/2010, Rv. 612745; Sez. 5, Sentenza n. 26110 del 30/12/2015, Rv. 638171), neppure coinvolgendo, la prospettazione critica del ricorrente, l'eventuale falsa applicazione delle norme richiamate sotto il profilo dell'erronea sussunzione giuridica di un fatto in sé incontroverso, insistendo propriamente lo sesso nella prospettazione di una diversa ricostruzione dei fatti di causa, rispetto a quanto operato dal giudice a quo; nel caso di specie, al di là del formale richiamo, contenuto nell'epigrafe del motivo d'impugnazione in esame, al vizio di violazione e falsa applicazione di legge, l'ubi consistam delle censure sollevate dall'odierno ricorrente deve piuttosto individuarsi nella negata congruità dell'interpretazione fornita dalla corte territoriale del contenuto rappresentativo degli elementi di prova complessivamente acquisiti e dei fatti di causa ritenuti rilevanti; si tratta, come appare manifesto, di un'argomentazione critica con evidenza diretta a censurare una (tipica) erronea ricognizione della fattispecie concreta, di necessità mediata dalla contestata valutazione delle risultanze probatorie di causa; e pertanto di una tipica censura diretta a denunciare il vizio di motivazione in cui sarebbe in corso il provvedimento impugnato; ciò posto, il motivo d'impugnazione così formulato deve ritenersi inammissibile, non essendo consentito alla parte censurare come violazione di norma di diritto, e non come vizio di motivazione, un errore in cui si assume che sia incorso il giudice di merito nella ricostruzione di un fatto giuridicamente rilevante sul quale la sentenza doveva pro nunciarsi, non potendo ritenersi neppure soddisfatti i requisiti minimi previsti dall'art. 360 n. 5 c.p.c. ai fini del controllo della legittimità della motivazione nella prospettiva dell'omesso esame di fatti decisivi controversi tra le parti; con il terzo motivo, il ricorrente censura il provvedimento impugnato per violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 2697 c.c., nonché dell'art. 115 c.p.c. (in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c.), per avere la corte territoriale erroneamente disatteso il motivo di appello avanzato dall'istante in ordine all'impossibilità giuridica di liquidare il danno ex adverso denunciato sottoforma di costi prevedibili e non direttamente sopportati o anticipati connessi al rifacimento o alla sistemazione dell'immobile oggetto di infiltrazione, rinviando peraltro, in modo del tutto illegittimo, agli effetti nella specie prodotti dall'applicazione del principio di non contestazione in relazione a fatti del tutto estranei alla sfera dell'odierno ricorrente, senza, infine, tener conto dell'assenza di alcuna relazione giuridica diretta tra l'attore e l'immobile danneggiato, avendo lo stesso F. espressamente dichiarato di aver ceduto la proprietà di tale bene in epoca anteriore all'instaurazione dell'odierno giudizio, con la conseguente attestazione del difetto di alcuna legittimazione alla rivendicazione risarcitoria relativa a danni prodotti a carico del ridetto bene; il motivo è manifestamente infondato; osserva preliminarmente il Collegio come la forte territoriale abbia correttamente identificato i danni patrimoniali sofferti dal F., per effetto delle infiltrazioni oggetto di causa, ritenendone adeguatamente comprovato il ricorso attraverso la congiunta considerazione della documentazione fotografica acquisita agli atti del giudizio e la testimonianza resa dalla stessa moglie dell'appellato (L.G.) (cfr. pag. 13 della sentenza impugnata): elementi, tutti, nel loro complesso idonei a dar conto, tanto del rapporto di causalità materiale tra le infiltrazioni d'acqua provenienti dall'appartamento superiore del B. e la degradazione dei beni di pertinenza del F. al momento del fatto; deve pertanto escludersi che il giudice a quo sia pervenuto alla dimostrazione dei danni subiti dall'originario attore in forza della sola circostanza connessa alla mancata contestazione processuale delle tesi di controparte, avendo la corte territoriale piuttosto avuto cura di sottolineare la congruità e la ragionevolezza degli importi monetari liquidati a titolo di danno patrimoniale dal giudice di primo grado in conformità al preventivo redatto dallo studio A. s.r.l., anch'esso prodotto agli atti; ciò posto - esclusa alcuna rilevanza, ai fini dell'effettività e della certezza del danno subito dall'attore, dell'eventuale mancato rifacimento o sistemazione dell'immobile danneggiato (non potendo certamente dipendere, l'obbligo risarcitorio del danneggiante, dal ricorso di una simile condizione di fatto) - dev'essere altresì disattesa la doglianza avanzata dall'odierno ricorrente in ordine alla pretesa carenza di legittimazione attiva del F. alla rivendicazione risarcitoria in esame (siccome non più proprietario, al momento dell'instaurazione del giudizio, del bene danneggiato, per averlo ceduto a terzi prima di tale epoca), dovendosi aver riguardo, ai fini di detta legittimazione, alla situazione proprietaria del bene danneggiato al momento della verificazione dell'illecito, attesa la materiale consolidazione, proprio in corrispondenza di tale epoca, del pregiudizio connesso all'attività dannosa; credito risarcitorio di per sé non suscettibile di alcuna trasmissione (per successione a titolo particolare) in capo ai terzi acquirenti del bene già pregiudicato, salvo l'eventuale patto contrario, nella specie mai neppure dedotto o allegato (cfr. Sez. U, Sentenza n. 2951 del 16/02/2016, Rv. 638374 - 01); sulla base di tali premesse, rilevata la complessiva manifesta infondatezza delle censure esaminate, dev'essere pronunciato il rigetto del ricorso, con la conseguente condanna del ricorrente al rimborso, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio secondo la liquidazione di cui al dispositivo, oltre all'attestazione della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-quater, dell'art. 13 del d.p.r. n. 115/2002;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi euro 3.000,00, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in euro 200,00, e agli accessori come per legge. Dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contri buto unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-quater, dell'art. 13 del d.p.r. n. 115/2002.