
Deve ritenersi provata, fino a querela di falso, la sottoscrizione da parte del giudice della sentenza redatta in formato elettronico quando su ogni pagina della copia estratta su supporto analogico vi siano coccarda e stringa che attestano la presenza della firma.
Svolgimento del processo
1. Con atto di citazione notificato il 4 luglio 2014, M.M. ha evocato in causa D.P., esponendo di aver in corso taluni contenziosi con il Condominio di Torino (omissis) e che, nel giudizio di appello n.r.g. 688/2014, il P., in qualità di amministratore, aveva conferito la procura ad litem a margine della memoria di costituzione senza avere i poteri di rappresentanza del suddetto Condominio. Ha chiesto di dichiarare la nullità e l'invalidità della procura, con vittoria di spese processuali. Nella resistenza di D.P., il tribunale, rimessa la causa in decisione senza svolgere alcuna istruttoria e senza concedere i termini ex art. 183, comma sesto, c.p.c. richiesti dall’attore, ha dichiarato l’inammissibilità della domanda e ha condannato il M. al risarcimento del danno per lite temeraria. La pronuncia è stata riformata in appello limitatamente alla quantificazione del danno ex art. 96 c.p.c., rideterminato in € 5000,00. Ad avviso della Corte di merito era infondata l’eccezione di nullità della sentenza ai sensi dell’art. 161, comma secondo c.p.c., per difetto di sottoscrizione del giudice, non essendo necessaria l’indicazione a stampa delle generalità del Magistrato, trattandosi di sentenza redatta in forma digitale, sottoscritta con firma digitale. Non era meritevole di accoglimento neanche il motivo volto a censurare la mancata concessione dei termini dell’art. 183, co. 6, c.p.c., poiché l’attore avrebbe dovuto formulare in appello le istanze istruttorie, non configurandosi un’ipotesi di rimessione della causa in primo grado. Quanto al denunciato errore di interpretazione della domanda, la Corte di merito ha dichiarato inammissibile la censura, rilevando che l’appellante non aveva contestato l'argomentazione del Tribunale, ormai passata in giudicato, secondo cui l’accertamento della validità della procura competeva al giudice della causa in cui essa era stata utilizzata per la costituzione del Condominio. La sentenza ha, infine, quantificato in € 5000,00 il danno da responsabilità processuale aggravata, ritenendo tale importo adeguato a rendere effettivo il ristoro dei danni patiti dall’appellato per effetto delle iniziative processuali, di carattere emulativo, della controparte. La cassazione della sentenza è chiesta da M.M. con ricorso in 6 motivi. D.P. resiste con controricorso e con memoria illustrativa.
Motivi della decisione
1. Il primo motivo denuncia la violazione dell’art. 186, comma sesto c.p.c., 2909 c.c., 34 c.p.c., 101 e 112 c.p.c. Si sostiene che la concessione dei termini dell’art. 183, comma sesto, era obbligatoria a pena di nullità della sentenza di primo grado e che il ricorrente non aveva mai rinunciato ai termini, avendo reiterato la richiesta all’udienza di precisazione delle conclusioni e specificato anche le difese e le prove che non aveva avuto modo di formulare in primo grado. Non era ammissibile – secondo il ricorrente – ritenere che si fosse formato il giudicato interno sull’affermazione del tribunale secondo cui la validità della procura poteva essere contestata solo nel giudizio di appello n.r.g. 688/2014, né che il M. fosse consapevole che il P. non era mai stato amministratore e non aveva conferito la procura, dato che il ricorrente, non avendo ottenuto la concessione dei termini ex art. 183, comma sesto, c.p.c., non aveva avuto la possibilità di provare il contrario. Il motivo è infondato. È opportuno premettere che la sussistenza di un obbligo del giudice di concedere, ove richiesti, i termini per lo svolgimento delle facoltà difensive di cui all’art. 183, comma sesto, c.p.c., è tutt’altro che pacifico nella giurisprudenza di questa Corte. Si è di recente affermato che, in forza del combinato disposto dell'art. 187, comma 1, c.p.c. e dell'art. 80-bis disp. att. c.p.c., in sede di udienza fissata per la prima comparizione delle parti e la trattazione della causa ex art. 183 c.p.c., la richiesta della parte di concessione di termine ai sensi del comma 6 di detto articolo non preclude al giudice di esercitare il potere di invitare le parti a precisare le conclusioni ed assegnare la causa in decisione. Una diversa interpretazione delle norme, comportando il rischio di richieste puramente strumentali, si porrebbe in contrasto con il principio costituzionale della durata ragionevole del processo, oltre che con il "favor" legislativo per una decisione immediata della causa desumibile dall'art. 189 c.p.c. (Cass. 4767/2016; Cass. 8287/2017; Cass. 7474/2017). In ogni caso, respinta in primo grado la richiesta di concessione dei termini per la formulazione delle prove o la precisazione delle domande, l’eventuale illegittimità di tale diniego onerava la parte di proporre in appello le allegazioni difensive e di introdurre le richieste istruttorie, data l’impossibilità di rimettere la causa in primo grado e l’obbligo del giudice di pronunciare nel merito. Difatti, qualora venga dedotto il vizio della sentenza di primo grado per avere il tribunale deciso la causa nel merito prima ancora che le parti avessero definito il "thema decidendum" e il "thema probandum", l'appellante che faccia valere tale nullità - una volta escluso che la medesima comporti la rimessione della causa al primo giudice - non può limitarsi a dedurre tale violazione, ma deve specificare quale sarebbe stato il "thema decidendum" sul quale il giudice di primo grado si sarebbe dovuto pronunciare ove fosse stata consentita la richiesta appendice di cui all'art. 183 c.p.c. e quali prove sarebbero state dedotte, poiché in questo caso il giudice d'appello è tenuto soltanto a rimettere le parti in termini per l'esercizio delle attività non potute svolgere in primo grado (Cass. 9169/2008; Cass. 23162/2014; Cass. 24402/2018; Cass. 21953/2019). Nello specifico, benché il ricorrente sostenga di aver svolto in appello le difese non potute esercitare in primo grado, tale deduzione non risulta minimamente circostanziata: dall’esame del ricorso non è dato rilevare dove e quando tali allegazioni difensive sarebbero state proposte in secondo grado e quale ne fosse l’effettivo contenuto, apparendo la doglianza priva di specificità ai sensi dell’art. 366 c.p.c., requisito che deve essere osservato anche quando sia dedotto un error in procedendo e benché questa Corte sia – in tal caso – giudice del fatto processuale ed abbia accesso agli atti dei gradi di merito (Cass. 3612/2022; Cass. 29495/2020; Cass. 24048/2021). Consegue l’irrilevanza di ogni altra questione sollevata – al riguardo – in questa sede di legittimità.
2. Il secondo motivo denuncia la violazione dell’art. 101 e 112 c.p.c., 832 c.c. 1136 c.c., lamentando che il giudice distrettuale abbia confermato la condanna al risarcimento del danno ex art. 96 c.p.c., dato il carattere emulativo della domanda, sebbene l’unico danneggiato fosse proprio il ricorrente, sottoposto infondatamente ad un pignoramento immobiliare per una somma inferiore ad € 2000,00 e poi sfrattato dal proprio alloggio. Si assume che la Corte di merito non poteva ritenere provato che l’attore non fosse più condomino al momento del rilascio della procura, né che questi fosse consapevole che il P. non era amministratore, non avendo consentito lo svolgimento di alcuna istruttoria. Il motivo è inammissibile per la parte in cui pone in contestazione profili di mero fatto riguardo alla sussistenza della colpa grave e in ordine alla sussistenza di elementi di prova delle circostanze poste a fondamento della condanna per responsabilità processuale aggravata, questioni cui la sentenza ha dato motivatamente conto, evidenziando che il verbale assembleare del 20.5.2014 attestava che il P. non era amministratore del condominio e che dal decreto di trasferimento adottato del giudice dell’esecuzione emergeva che l’attore non era più condomino al momento della proposizione della domanda. Si è poi detto che il ricorrente avrebbe dovuto formulare in appello le richieste istruttorie per contrastante le circostanze che avevano condotto già il tribunale a ritenere che l’iniziativa giudiziale del ricorrente avesse carattere emulativo. In mancanza, la parte non può dolersi delle decisioni assunte sulla base degli elementi di convincimento disponibili.
3. Il terzo motivo denuncia la violazione degli artt. 161 e 132 n. 4 c.p.c., riproponendo la censura di nullità della sentenza di primo grado, perché priva dell’indicazione a stampa del nominativo del giudice. Si espone che non vi era, inoltre, alcuna certezza del deposito della decisione, mancando i dati di ricezione del documento informatico da parte della cancelleria, la stessa indicazione del nominativo del cancelliere che aveva provveduto all’adempimento e la certificazione di sicurezza della firma digitale. Il motivo non merita di essere accolto. Sono inammissibili le deduzioni del ricorrente riguardo alla mancanza di attestazione del deposito telematico e alla mancata indicazione delle formalità di ricezione della decisione di primo grado e del nominativo del cancelliere e quanto alla sussistenza dei requisiti di sicurezza della firma digitale, questioni che non risultano sollevate nel giudizio di merito, su cui la Corte distrettuale non ha pronunciato e che, essendo sottratte al regime dell’art. 161, comma secondo, c.p.c., non sono deducibili direttamente in cassazione. In ogni caso, l’attestazione di deposito coincide con il momento in cui il sistema informatico provvede, per il tramite del cancelliere, ad attribuire alla sentenza il numero identificativo e la data, poiché è da tale momento che il provvedimento diviene ostensibile agli interessati (Cass. 2362/2019). Il deposito e la pubblicazione della sentenza coincidono e si realizzano nel momento in cui il deposito ufficiale in cancelleria determina l'inserimento della sentenza nell'elenco cronologico, con attribuzione del numero identificativo e conseguente conoscibilità per gli interessati (Cass. 18569/2016). Il nominativo del giudice di primo grado era chiaramente rilevabile dal testo del documento (nella parte in cui risulta apposta la firma digitale), come può agevolmente constatarsi dall’esame della riproduzione della copia cartacea della sentenza di primo grado redatta in formato digitale (cfr. pag. 26 del ricorso), in piena osservanza dei requisiti prescritti dall’art. 132, secondo comma, lettera a), c.p.c. (Cass. 99625/1993; Cass. 3877/2019). Questa Corte ha già precisato che la sentenza redatta in formato elettronico e recante la firma digitale del giudice a norma dell'art. 15 D.M. 44/2011, non è affetta da nullità per difetto di sottoscrizione, data l'applicabilità al processo civile e ai documenti informatici adottati nel suo ambito del d.lgs. 82/2005 (cd. "Codice dell'amministrazione digitale"). Ai sensi dell'art. 23 d.lgs. cit., deve ritenersi provata fino a querela di falso la sottoscrizione da parte del giudice della sentenza redatta in formato elettronico, quando su ogni pagina della copia estratta su supporto analogico vi siano i segni grafici (coccarda e stringa) che attestano la presenza della sottoscrizione (Cass. 11306/2021). Tali formalità garantiscono l'identificabilità dell'autore, l'integrità e l'immodificabilità del provvedimento (se non che dall’autore e sempre che non sia intervenuta la pubblicazione). La firma digitale è equiparata alla sottoscrizione autografa in base ai principi del d.lgs. n. 82 del 2005, resi applicabili al processo civile dall'art. 4 del d.l. n. 193 del 2009, convertito dalla l. n. 24 del 2010, "ratione temporis" applicabile (Cass. 22871/2015). Il ricorso è – per tali motivi – respinto, con regolazione delle spese processuali in dispositivo. Si dà atto, ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1- bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali, pari ad € 200,00 per esborsi ed € 5000,00 per compenso, oltre ad iva, c.p.a. e rimborso forfettario delle spese processuali, in misura del 15%. Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1- bis dello stesso art. 13, se dovuto.