Nella vicenda in esame, il licenziamento disciplinare si configurava quale ultimo epilogo delle condotte vessatorie poste a carico del dipendente.
La Corte d'Appello di Bologna confermava la pronuncia resa dal Tribunale con la quale era stato dichiarato nullo il licenziamento disciplinare intimato al lavoratore, considerando che esso costituiva l'ultimo di ripetuti e sistematici comportamenti ostili tenuti dal datore di lavoro «forieri di forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, con mortificazione...
Svolgimento del processo
1. La Corte di Appello di Bologna, con la sentenza impugnata, ha confermato la pronuncia di primo grado che, all'esito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012, aveva ritenuto che il licenziamento disciplinare intimato a P.L. dalla A.R. S.p.A. in data 15 gennaio 2017 era "fondato su un unico motivo illecito costituito dalla volontà espulsiva e come tale nullo", con conseguente applicazione delle tutele previste dai primi due commi dell'art. 18 S.d.L., nella formulazione novellata dalla legge citata;
2. La Corte ha collocato il procedimento disciplinare che aveva dato origine al licenziamento in un contesto in cui nei confronti del L., che svolgeva mansioni di supervisore allo scalo presso l'aeroporto di Bologna, risultavano "provati i sistematici e reiterati comportamenti ostili forieri di forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, con mortificazione morale del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisico psichico e del complesso della sua personalità"; esaminati, dunque, partitamente i plurimi addebiti mossi al lavoratore, la Corte, sulla base dell'istruttoria espletata, ha ritenuto che i fatti di cui alle contestazioni dovessero ritenersi "insussistenti essendo tu:;ti o non provati nel loro verificarsi, o non con certezza ascrivibili a L. ovvero non disciplinarmente rilevanti"; pertanto ha condiviso l'assunto del primo giudice secondo cui il licenziamento doveva porsi "in correlazione con la condotta mobbizzante tenuta ai danni del dipendente dalla reclamante e l'unico motivo fondante il licenziamento sia riferito alla volontà di liberarsi e di colpire il lavoratore inviso come ultimo epilogo delle condotte vessatorie a suo carico tenute";
3. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la società con 2 motivi; ha resistito con controricorso il L.;
le parti hanno comunicato memorie;
Motivi della decisione
1. con il primo motivo del ricorso si denuncia: "violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116, 231 e 253 c.p.c., dell'art. 2697 c.c. (art. 360, punto 3 e 5, c.p.c.)"; si deduce "l'assoluta carenza di un valido iter logico argomentativo seguito dalla Corte di Appello di Bologna", per non aver effettuato "un'approfondita disamina logico giuridica degli elementi emersi nel corso del giudizio", omettendo anche l'esame "di alcune importanti circostanze";
con il secondo motivo si denuncia "violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116, 123, 132 e 191 c.p.c., degli artt. 2119, 1324, 1345 e 2697 c.c. e della l. n. 08 del 1990, art. 3 (art. 360, punto 3 e 5, c.p.c.)"; si sostiene che la sentenza impugnata sarebbe frutto "di un ragionamento logico giuridico del tutto incomprensibile", a causa di "una lettura parziale, incompleta ed erronea degli atti di causa", disattendo "l'obbligo di motivare l'avvenuto raggiungimento, nel corso del giudizio di merito, della prova offerta dal Sig. L. circa l'esistenza di un motivo illecito - esclusivo - di recesso";
2. entrambi i motivi presentano plurimi e concorrenti profili di inammissibilità;
innanzitutto, invocano esplicitamente il vizio di cui all'art. 360, n. 5, c.p.c., non considerando che quest'ultima disposizione, per i giudizi di appello instaurati dopo il trentesimo giorno successivo alla entrata in vigore della legge 7 agosto 2012 n. 134 (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell'll.8.2012), di conversione del d.l. 22 giugno 2012 n. 83, non può essere denunciata, rispetto ad un appello promosso, come nella specie, dopo la data sopra indicata (art. 54, comma 2, del richiamato d.l. n. 83/2012), con ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello che conferma la decisione di primo grado (cfr. art. 348 ter, u.c., c.p.c.; v. Cass. n. 23021 del 2014; Cass. n. 26774 del 2016; Cass. n. 20944 del 2019);
in secondo luogo, formalmente si lamentano errores in iudicando ma senza individuare adeguatamente gli errori di diritto che sarebbero stati commessi dalla Corte territoriale, piuttosto contestando la ricostruzione dei fatti compiuta in entrambi i gradi di merito; ancora di recente le Sezioni unite hanno ribadito l'inammissibilità di censure che "sotto l'apparente deduzione del vizio di violazione e falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, degradano in realtà verso l'inammissibile richiesta a questa Corte di una rivalutazione dei fatti storici da cui è originata l'azione", cosi travalicando "dal modello legale di denuncia di un vizio riconducibile all'art. 360 c.p.c., perché pone a suo presupposto una diversa ricostruzione del merito degli accadimenti" (cfr. Cass. SS.UU. n. 34476 del 2019; conf. Cass. SS.UU. Datapubblicazione31/05/2022.
n. 33373 del 2019; Cass. SS.UU. n. 25950 del 2020);
invece, la sentenza impugnata, in diritto, è coerente con i principi stabiliti da questa Corte, secondo cui, ai sensi dell'art. 2087 c.c., norma di chiusura del sistema antinfortunistico e suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro, il datore è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l'adozione di condizioni lavorative "stressogene" o "mobbizzanti" ed il giudice del merito è tenuto a valutare se, dagli elementi dedotti per – per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto - possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell'esistenza del danno (per tutLe v. Cass. n. 3291 del 2016);
infine, tutte le doglianze mirano ad un diverso apprezzamento delle circostanze di fatto, com'è conclamato dall'ampio riferimento ai materiali istruttori, dalla esplicita contestazione delle "letture" compiute dalla Corte territoriale degli atti di causa, dall'improprio rinvio alla violazione degli artt. 115, 116 e 2697 c.c.;
invero, per dedurre la violazione dell'art. 115 c.p.c. è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio, mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre (cfr., di recente, Cass. SS.UU. n. 20867 del 2020); tale pronuncia rammenta pure che la violazione dell'art. 116 c.p.c. è riscontrabile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato - in assenza di diversa indicazione normativa secondo il suo «prudente apprezzamento», pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore, oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza
probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), nonché, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia invece dichiarato di
valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il suo prudente apprezzamento della prova, la censura era consentita ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., nel testo previgente ed ora solo in presenza dei gravissimi vizi motivazionali individuati da questa Corte fin da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014;
quanto alla pretesa violazione dell'art. 2697 c.c., essa è deducibile per cassazione, ai sensi dell'art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c., soltanto nell'ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l'onere della prova ad una parte diversa da quella che ne fosse onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. n. 15107 del 2013; Cass. n. 13395 del 2018), mentre nella specie parte ricorrente critica l'apprezzamento operato dai giudici del merito circa l'esistenza delle condotte vessatorie, opponendo una diversa valutazione;
in definitiva, si sollecita un sindacato che esorbita dai poteri di questa Corte;
3. pertanto il ricorso deve essere dichiarato inammissibile; le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo;
ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della società ricorrente, dell'ulteriore
importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020);
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 6.000,00, oltre euro 200,00 per spese, accessori secondo legge e rimborso spese generali al 15%.
Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bìs dello stesso art. 13.