L'istituto dell'amministrazione di sostegno consente una gestione del patrimonio dell'assistito che non riguarda solamente lui stesso ma si estende alla cura della famiglia, sempre che da ciò non derivi un danno all'amministrato e/o una soddisfazione di interessi propri dell'amministratore.
La Corte d'Appello di Genova rigettava gli appelli proposti dal Procuratore Generale e dalle parti civili e confermava la decisione di primo grado con la quale l'imputata era stata assolta dal reato di peculato.
Nello specifico, all'imputata era stato contestato di essersi appropriata, nelle vesti di amministratore di sostegno del coniuge, di...
Svolgimento del processo
1. Con la sentenza impugnata la Corte di appello di Genova ha rigettato gli appelli proposti dal Procuratore Generale e dalle parti civili B.C. e N.C.P., confermando la sentenza emessa dal Tribunale di La Spezia in data 27 maggio 2020 con la quale S.G.E. è stata assolta dal reato di cui agli artt. 81 e 314 cod. pen.
1.1. All'imputata era stato contestato di essersi appropriata, quale amministratrice di
sostegno del proprio coniuge, G.M.C., di varie somme di denaro prelevate dal conto corrente bancario dell'amministrato di cui aveva la disponibilità in ragione del pubblico ufficio assunto, con bonifici disposti in tempi diversi in parte sul conto intestato al nipote R.R. ed in parte sul conto cointestato a lei ed al predetto nipote, accesi presso la stessa agenzia di D.M. della Cassa di Risparmio di La Spezia (fatti commessi dal 15 ottobre 2014 all'1/04/2015).
Segnatamente, l'imputata era accusata di avere stornato dal conto intestato al proprio coniuge, le somme di 1900 euro e di 1250 euro con bonifici del 15 ottobre 2014 e del 1° aprile 2015 in favore del conto intestato al nipote R.R., nonché con bonifici a favore del conto cointestato di: euro 10 mila in data 12 marzo 2015, euro 5 mila in data 24 marzo 2015, euro 50 mila in data 24 marzo 2015.
I Giudici di merito, pur ritenendo accertate le spese ed i bonifici oggetto di contestazione, hanno ritenuto verosimile che l'imputata abbia agito senza la consapevolezza di appropriarsi di somme di denaro altrui, avendo agito nella convinzione di poter disporre delle risorse finanziarie del proprio coniuge, gravemente malato, come di beni propri, come dalla stessa sostenuto nel suo esame dibattimentale, in cui ha dichiarato di aver pensato che il regime di comunione legale dei beni le avrebbe dato il diritto di disporre liberamente delle somme di pertinenza del coniuge (in particolare degli assegni di pensione e delle altre entrate costituite dai canoni di locazione di un immobile).
La credibilità dell'imputata è stata desunta dalle modalità della rendicontazione concernenti uscite di denaro riferite a spese con causali prive di correlazione con gli interessi dell'amministrato (regalie varie ai nipoti ed anche alla stessa figlia, costituitasi parte civile, spese funerale di una parente), che sono state anche approvate dal Giudice tutelare rafforzando il convincimento della imputata di poter disporre liberamente delle somme di denaro del coniuge.
Pertanto, essendo stati ravvisati gli estremi per l'applicazione dell'errore sul fatto cagionato da un errore su legge extra-penale di cui all'art. 47, comma 3, cod. pen., quanto meno per la carenza di prove certe in merito all'elemento soggettivo del reato, l'imputata è stata assolta con formula dubitativa perché il fatto non costituisce reato.
2. Avverso la suddetta sentenza hanno proposto ricorso la parte civile B.C., figlia unica dell'imputata, ed il Procuratore generale presso la Corte di appello, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all'art. 173, disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Ricorso della parte civile C..
Con il primo motivo deduce nullità della sentenza di appello per manifesta contraddittorietà logica della motivazione, tale da rendere la sentenza priva di una effettiva motivazione. In particolare, non risulta coerente la spiegazione con cui nella motivazione è stata ritenuta credibile la versione difensiva della buona fede dell'imputata sebbene i bonifici oggetto della contestazione non siano stati neppure inseriti nel rendiconto.
2.2. Con il secondo motivo deduce violazione di legge in relazione alla ravvisata sussistenza dell'errore di fatto conseguenza di errore sulla legge extra-penale.
In particolare l'aver valorizzato come indice di buona fede l'inserimento nel rendiconto di spese che non avrebbero potuto essere autorizzate, perché non inerenti agli interessi dell'amministrato, non avrebbe consentito di giustificare anche le sottrazioni operate dal conto senza annotazioni in sede di rendiconto.
Inoltre la versione dell'errore di fatto è stata basata solo sulle dichiarazioni dell'imputata, che non potevano ritenersi coerenti con la conoscenza che sul conto amministrato erano confluiti anche le somme ricavate dalla vendita di una quota di proprietà immobiliare pervenuta al coniuge in donazione e come tale sottratta al regime della comunione legale dei beni, oltre a considerare che la S. aveva operato assieme al marito nel settore del commercio e non poteva perciò davvero ignorare i limiti della sua gestione, tenuto altresì conto delle ulteriori sottrazioni dal conto del coniuge proseguite anche dopo la morte di quest'ultimo, dopo la cessazione della veste di amministratrice di sostegno.
3. Ricorso del Procuratore Generale.
3.1. Violazione di legge per motivazione apparente, in relazione al carattere tautologico degli argomenti con cui la Corte di appello ha dato credito alla versione difensiva della buona fede dell'imputata, senza spiegare la ragione della irrilevanza dell'omissione delle indicazioni nel rendiconto dei bonifici eseguiti per gli importi maggiori - oggetto della contestazione -, sulla base della valorizzazione delle annotazioni delle spese minori pur se non inerenti agli scopi dell'amministrazione di sostegno.
Le modalità con cui l'imputata aveva confezionato il rendiconto, indicando anche alcune voci di spese non inerenti l'amministrazione (regalie ai nipoti e ricariche telefoniche) ed omesso di riportate le uscite ben più rilevanti e certamente estranee alle finalità dell'amministrazione sarebbe al contrario indicativo della scaltrezza con cui ha agito e quindi del dolo con cui ha occultato la sottrazione di operazioni per un importo complessivo di euro 68.150.
Motivi della decisione
1. I ricorsi sono infondati e vanno rigettati.
2. Rivestendo l'amministratore di sostegno la qualifica di pubblico ufficiale, integra il reato di peculato la condotta appropriativa delle somme di denaro intestate all'amministrato nonché l'utilizzo per finalità estranee all'incarico determinato in sede di nomina.
La Corte di Appello di Genova, come anche il giudice di primo grado, ha ritenuto non sussistente l'elemento soggettivo del reato, escludendone l'integrazione; ricorre, quindi, la situazione di cd. "doppia conforme", poiché, avendo i giudici di secondo grado utilizzato criteri omogenei a quelli usati dal Tribunale, la struttura argomentativa delle due decisioni si salda, permettendone una lettura congiunta e, dunque, costituendo un unico complessivo corpo decisionale (cfr. Cass. Pen., sez. 2, sent. n. 37295 del 12.06.2019 ud., E., Rv. 277218-01).
3. Ai fini della trattazione dei motivi in un ordine logico, occorre dapprima analizzare il primo motivo proposto dalla parte civile e successivamente il secondo motivo di quest'ultima accorpandolo alla censura sollevata dal Procuratore Generale.
4. La parte civile deduce il vizio di inesistenza della motivazione, in quanto assertiva ed apodittica, sebbene graficamente presente.
Tale vizio non ricorre nel caso di specie, poiché il giudice di secondo grado, dopo aver ricostruito la vicenda e sintetizzato le conclusioni del primo giudice, affronta le censure dedotte in sede di appello, valutando le prove dichiarative e rinvenendo la loro conferma nei documenti prodotti agli atti. La Corte di Appello di Genova, invero, conferma i criteri adottati dal Tribunale, soprattutto in merito all'elemento soggettivo, non limitandosi ad un mero rinvio.
5. Il motivo dedotto dal Procuratore Generale è infondato.
Ai fini della sussistenza del peculato occorre verificare la reale attività esercitata e gli scopi perseguiti dall'amministratore di sostegno, nello svolgimento del suo incarico (cfr. Cass. Pen., sez. 6, sent. n. 50754 del 12.11.2014 ud., Insolera, Rv. 261418-01). Orbene, l'amministrazione di sostegno, figura introdotta dall'art. 3 della legge n. 6 del 9 gennaio 2004, rappresenta un istituto di tutela meno incisivo rispetto all'interdizione e all'inabilitazione, in quanto consente una minor limitazione della capacità di agire del soggetto sottoposto a tutela ed è dotato di una flessibilità tale da adattarsi alle esigenze dell'amministrato. Quest'ultima caratteristica permette una gestione del patrimonio nell'interesse dell'assistito, la quale non deve limitarsi esclusivamente a quest'ultimo potendosi estendere alla cura della famiglia. La limitazione della capacità di agire non comporta, infatti, il venir meno dell'utilizzazione del patrimonio per l'ordinaria gestione familiare, ossia di tutte le spese inerenti la vita familiare.
La S., invero, effettuando elargizioni in favore del nipote R.R. e della figlia C. B., non ha utilizzato le risorse presenti sul conto corrente del C. per soddisfare propri interessi, bensì per provvedere alla gestione familiare, producendo una commistione tra spese sostenute nell'interesse dell'amministrato e della famiglia, senza procurare alcun danno al coniuge.
Da tale assunto deriva la buona fede dell'imputata, la quale ha operato unicamente nell'interesse della famiglia, gestendo il patrimonio come avrebbe fatto il coniuge se non fosse stato sottoposto ad amministrazione di sostegno. La Corte di Appello, dunque, non è incorsa nel vizio censurato, ritenendo prevalente la buona fede della S. ed assente l'elemento soggettivo del reato.
6. Il giudice di merito, peraltro, riconduce la non certezza della sussistenza del dolo all'errore dell'amministratrice in ordine alle modalità di gestione del patrimonio dell'amministrato. Su tale elemento si fonda il secondo motivo dedotto dalla parte civile nel ricorso, id est violazione di legge circa l'errore di diritto ricadente su norma extrapenale, anch'esso infondato.
L'errore sulla legge penale è considerato inescusabile qualora ricada sulla struttura del reato e su norme e nozioni proprie di altre branche del diritto che, tuttavia, integrano la fattispecie criminosa. Le norme extrapenali, invero, si distinguono in disposizioni integratrici del precetto, le quali sono considerate incorporate in esso e, dunque, legge penale, e disposizioni non integratrici, ossia norme che regolano rapporti giuridici non di natura penale non richiamate dalla fattispecie delittuosa.
Il discrimen tra le tipologie di norme extrapenali è dato dalla scusabilità o meno dell'errore ricadente su di esse, in quanto nel caso di disposizioni integratrici manca l'efficacia esimente, salva l'ipotesi di errore inevitabile (cfr. Corte Cost., sent. n. 364 del 24.03.1988). Per quanto concerne, invece, le norme non integratrici, non essendovi alcuna specificazione ovvero contributo rispetto al contenuto del precetto, l'errore su di esse escluderà il dolo, trattandosi di errore sul fatto, di cui all'art. 47 comma 3 cod. pen. (cfr. Cass. Pen., sez. 2, sent. n. 43309 del 8.10.2015 ud., L., Rv. 264978- 01).
Occorre sottolineare, tuttavia, i requisiti dell'assenza di qualsivoglia richiamo esplicito o implicito della norma extrapenale da parte di quella penale e, soprattutto, l'esclusiva destinazione a regolare rapporti giuridici non penali della norma su cui ricada l'errore così scusabile, altrimenti la norma sarà considerata integratrice e, dunque, inescusabile (cfr. Cass. Pen., sez. 4, sent. n. 14819 del 30.10.2003 ud., T., Rv. 227875- 01).
Ciò posto, nel caso di specie la Corte di Appello ha rinvenuto un errore su norma extrapenale non integratrice, in quanto ricadente su norme che regolano il rapporto di comunione legale tra coniugi e non legata all'amministrazione di sostegno, inerenti invece al peculato.
P.Q.M.
La Corte rigetta i ricorsi. Condanna C. B. e C. P.N. al pagamento delle spese processuali.