La violazione del patto di non concorrenza consente la configurazione di una responsabilità esclusivamente contrattuale, mentre quella di cui all'articolo 2598 n. 3 c.c. si fonda sulla consumazione di condotte sleali che ledono la sfera e la libertà dell'imprenditore concorrente.
La vicenda trae origine dalla richiesta risarcitoria avanzata dal titolare di un'impresa nei confronti delle due ex dipendenti che, una volta recedute dal rapporto di lavoro, avevano creato un loro sito del tutto analogo a quello dell'attore ai fini della gestione dei dati personali dei condomini. Il Giudice dichiarava le due ex dipendenti responsabili del compimento di atti di...
Svolgimento del processo
1. Con ricorso ex art. 700 c.p.c., S. R. L., titolare dell'impresa individuale I. (operante nel settore dei servizi di trattamento dei dati personali mediante il sito I..it) ha adito il Tribunale di Torino, lamentando che le dipendenti C. D. e R. M., recedute dal rapporto di lavoro nell'agosto 2010, avevano creato un loro sito del tutto analogo a quello dell'attore per la gestione dei dati personali dei Condomini (registrato con domain name "S..com e S..it) e avevano utilizzato dati riservati dell'impresa per stornare clienti.
Ha chiesto di inibire alle convenute l'illegittima attività concorrenziale, con condanna alle spese.
Instaurato il contraddittorio, il tribunale, con ordinanza 11.1.11, ha ordinato a R. M. e C. D., "in proprio e quali collaboratrici della S.", "di non utilizzare in qualsiasi forma informazioni inerenti ai clienti del L. e, precisamente, di tutti coloro che avessero stipulato contratti di trattamento dati ex art. 13 d. lgs. 196/2003" e di non "prendere contatti con i clienti con i quali I. aveva rapporti in corso fino al 30 giugno 2011", disponendo la pubblicazione per estratto del provvedimento. L'ordinanza, sottoposta a reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c., è stata confermata dal Collegio con provvedimento del 25.2.2011. Con atto di citazione notificato in data 4.3.2011, C. D. e R. M. hanno evocato in giudizio il L. per sentir dichiarare la legittimità dell'attività imprenditoriale svolta nel medesimo settore del convenuto e per ordinare al L. la cessazione dell'attività denigratoria svolta nei loro confronti.
Il convenuto si è costituito, istando per il rigetto delle domande e, in via riconvenzionale, per far dichiarare che le controparti avevano posto in essere atti di concorrenza sleale ex art. 2598 n. 3 c.c., mediante storno di clientela, con ordine di inibitoria e con condanna al risarcimento del danno.
Con ulteriore citazione notificata il 9 marzo 2011, S. L. S. ha instaurato il giudizio di merito conseguente al provvedimento ex art. 700 c.p.c., reiterando le richieste già proposte in via riconvenzionale nel giudizio instaurato dalle controparti in data 4.3.2011. Si sono costituite le convenute, resistendo alle domande e chiedendo in via riconvenzionale di dichiarare il loro diritto di svolgere l'attività economica in concorrenza con la controparte e di lv ordinare la cessazione di ogni attività denigratoria da tite del L., con condanna di quest'ultimo risarcimento dei danni. Disposta la riunione delle cause, acquisita documentazione ed espletata la prova orale, all'esito il tribunale ha dichiarato C. D. e R. M. responsabili del compimento di atti di concorrenza sleale ex art. 2598 n. 3 c.c. ai danno di S. L.; ha confermato i provvedimenti cautelari e ha condannato le convenute, in solido, al risarcimento del danno pari ad € 90.000,00, oltre interessi legali dalla data della sentenza al saldo, dichiarando S. L. responsabile di atti di denigrazione ex art. 2598 n. 2 c.c., con obbligo di risarcire il danno, quantificato in € I 15.000,00, oltre accessori.
Su appello delle attuali ricorrenti, la Corte distrettuale di Torino ha parzialmente riformato la decisione.
Respinta l'eccezione di estinzione del giudizio e dichiarata l'ammissibilità dell'impugnazione ai sensi dell'art. 342 c.p.c., il giudice territoriale ha confermato la responsabilità di C. D. e R. M. per aver illegittimamente stornato clientela dall'impresa di provenienza.
Secondo la pronuncia non era rilevante che, come eccepito dalle appellanti, un servizio analogo a quello svolto da I. fosse fornito da altre aziende e che quello offerto dal resistente non avesse carattere innovativo, essendo le ricorrenti comunque tenute, pur in mancanza di un patto di non concorrenza, a rispettare i canoni correttezza e lealtà e ad astenersi dal porre in essere condotte (ancorché non tipizzate) volte a dirottare verso la loro impresa la clientela della controparte.
Nello specifico era emerso che la collaborazione con il L. era cessata nell'agosto 2010 ma che, nell'aprile dello stesso anno, le ricorrenti avevano registrato il proprio sito internet, avviando contatti con i clienti di I. a partire dal mese di settembre. A dicembre 2010 erano già transitati alla nuova impresa 23 clienti su 125, dato numerico particolarmente significativo, trattandosi di clienti che gestivano centinaia di condomini e un numero corrispondente di abbonamenti.
Il breve lasso di tempo intercorso dall'avvio della nuova impresa lasciava presumere il compimento di un'attività di promozione e di accaparramento attraverso un illegittimo utilizzo dei dati raccolti da I..
Di nessun rilievo era poi la circostanza che l'elenco dei condomini fosse stato fornito direttamente dai singoli amministratori: l'illecito consisteva nello sviamento della clientela realizzato in virtù della conoscenza degli amministratori di condominio che si avvalevano del I servizio di I., acquisita per il fatto che proprio le ricorrenti erano addette al procacciamento degli affari per l'impresa di appartenenza ed erano edotte del numero dei condomini e dei dati relativi ai singoli contratti (scadenza, condizioni particolari, etc.).
La Corte di merito ha reputato - invece - eccessiva la liquidazione del danno operata dal tribunale ed ha condannato le resistenti al pagamento di € 45.000,00, regolando le spese.
La cassazione della sentenza è chiesta da C. D. e R. M. con ricorso in due motivi, illustrati con memoria. S. R. L. non ha svolto difese.
La causa, inizialmente avviata alla trattazione camerale, è stata rimessa in pubblica udienza con ordinanza interlocutoria n. 20541/2021.
Motivi della decisione
1. Il primo motivo denuncia la violazione dell'art. 2598, n. 3 c.c., ai sensi dell'art. 360, comma primo, n. 3 c.p.c., per aver la Corte distrettuale ritenuto che le ricorrenti avessero posto in essere atti di concorrenza sleale mediante sviamento della clientela, senza che fosse emersa alcuna condotta finalizzata a determinare un effettivo accaparramento di vantaggi economici indebiti ai danni dell'impresa concorrente, dato che i clienti erano spontaneamente transitati alla nuova impresa, senza ricevere, in tal senso, alcuna sollecitazione illecita.
Il motivo è infondato.
La Corte di merito - richiamando le motivazioni del tribunale - ha evidenziato come già in primo grado fosse stato accertato che la D., quando era ancora in essere il rapporto di lavoro con il L. (e cioè già dal 30.4.2010), aveva provveduto alla registrazione del dominio "S..it" e ad informare gli amministratori di condominio della prossima creazione di una impresa di servizi analoga ad I..
Appena avviata la nuova attività, le ricorrenti avevano proposto ai clienti offerte tempestive e personalizzate, costruita sulle specifiche esigenze di questi ultimi, sfruttando dati ed informazioni acquisite nel corso del pregresso rapporto di collaborazione.
La D. aveva, difatti, accesso all'archivio dei dati che i clienti intendevano gestire tramite il sito "S.", avvantaggiandosi di una notevole facilitazione nell'avvio di nuovi rapporti contrattuali. Dette considerazioni anziché confutate, appaiono rafforzate nella pronuncia di secondo grado, rimarcando il rilievo - ai fini della configurazione dell'illecito - del consistente numero di clienti passati alla nuova impresa e del numero di condomini che avevano stipulato un abbonamento con il nuovo servizio (767), oltre che del breve lasso di tempo intercorso dalla data di cessazione dei rapporti con Informatica, sintomatico dell'accaparramento di clientela con metodi illeciti.
Appare dunque confermato e ancor più circostanziato nella pronuncia di appello il fatto che lo sfruttamento delle informazioni acquisite nel corso di rapporto alle dipendenze dell'Informatica, aveva consentito alle ricorrenti di ottenere un illecito vantaggio competitivo, "con risparmio di tempo e delle risorse che sarebbe stato necessario impiegare per procurarsi autonomamente i dati dei clienti ed avviare correttamente la nuova impresa".
La consumazione di atti di concorrenza illecita non appare - perciò - desunta esclusivamente dal passaggio di clienti alla nuova impresa, avendo la Corte di merito puntualmente individuato le condotte illegittime riconducibili alla previsione dell'art. 2598 n. 3 c.c.
Risulta correttamente valorizzato l'utilizzo di informazioni relative al numero, ai nominativi, alla scadenza dei rapporti e al contenuto dei rapporti dei clienti dell'I., sottolineando il fatto che l'impiego di tali informazioni aveva consentito di formulare tempestivamente - ai clienti in scadenza - offerte personalizzate, sfruttando un vantaggio competitivo che traeva origine dalla disponibilità delle informazioni carpite all'impresa di provenienza.
L'art. 2598 c.c., dopo aver delineato ai nn. 1 e 2, figure specifiche di concorrenza sleale, contiene, al n. 3, una previsione aperta, che il giudice deve riempire con riferimento alla naturale atipicità della realtà del mercato, ma comunque comportanti la rottura della regola della correttezza commerciale. In tale previsione rientrano tutte le condotte, ancorché non tipizzate, che siano coerenti con la descritta ratio legis e che abbiano come effetto l'appropriazione illecita del risultato di mercato dell'impresa concorrente (Cass. 3787/1996; Cass. 182/1988).
L'imprenditore deve ritenersi tutelato nei confronti di atti di concorrenza rivolti a carpirgli segreti nei procedimenti produttivi o in genere attinenti all'organizzazione dell'impresa, oltre che degli atti volti ad appurare con mezzi subdoli notizie che, senza che siano veri e propri segreti, l'impresa concorrente non ritenga di mettere a disposizione del pubblico (così già Cass. 2199/1971; Cass. 3010/1974).
Il fatto che le ricorrenti avessero utilizzato informazioni non oggetto di segreto industriale secondo la nozione recepita nell'art. 98 d.lgs. 30/2005, non escludeva la configurabilità dell'illecito, trattandosi comunque di "dati riservati" (cfr. sentenza, pag. 7 e 8).
Lo sviamento di clientela, posto in essere utilizzando notizie sui rapporti con i clienti di altro imprenditore, acquisite nel corso di una pregressa attività lavorativa svolta alle dipendenze di quest'ultimo, costituisce - difatti - concotta anticoncorrenziale, ove trattasi di notizie che, sebbene normalmente accessibili ai dipendenti, non siano destinate ad essere divulgate al di fuori dell'azienda (Cass. 12681/2007; Cass. 3011/1991; da ultimo, anche Cass. 6274/2016; Cass. 13550/2017), quando dal loro impiego consegua, come nello specifico, un indebito vantaggio competitivo.
Come si è osservato in dottrina, impedire lo sfruttamento di tali dati obiettivamente inerenti alla sfera del patrimonio aziendale non significa restringere le opportunità professionali dell'ex dipendente, ma costituisce un punto di equilibrio tra protezione dell'impresa e la valorizzazione della concorrenza.
2. Il secondo motivo denuncia la violazione dell'art. 2956 c.c. , ai sensi dell'art. 360, comma primo, n. 3 c.p.c., per aver la Corte di merito ritenuto che, in caso di cessazione dei rapporti alle dipendenze delle imprese concorrenti, non è richiesta la sussistenza di un patto di non concorrenza per sanzionare eventuali atti di sviamento della clientela. Sarebbe in ogni caso lecito il mero svolgimento di un'attività analoga da quella dell'impresa di provenienza, in mancanza di prova del compimento di condotte a carattere predatorio.
Anche tale motivo è infondato.
L'art. 2598, comma primo n. 3, c.c., stabilendo che compie atti di concorrenza sleale l'imprenditore che si avvalga - direttamente o indirettamente - di ogni mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui azienda - è norma in bianco e di chiusura della disciplina, diretta a riassumere tutte le ipotesi, diverse da quelle contemplate dai nn. 1 e 2 della disposizione (Cass. 25652/2014; Cass. 14793/2008), i cui unici presupposti applicativi sono costituiti dal possesso della qualità di imprenditore in capo ai soggetti coinvolti e l'esistenza - tra di essi - di una situazione di competizione o concorrenzialità sul piano imprenditoriale (Cass. 1259/1999; Cass. 17144/2009; Cass. 12364/2018).
La speciale responsabilità contemplata dalla norma richiede il compimento di atti non conformi alla correttezza professionale, che abbiano assunto una concreta connotazione lesiva degli interessi economici di un diverso imprenditore (Cass. 8215/2007).
Più precisamente il giudizio di responsabilità richiama i principi di correttezza professionale cogenti nell'ambito della categoria imprenditoriale: la norma impone, alle imprese operanti nel mercato, regole di correttezza e di lealtà, in modo che nessuna di esse si possa avvantaggiare, nella diffusione e collocazione dei propri prodotti o servizi, dall'adozione di metodi contrari all'etica delle relazioni commerciali (Cass. 4739/2012; Cass. 4458/1997).
Metro di valutazione della liceità della condotta sono - in concreto - gli interessi imprenditoriali concorrenti alla dinamica economica, in adesione ai principi ed ai limiti fissati dall'art. 41 della Costituzione ed oggi anche dalla disciplina comunitaria, finalizzati a garantire che il mercato conservi la qualità strutturale di luogo della libertà di iniziativa economica per chiunque pretenda di esercitare un'impresa commerciale (Cass. 2634/1983; Cass. 11589/1997; Cass. 10684/2000).
Il criterio della correttezza professionale, non più riconducibile ad una concezione corporativa dell'impresa, va dunque tratto dalla posizione della concorrenza nel sistema: la concorrenza libera viene lesa ogni volta che l'equilibrio delle condizioni del mercato venga compromesso con mezzi non consentiti.
L'art. 2598 e ss. c.c. costituisce - in tal modo - specificazione del generale dovere di non cagionare danni ingiusti ad altri (art. 2043 c.c.), riferito al campo della tutela dei prodotti dell'azienda e all'attività di impresa (in tal senso anche Cass. 2501/1922; Cass. 5901/2001).
La presenza di un patto di non concorrenza consente invece di configurare una responsabilità esclusivamente contrattuale, che deriva dalla mera violazione del patto stesso (cfr. Cass. 2501/1992 in tema di agenzia; Cass. 13658/2004; Cass. 5901/2001; Cass. 2677/1985, secondo cui "fuori dell'ipotesi di formale stipulazione di patto di non concorrenza a norma dell'art. 2125 c.c., gli atti di concorrenza sleale (art. 2598 c.c.) compiuti dopo la cessazione del rapporto di lavoro dall'ex dipendente in danno dell'ex datore di lavoro configurano un illecito extracontrattuale non ricollegabile al pregresso rapporto di lavoro).
Correttamente, quindi, la responsabilità delle ricorrenti ai sensi dell'art. 2598 n. 3 c.c. è stata affermata pur in assenza di un patto di non concorrenza, fondandosi il giudizio di responsabilità non sulla violazione di un impegno a non svolgere attività concorrenziale, volontariamente assunto dall'ex collaboratore, ma sulla consumazione di condotte sleali, lesive della sfera e della libertà dell'imprenditore concorrente.
Il ricorso è - per tali ragioni - respinto.
Nulla sulle spese, non avendo il resistente svolto difese.
Si dà atto, ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1- bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Dà atto, ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.