Tutto prende le mosse dalla circostanza che un cliente aveva ceduto il proprio credito all'indennizzo per violazione della ragionevole durata...
Svolgimento del processo
Tra i fratelli E. G. e G. L. inizia nel 2002 e si chiude l’11/02/2017 con Cass. 3655/2017 una lunga causa su un bene immobile, originata da una vicenda ereditaria. Qualche mese dopo, il 13/07/2017, il difensore di G. ottiene in cessione da quest’ultimo il correlativo credito all’equa riparazione ex l. 89/2001, in funzione di corresponsione di onorario per l’attività professionale svolta nella fase di cassazione del processo presupposto. Con ricorso dell’11/09/2017 alla Corte d'appello di Roma, l’Avv. P. aziona la pretesa all’equo indennizzo, quantificata in 3000 Euro, nei confronti del Ministero della Giustizia.
Avverso il decreto d’inammissibilità della domanda per difetto di esperimento dei rimedi preventivi ex art. 1-ter n. 6 l. 89/2001, l’Avv. P. propone ricorso in opposizione, in esito alla quale la Corte di appello constata sì un errore in cui è incorso il giudice designato, ma rigetta l’opposizione rilevando d’ufficio il difetto di legittimazione ad agire del ricorrente, sulla base delle seguenti premesse: (a) G. L. ha ceduto al proprio difensore il credito all’equo indennizzo, in funzione di pagamento dell’onorario per attività professionale;
(b) la cessione è avvenuta dopo la fine del processo presupposto (sebbene la Corte incorra in un errore materiale nell’indicare il 17/03/2016 come data dell’atto, cioè una data in cui il processo era ancora in corso); (c) non si applica la disciplina della successione a ti- tolo particolare ex art. 111 c.p.c. nel diritto oggetto di un processo;
(d) in relazione alla successione a titolo particolare nel diritto oggetto del processo presupposto, la giurisprudenza ritiene che, ai fini della domanda di equa riparazione ex l. 89/2001, la pretesa indennitaria di alienante e successore si quantifichi secondo la diversa durata della rispettiva partecipazione al processo, senza che l’uno possa avvalersi del diritto all'indennizzo dell’altro (così, tra le altre, Cass. 1200/2015); (e) l’Avv. P. non è stato parte del processo presupposto; (f) egli non può vantare alcuna pretesa all’equa riparazione.
Motivi della decisione
Con il primo motivo è dedotta la violazione degli artt. 1260, co. 1 c.c. e 111, 100 c.p.c., nonché la violazione – per contraddittorietà della motivazione - degli 132, n. 4 c.p.c. Il secondo motivo deduce la violazione degli artt. 1362, 1363 c.c., con riferimento all’interpretazione dell’atto di cessione del credito de quo. I due motivi possono essere esaminati congiuntamente, poiché essi convergono nel bersagliare con successo il paralogismo in cui è incorsa la Corte di appello nel tessere la trama sillogistica indicizzata in narrativa attraverso le lettere a-g dell’alfabeto. Il vizio non sembra discendere tanto dall’errore materiale nell’indicare la data della cessione del credito, quanto dall’aver applicato la concretizzazione giurisprudenziale della disciplina della successione a titolo particolare nel diritto oggetto del processo presupposto all’ipotesi radicalmente diversa del credito all’equa riparazione maturato al termine di tale processo e ceduto dalla parte al proprio difensore, a titolo di corrispettivo per una fase dell’attività professionale svolta da quest’ultimo nel processo presupposto.
Tale fallace sovrapposizione ha determinato d’un colpo la violazione dell’art. 111 c.p.c. e dell’art. 1260 c.c., spiegandosi così che la Corte abbia ritenuto l’Avv. P. privo della legittimazione ad agire nel distinto ed autonomo giudizio di recupero del credito all’equa riparazione: «non trattandosi di cessione del credito avvenuta nel corso del processo» e non avendo il difensore rappresentato la «lesione del di-ritto personale collegato al paterna d'animo subito per la violazione del termine di durata ragionevole del processo», collegato quindi «alla durata effettiva della sua presenza nel giudizio presupposto».
In realtà, come ha evidenziato persuasivamente il ricorrente, egli agisce al fine di ottenere l'indennizzo maturato integralmente in capo a G. L., suo assistito nella fase di legittimità del giudizio presupposto. In altre parole, l’avv. P. agisce per un indennizzo già spettante ad altri, che gli è stato validamente ceduto. Egli non pretende di agire al fine di ottenere un indennizzo maturato, sia pure per una fase processuale, in capo a lui medesimo. L’orientamento che la Corte di appello richiama a sostegno della propria decisione riguarda invece proprio quest’ultima fattispecie, in cui agisce in equa ripa- razione il successore a titolo particolare nel diritto controverso nel processo presupposto. In conclusione, il richiamo della Corte territoriale all'art. 111 c.p.c. è fuorviante e determina la violazione dell’art. 1260, co. 1 c.c. sulla cedibilità dei crediti, nel corollario della loro azionabilità in giudizio da parte del cessionario.
Quanto ai divieti legislativi di cessione dei crediti cui rinvia il comma appena citato, è superfluo aggiungere che la validità dell’atto di cessione de quo non incontra alcun ostacolo nell’art. 13, co. 4 l. 247/2012 (ordinamento della professione forense), poiché non è un patto con il quale «l'avvocato percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa», che sarebbe in questo caso una quota del diritto oggetto del processo presupposto, bensì un patto con il quale l’avvocato si è reso validamente cessionario di un diritto dipendente dal primo, cioè il di- ritto all’equa riparazione che si è originato dalla violazione della durata ragionevole del processo.
Ne consegue la fondatezza del ricorso e la necessità di cassare il provvedimento impugnato e di rinviare alla Corte di appello di Roma in diversa composizione, che deciderà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte cassa il provvedimento impugnato e rinvia alla Corte di appello di Roma in diversa composizione, che deciderà anche sulle spese del giudizio di legittimità.