La scelta della lavoratrice di dimettersi appena dopo l'astensione obbligatoria per maternità soggiace all'impossibilità di fruire delle ferie non godute in tale periodo.
La Corte d'Appello di Cagliari riformava la pronuncia di primo grado, rigettando la domanda della lavoratrice volta alla condanna del datore di lavoro al pagamento dell'indennità sostitutiva per ferie non godute delle quali ella non aveva potuto fruire poiché si trovava in congedo obbligatorio per maternità fino alla risoluzione del rapporto di lavoro per...
Svolgimento del processo
La Corte di appello di Cagliari, in riforma della sentenza di primo grado del Tribunale dello stesso capoluogo, ha rigettato la domanda di V. M., dipendente della Asl n. 8 di Cagliari nel periodo dal 7.9.2012 al 20.10.2013, di condanna al pagamento della indennità sostitutiva per ferie non godute, pari a 26 giorni, delle quali non ha potuto fruire perché in congedo obbligatorio per maternità dal 27 febbraio 2013 sino alla risoluzione del rapporto di lavoro per dimissioni.
Nel dettaglio, la Corte territoriale ha osservato che il rigetto della domanda della lavoratrice trova fondamento nell’applicazione dell’art. 5, comma 8, del d.l. n. 95 del 2012, convertito in legge n. 135 del 2012, norma che impedisce la monetizzazione delle ferie non godute.
Ha evidenziato come la norma abbia superato il vaglio di costituzionalità, avendone il giudice delle leggi, nella pronunzia n. 95 del 2016, delimitato l’ambito applicativo, ai casi in cui l’estinzione del rapporto ha avuto luogo per cause conoscibili con largo anticipo o riconducibili alla volontà del lavoratore, com’è appunto nel caso di specie in cui la dipendente si è dimessa.
Propone ricorso per cassazione la lavoratrice con due motivi.
Resiste con controricorso l’Asl n. 8 di Cagliari.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo del ricorso per cassazione viene dedotta, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. la violazione o falsa applicazione dell’art. 7, comma 2, della Direttiva CE del 4.11.2003 n. 88 e dell’art. 5, comma 8, del decreto legge n. 95 del 2012, convertito con modificazioni in L. n. 135 del 2012, per avere la Corte territoriale erroneamente negato la monetizzazione delle ferie non godute dalla ricorrente in applicazione dell’art. 5, comma 8, d.l. n. 95 del 2012, affermando che detta norma vieta la monetizzazione in ogni caso in cui l’estinzione del rapporto sia riconducibile alla volontà del lavoratore (nella specie, alle rassegnate dimissioni), laddove la disposizione così interpretata si pone in contrasto con l’art. 7, comma 2, della Direttiva CE n. 88/2003, che assoggetta la remunerazione delle ferie non godute alla mera cessazione del rapporto di lavoro congiunta al mancato godimento delle stesse.
2. Con la seconda censura si lamenta, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. la violazione o falsa applicazione dell’art. 5, comma 8, del d.l. n. 95 del 2012, conv. con modif. in l. n. 135 del 7.8.2012, perché la Corte d’appello, pur riconoscendo che l’art. 5, comma 8, del d.l. n. 95 del 2012 consente la monetizzazione delle ferie non godute nei casi di cessazione dal servizio nei quali l’impossibilità di fruirle non sia esclusivamente imputabile o riconducibile al dipendente, ha erroneamente ritenuto la cessazione dal servizio imputabile alla ricorrente per il solo fatto di essersi dimessa, trascurandone le motivazioni e le circostanze.
3. I due motivi stante l’intima connessione possono essere esaminati congiuntamente.
3.1. Al riguardo, in primo luogo, va premesso il dato normativo dell’art. 5, comma 8, del d.l. n. 95 del 2012, più volte ricordato, che recita: “ 8. Le ferie, i riposi ed i permessi spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato della pubblica amministrazione, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica (ISTAT) ai sensi dell'articolo 1, comma 2, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, nonché delle autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob), sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi. La presente disposizione si applica anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di età. Eventuali disposizioni normative e contrattuali più favorevoli cessano di avere applicazione a decorrere dall'entrata in vigore del presente decreto. La violazione della presente disposizione, oltre a comportare il recupero delle somme indebitamente erogate, è fonte di responsabilità disciplinare ed amministrativa per il dirigente responsabile. Il presente comma non si applica al personale docente e amministrativo, tecnico e ausiliario supplente breve e saltuario o docente con contratto fino al termine delle lezioni o delle attività didattiche, limitatamente alla differenza tra i giorni di ferie spettanti e quelli in cui è consentito al personale in questione di fruire delle ferie.”
3.2. In secondo luogo, è imprescindibile dare atto degli approdi della giurisprudenza costituzionale e della Corte di Giustizia, sul tema in esame, limitatamente a quanto rileva ai fini della presente decisione.
3.2.1. La Corte costituzionale nella sentenza n. 96 del 2016 ha dichiarato:
“Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 5, comma 8, del d.l. 6 luglio 2012, n. 95 (convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 135), impugnato, in riferimento agli artt. 3, 36, commi primo e terzo, e 117, primo comma, Cost., in quanto vieterebbe, nell'ambito del lavoro pubblico, di corrispondere trattamenti economici sostitutivi delle ferie non godute anche quando la mancata fruizione non sia imputabile alla volontà del lavoratore, come nel caso della malattia”. Nel percorso motivazionale seguito dalla pronunzia il Giudice delle leggi ha avuto modo di precisare che sia il dato letterale della norma che la ratio della stessa rivelano l’erroneità del presupposto interpretativo del remittente. Il legislatore, infatti, correla il divieto di monetizzazione a fattispecie in cui la cessazione del rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o a un comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti di età), che sempre consentono di pianificare per tempo la fruizione del periodo di riposo e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore e quelle del prestatore. Lo scopo della normativa è, infatti, quello di reprimere il ricorso incontrollato alla "monetizzazione" del periodo di ferie non goduto, contrastandone gli abusi, e di riaffermare la preminenza del godimento effettivo delle stesse, nell’alveo di una razionale programmazione, con lo scopo di favorire comportamenti virtuosi delle parti nel rapporto, ma senza arrecare alcun pregiudizio al lavoratore incolpevole.
Del resto, viene osservato, sia la prassi amministrativa che le decisioni della magistratura contabile escludono dall’ambito applicativo del divieto le vicende estintive del rapporto di lavoro che non dipendono dalla volontà del lavoratore e tutta la giurisprudenza di legittimità riconosce sempre al lavoratore il diritto ad un'indennità per le ferie non godute, quando il mancato godimento dipende da causa a lui non imputabile, e ciò anche quando difetti un'esplicita previsione negoziale in tal senso, ovvero quando la normativa settoriale formuli il divieto di "monetizzazione".
Ebbene, è di tutta evidenza che, se così interpretata nel solco della pronunzia del giudice costituzionale, la disciplina de qua non pregiudica affatto l'inderogabile diritto alle ferie, garantito da radicati principi espressi dalla Carta fondamentale nonché dalle fonti internazionali ed europee.
Né la normativa qui in discussione sopprime la tutela risarcitoria civilistica del danno da mancato godimento incolpevole delle ferie.
3.2.2. Quanto alla giurisprudenza della CGUE (in particolare nella causa 619/2016 del 6.11.2018 e nelle altre di seguito citate) emerge che:
- l’art. 7, paragrafo 2, della direttiva 2003/88, in particolare, riconosce al lavoratore il diritto a un’indennità finanziaria per i giorni di ferie annuali non goduti e che tale norma deve essere interpretata nel senso che essa osta a disposizioni o pratiche nazionali le quali prevedano che, al momento della cessazione del rapporto di lavoro, non sia versata alcuna indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non godute al lavoratore che non sia stato in grado di fruirle prima della cessazione di tale rapporto di lavoro, in particolare perché era in congedo per malattia per l’intera durata o per una parte del periodo di riferimento e/o di un periodo di riporto (sentenze del 20 gennaio 2009, C-350/06 e C-520/06, punto 62; del 12 giugno 2014, C-118/13, punto 17 e giurisprudenza ivi citata; del 20 luglio 2016, C- 341/15, punto 31, nonché del 29 novembre 2017, C- 214/16, punto 65);
- l’art. 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88 non osta, in linea di principio, a una normativa nazionale recante modalità di esercizio del diritto alle ferie annuali retribuite espressamente accordato da tale direttiva, che comprenda finanche la perdita del diritto in questione allo scadere del periodo di riferimento o di un periodo di riporto, purché, però, il lavoratore che ha perso il diritto alle ferie annuali retribuite abbia effettivamente avuto la possibilità di esercitare il diritto medesimo (sentenza del 20 gennaio 2009 C-350/06 e C-520/06, punto 43 e giurisprudenza ivi citata).
3.3. Osserva il Collegio che nel caso di specie si è verificata la sovrapposizione - peraltro solo apparente - di condizioni di segno opposto.
Da un lato, vi è stata la fruizione da parte della lavoratrice del congedo obbligatorio per maternità, fino alla data della cessazione del rapporto di lavoro, ovvero una delle ipotesi che secondo la giurisprudenza della CGUE fa sì che l’art. 7, paragrafo 1, della direttiva cit. sia ostativa a disposizioni o pratiche nazionali le quali prevedano che, al momento della cessazione del rapporto di lavoro, non sia versata alcuna indennità finanziaria per ferie annuali retribuite non godute al lavoratore che non sia stato in grado di fruirle. Né può porsi in dubbio che l’astensione obbligatoria per maternità sia riconducibile a tale alveo, essendo sostanzialmente sovrapponibile, ai fini che qui interessano, ad una condizione di malattia o comunque ad una ipotesi di impossibilità di fruizione indipendente dalla volontà del prestatore.
Per altro verso, è pure vero che, secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale ed innanzi ricordato, la monetizzazione delle ferie, nella specie, sarebbe preclusa dalla scelta operata dal lavoratore di recedere dal rapporto di lavoro con le dimissioni, come peraltro ritenuto dalla Corte di appello.
A ben vedere, tuttavia, nel caso in oggetto tale secondo principio non può essere applicato.
3.4. Nell’ipotesi in esame, infatti, va valorizzata, in relazione al periodo precedente le dimissioni, l’impossibilità per il datore di concedere le ferie, ma soprattutto per la lavoratrice di fruirne, essendo in astensione obbligatoria per maternità.
Questo rilievo deve avere la priorità, sia sul piano del bilanciamento degli interessi che su quello cronologico, rispetto alla scelta della lavoratrice di dimettersi.
In estrema sintesi, la M. non avrebbe in alcun modo potuto fruire delle ferie nel periodo di astensione obbligatoria e ciò rende neutra la circostanza che ella abbia poi scelto di dimettersi – come era suo diritto - per dar corso ad una nuova esperienza lavorativa.
3.5. Quindi, dell’art. 5, comma 8, d.l. n. 95 del 2012, conv. con modifiche in l. n. 135 del 2012, va data una interpretazione orientata alla luce dei principi tracciati dall’art. 7, comma 2, della Direttiva Ce n. 88 del 2003, come interpretato dalla giurisprudenza della CGUE, di tal che va riconosciuto il diritto all’indennità sostitutiva delle ferie anche nel caso di specie, in cui l’impossibilità di fruizione delle stesse è stata determinata dal versare la lavoratrice nella situazione che (pre e post parto) impone l’astensione obbligatoria dal lavoro.
Resta, invece, neutra nella peculiare situazione in esame la modalità di cessazione del rapporto, connessa alla scelta di dimettersi.
4. Alla luce di quanto precede, non essendosi la sentenza di appello conformata a quanto innanzi affermato, il ricorso va accolto.
La sentenza va quindi cassata con rinvio alla Corte di appello di Cagliari, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Cagliari in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.