La Cassazione ricorda che, secondo la disciplina transitoria, i dati relativi al traffico telefonico e telematico, acquisiti nei procedimenti penali prima dell'entrata in vigore del D.L. n. 132/2021, possono essere utilizzati solo unitamente ad altri elementi di prova ed esclusivamente per l'accertamento dei reati per i quali la legge stabilisce la pena dell'ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a tre anni.
L'imputata, dipendente della PA, impugna dinanzi alla Cassazione la sentenza con cui la Corte d'Appello l'aveva condannata in relazione al delitto di cui all'art. 55-quinquies D.Lgs. n. 165/2002.
Tra i motivi di doglianza, la ricorrente si duole della modalità di acquisizione dei dati relativi alla sua presenza in ufficio, in...
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 25/03/2021, la Corte d'Appello di Bologna ha parzialmente riformato la sentenza emessa dal Tribunale di Bologna, in data 19/02/2020, con la quale - per quanto qui specificamente rileva - V. C. T. era stata condannata alla p a di giustizia in relazione al delitto continuato di cui all'art. 55-quinquies d.lgs. n. 165 del 2001 (condotte poste in essere dal 13/02/2013 al 28/06/2013). In particolare, la Corte d'Appello ha dichiarato estinti per prescrizione i reati posti in essere fino al 24/06/2013, riducendo conseguentemente il trattamento sanzionatorio e confermando nel resto.
2. Ricorre per cassazione la V. C., a mezzo del proprio difensore, deducendo:
2.1. Violazione di legge con riferimento alla nullità del decreto di citazione a giudizio per indeterminatezza e genericità del capo di imputazione. Si censura la motivazione della Corte territoriale per aver disatteso il corrispondente motivo di appello, dato che il capo di accusa non solo non aveva precisato quale utenza (e di quale tipo) fosse stata presa in considerazione, ma neppure aveva indicato che si trattasse di una utenza telefonica. Si evidenzia, altresì, che non era stata presa affatto in considerazione l'utenza di servizio di cui la ricorrente era in possesso.
2. 2. Violazione di legge con riferimento al difetto di correlazione tra accusa e sentenza. Si censura la sentenza per aver richiamato la possibilità, ammessa dalla giurisprudenza, di condannare a titolo di concorso pur in presenza di una contestazione monosoggettiva, non essendo a tale principio seguita alcuna motivazione idonea a chiarire eventuali interventi di terzi nella timbratura del cartellino della ricorrente.
2.3. Violazione di legge con riferimento alla ritenuta utilizzabilità de i dati informatici relativi alla rilevazione della presenza dell'imputata in ufficio. Si lamenta il mancato rispetto delle procedure indicate dall'art. 247, comma 1-bis, cod. proc. pen., e la mera acquisizione documentale effettuata senza le garanzie di legge.
2.4. Violazione di legge con riferimento alle modalità di acquisizione dei dati relativi alla presenza in ufficio della ricorrente, ritenute in contrasto con i principi espressi dalla Corte di Giustizia con la sentenza H.K. del 2 marzo 2021.
2.5. . Vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta affidabilità delle celle telefoniche BTS per la geolocalizzazione dell'imputata. Si censura la motivazione addotta per aver superato le obiezioni di ordine tecnico sollevate, anche in relazione al fatto che l'individuazione dell'utenza telefonica utile in chiave accusatoria era stata effettuata valorizzando il tragitto casa-ufficio, e dunque attribuendo rilievo alle celle posizionate nel centro storico di Bologna, per altri aspetti ritenute inaffidabili.
2.6. Violazione di legge con riferimento alla mancata concessione delle attenuanti generiche. Si lamenta il mancato apprezzamento di elementi favorevoli (curriculum pluridecennale nella carriera prefettizia, limitato arco temporale comprendente i fatti contestati, mancata reiterazione degli stessi nel corso degli anni) da parte della Corte territoriale dinanzi ad uno specifico motivo di appello.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è inammissibile, in quanto tutti manifestamente infondati. motivi ivi dedotti sono.
1.1. In via preliminare, occorre richiamare quella giurisprudenza di legittimità alla stregua della quale «ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, ricorre la cd. "doppia conforme" quando la sentenza di appello, nella sua struttura argomentativa, si salda con quella di primo grado sia attraverso ripetuti richiami a quest'ultima sia adottando gli stessi criteri utilizzati nella valutazione delle prove, con la conseguenza che le due sentenze possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale» (Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218 - 01).
Tale principio appare certamente applicabile nel caso di specie, nonostante la parzìale riforma della condanna dell'imputata in ragione dell'intervenuta prescrizione delle condotte poste in essere fino al 24/06/2013, in quanto la sentenza della Corte d'Appello, nel suo iter motivazionale, "si salda" (nel senso appena precisato) con quella del Tribunale di Bologna, dovendo quindi le due pronunce essere lette congiuntamente.
A ciò si aggiunga che, secondo quanto affermato da questa Suprema Corte, «è inammissibile il ricorso per cassazione che riproduce e reitera gli stessi motivi prospettati con l'atto di appello e motivatamente respinti in secondo grado, senza confrontarsi criticamente con gli argomenti utilizzati nel provvedimento impugnato ma limitandosi, in maniera generica, a lamentare una presunta carenza o illogicità della motivazione» (Sez. 2, n. 27816 del 22/03/2019, Rovinelli, Rv. 276970 - 01).
Anche tale principio deve qui trovare applicazione, dal momento che la ricorrente omette di confrontarsi con il coerente ed esaustivo impianto motivazionale fornito dai giudici di merito, limitandosi a reiterare, in quasi tutti i motivi di ricorso, le doglianze già prospettate nell'atto di appello.
2. Quanto appena esposto trova un concreto riscontro già nell'analisi del primo motivo, con il quale la ricorrente, nel dedurre la nullità del decreto di citazione a giudizio per indeterminatezza e genericità del capo di imputazione, non si confronta affatto con la motivazione fornita dalla Corte d'Appello di Bologna la quale, richiamando la consolidata giurisprudenza di legittimità, ha correttamente ritenuto sufficiente l'individuazione all'interno dell'imputazione dei tratti essenziali del fatto di reato, dotati di adeguata specificità in modo da consentire all'imputato di difendersi (si veda Sez. 5, n. 16993 del 02/03/2020, Latini, Rv. 279090 - 01).
Invero, dal momento che la ratio della specificità dei capi di accusa risiede nella garanzia del diritto di difesa, la giurisprudenza di questa Suprema Corte ha più volte precisato che «ai fini della completezza dell'imputazione, è sufficiente che il fatto sia contestato in modo da consentire la difesa in relazione ad ogni elemento di accusa, sicché è legittimo il ricorso al rinvio agli atti del fascicolo processuale, purché si tratti di atti intellegibili, non equivoci e conoscibili dall'imputato» (Sez. 5, n. 10033 del 19/01/2017, Ioghà e altro, Rv. 269455 - 01, sentenza pronunciata in un caso nel quale la Corte ha ritenuto chiaramente contestato il fatto in relazione ad un'imputazione di bancarotta fraudolenta patrimoniale costruita mediante riferimento alle "immobilizzazioni" risultanti dal bilancio di una specifica annualità).
Nel caso di specie, emerge chiaramente dalle sentenze di merito che l'imputata ha potuto esercitare il proprio diritto di difesa con riferimento sia alle utenze oggetto di indagini, sia alla tipologia di accertamenti effettuati (aspetti puntualmente affrontati dai giudici di merito: v. in particolare pag. 3 della sentenza di primo grado).
3. Il secondo motivo è manifestamente infondato, in quanto la Corte d'Appello ha correttamente escluso il difetto di correlazione tra accusa e sentenza poiché, così come affermato dalla costante giurisprudenza di questa Suprema Corte, tale violazione non sussiste «quando, contestato a taluno un reato commesso uti singulus, se ne affermi la responsabilità in concorso con altri» (Sez. 2, n. 22173 del 24/04/2019, Michetti, Rv. 276535 - 01).
Occorre precisare, tra l'altro, che la giurisprudenza di legittimità richiamata dalla ricorrente, alla stregua della quale «costituisce violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza la condanna a titolo di cooperazione nel delitto colposo a fronte dell'imputazione monosoggettiva del reato colposo» (Sez. 4, n. 48318 del 12/11/2009, P.C. in proc. Gigli e altri, Rv. 245737 - 01), è espressione di un orientamento giurisprudenziale ormai ampiamente superato.
Un intervento delle Sezioni Unite di poco successivo alla giurisprudenza sopra citata ha, infatti, chiarito che «in tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione» (Sez. U, n. 36551 del 15/07/2010, Carelli, Rv. 248051 - 01, sentenza resa con riguardo ad una fattispecie relativa a contestazione del delitto di bancarotta post fallimentare qualificato dalla S.C. come bancarotta pre-fallimentare).
A partire da questa pronuncia, le Sezioni semplici di questa Suprema Corte hanno specificato che «la violazione del principio di correlazione tra l'accusa e l'accertamento contenuto in sentenza si verifica solo quando il fatto accertato si trovi, rispetto a quello contestato, in rapporto di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale tale da recare un reale pregiudizio dei diritti della difesa» (Sez. 4, n. 4497 del 16/12/2015, dep. 2016, Addio, Rv. 265946 - 01); nonché che «non sussiste violazione del principio di necessaria correlazione tra accusa e sentenza quando vi è corrispondenza tra l'individuazione degli elementi tipici della fattispecie contestata e l'accertamento contenuto nella sentenza di condanna, a nulla rilevando eventuali difformità quantitative e qualitative degli elementi di definizione della condotta, dell'evento e del nesso causale in considerazione della relatività delle tecniche descrittive utilizzate nella redazione della imputazione» (Sez. 2, n. 12328 del 24/10/2018, dep. 2019, Rv. 276955 - 01).
Alla luce di quanto fin qui esposto, risulta incensurabile la motivazione fornita dalla Corte d'Appello di Bologna, mediante il richiamo alla sopra citata sentenza Sez. 2, n. 22173 del 24/04/2019.
4. Anche il terzo motivo di ricorso omette di confrontarsi con la sentenza della Corte d'Appello di Bologna: è stata, infatti, ivi correttamente rilevata l'inapplicabilità nel caso di specie dell'art. 247, comma 1- bis, cod. proc. pen. e delle relative garanzie previste in tema di ricerca della prova mediante perquisizione di un sistema informatico o telematico, dal momento che la Polizia Giudiziaria si era limitata ad acquisire un documento fornito dalla Prefettura, nel quale erano riportati i dati delle presenze in ufficio della V. C..
Al contrario di quanto sostenuto dalla ricorrente, la possibilità che l'autorità giurisdizionale richieda direttamente la consegna di una cosa determinata - nel caso di specie, del documento sopra indicato - senza eseguire la relativa perquisizione volta a ricercarla, non comporta alcuna violazione, né alcuno "svilimento" dell'art. 247, comma 1-bis cod. proc. pen., essendo espressamente prevista e consentita dall'art. 248 cod. proc. pen.
5. Con il quarto motivo di ricorso, la V. C. si duole dell'asserita violazione della direttiva 2002/58/CE relativa alla vita privata e alle comunicazioni elettroniche, così come interpretata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia (v. sentenza H.K. del 2 marzo 2021, resa nella causa C-746/18), lamentando l'insussistenza, nel caso di specie, dei presupposti ivi indicati.
In particolare, secondo tale interpretazione, l'accesso ai dati relativi alle comunicazioni elettroniche e all'ubicazione è possibile solo se circoscritto a procedure aventi per scopo la lotta contro le forme gravi di criminalità o la prevenzione di gravi minacce alla sicurezza pubblica e solo se tali procedure siano presidiate da un giudice o da un'autorità amministrativa indipendente.
Anche tale doglianza risulta essere manifestamente infondata per le ragioni che seguono.
La giurisprudenza di questa Suprema Corte aveva ritenuto non applicabili immediatamente i principi affermati dalla richiamata sentenza della Corte di Giustizia fino all'intervento del legislatore, unico soggetto legittimato a compiere valutazioni di carattere discrezionale, quali quelle richieste nella materia de quo - (cfr. Sez. 2, n. 33116 del 02/07/2021, Avram; v. anche Sez. 5, n. 45275 del 26/10/2021, P.M. c. ignoti, Rv. 282287 - 01, la quale ha conseguentemente escluso profili di abnormità nella decisione di non luogo a provvedere del G.i.p. che aveva ritenuto competente il Pubblico Ministero).
Il legislatore italiano è successivamente intervenuto emanando il d.l. 30 settembre 2021 n. 132 poi convertito con modificazioni dalla legge 23 novembre 2021, n. 178, di modifica - per quel che qui rileva - del terzo comma dell'art. 132 d.lgs. n. 196 del 2003. In particolare, l'art. 1, comma 1-bis della legge sopra citata ha introdotto una disciplina transitoria, alla stregua della quale "i dati relativi al traffico telefonico, al traffico telematico e alle chiamate senza risposta, acquisiti nei procedimenti penali in data precedente alla data di entrata in vigore del presente decreto, possono essere utilizzati a carico dell'imputato solo unitamente ad altri elementi di prova ed esclusivamente per l'accertamento dei reati per i quali la legge stabilisce la pena dell'ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a tre anni, determinata a norma dell'articolo 4 del codice di procedura penale, e dei reati di minaccia e di molestia o disturbo alle persone con il mezzo del telefono, quando la minaccia, la molestia o il disturbo sono gravi".
È qui opportuno sottolineare che la suddetta disciplina transitoria ha già trovato applicazione della giurisprudenza di questa Suprema Corte, che l'ha ritenuta pienamente compatibile con gli artt. 15, paragrafo 1, della già citata Dir. 2002/58/CE (modificata dalla Dir. 2009/136/CE) relativa al trattamento dei dati personali e alla tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni e con gli artt. 7, 8, 11 e 52, paragrafo I, CDFUE, come interpretati dalla Corte di Giustizia nella richiamata sentenza H.K. (v. Sez. 3, n. 11991 del 31/01/2022). In particolare, in motivazione è stato chiarito, tra l'altro, che la normativa transitoria « [ ... ] ha, in una visione di ragionevole ed equilibrato contemperamento di interessi diversi, inteso perseguire la logica non dispersione di dati già acquisiti condizionata, tuttavia, ai nuovi parametri di significativa illiceità penale delle ipotesi per le quali la acquisizione dei dati è consentita e alla sussistenza di "altri elementi di prova", quale requisito di "compensazione" rispetto alla mancanza di un provvedimento di acquisizione, fino ad oggi non richiesto, da parte del giudice [ ... ]».
Alla luce di quanto detto, l'utilizzo dei tabulati telefonici da parte dei giudici di merito risulta pienamente conforme alla richiamata disciplina transitoria, dal momento che il reato contestato alla ricorrente è punito nel massimo con la pena della reclusione fino a cinque anni e che i suddetti dati sono stati valorizzati all'interno di un compendio probatorio comprendente sia alcune risultanze dichiarative (in particolare la deposizione di MARGHIACCI Elisabetta richiamata a pag. 6 della sentenza di primo grado), sia la documentazione composta dai cartellini orari dei dipendenti acquisiti in copia dall'ufficio del personale (v. pag. 3 della sentenza di primo grado).
6. Con il quinto motivo di ricorso, la ricorrente lamenta l'asserita scarsa affidabilità delle celle telefoniche BTS ai fini dell'individuazione dell'imputata stessa.
Deve al riguardo osservarsi, in primo luogo, che anche in questo caso difetta un adeguato confronto con la puntuale motivazione fornita dalla Corte d'Appello di Bologna. Quest'ultima aveva, infatti, chiarito che il raggio di copertura delle celle telefoniche giunge fino a 35 km di distanza soltanto laddove ci si trovi in contesti privi di ostacoli naturali e/o umani ed in assenza di altre celle telefoniche, il che può verificarsi in alta montagna o in mezzo al mare, ma certamente non nel centro di Bologna, dove è situata la Prefettura (v. pag. 7 della sentenza di appello).
Del tutto inconferente è poi il richiamo difensivo alla giurisprudenza di questa Suprema Corte, alla stregua della quale la presenza di un telefono in una cella dimostra solo che l'utilizzatore del telefono si trova in quella zona, peraltro piuttosto estesa, e che tale elemento rappresenta solo un indizio, il quale può pertanto condurre ad una sentenza di condanna soltanto se ricorrono altri indizi ugualmente gravi, precisi e concordanti (v. sentenza del 23/08/2019 n. 36380).
Invero, a differenza di quanto affermato dalla V. C., da una lettura complessiva del quadro probatorio sul quale si fondano entrambi i gradi di giudizio non soltanto emerge chiaramente la riconducibilità all'imputata delle utenze oggetto degli accertamenti svolti dalla Polizia Giudiziaria (v. pagg. 6-7 della sentenza di appello), ma è evidente altresì che la prova della realizzazione del reato di cui all'art. 55-quinquies cit. - mediante spostamenti in orario di lavoro per ragioni non determinate da esigenze di servizio - non si fonda esclusivamente sui tabulati telefonici, essendo corroborata dalle dichiarazioni dei testi e da i cartellini orari dei dipendenti, acquisiti in copia dall'ufficio del personale (v. pagg. 3-4 e 6-7 della sentenza di primo grado).
Assolutamente privo di pregio è infine l'argomento che, a dire della difesa, sarebbe invece decisivo: le celle del centro di Bologna sarebbero state considerate inaffidabili e quindi scartate ai fini della geolocalizzazione dell imputata dalla Polizia Giudiziaria, con la conseguenza che, sempre secondo la ricorrente, la motivazione del giudice di merito dovrebbe essere ritenuta intrinsecamente contraddittoria nella misura in cui valorizza quelle stesse celle.
In realtà, di tutt'altro tenore sono le considerazioni svolte dalla Polizia Giudiziaria, che, come si evince dalla lettura della sentenza di primo grado (in particolare v. pag. 6), ha escluso dalle indagini - per prudenza e per scrupolo, nonché in un'ottica di favor rei - tutti gli spostamenti minimi intorno alla Prefettura, essendo difficile stabilire l'esatta cella del centro occupata dall'utenza. In ragione di ciò, sono stati considerati soltanto gli spostamenti effettuati dalla sede di lavoro verso i luoghi della città molto distanti dalla Prefettura, e da tale analisi è emerso che più volte le celle telefoniche agganciate durante l'orario di lavoro coincidevano con luoghi situati al di fuori del centro di Bologna in cui si trova la Prefettura, in località dove non risultavano essersi svolte attività istituzionali richiedenti la partecipazione in trasferta della V. C. (v. pag. 7 della sentenza di primo grado).
7. Con il sesto motivo di ricorso, la ricorrente si duole dell'asserita violazione dell'art. 62-bis cod. pen., in quanto la Corte d'Appello di Bologna avrebbe negato l'applicazione delle circostanze attenuanti generiche a favore dell'odierna imputata con motivazione del tutto sommaria.
A tal proposito, occorre preliminarmente richiamare quella giurisprudenza di legittimità, secondo la quale «le ragioni del diniego dei benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale possono ritenersi implicite nella motivazione con cui il giudice neghi le circostanze attenuanti generiche richiamando i profili di pericolosità del comportamento dell'imputato, dal momento che il legislatore fa dipendere la concessione dei predetti benefici dalla valutazione degli elementi indicati dall'art. 133 cod. pen.» (Sez. 4, n. 34754 del 20/11/2020, Abbate, Rv. 280244 - 05). Di conseguenza è certamente possibile, a contrario, ricavare le ragioni del diniego delle circostanze attenuanti generiche dal diniego dei benefici di cui sopra.
A ciò si aggiunga che, come è noto, «al fine di ritenere o escludere le circostanze attenuanti generiche il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall'art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all'entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può risultare all'uopo sufficiente» (Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020, Marigliano, Rv. 279549 - 02).
Nel caso di specie, dalla lettura congiunta delle due sentenze di merito emerge la sussistenza di una motivazione logicamente coerente e pienamente esaustiva, soprattutto laddove integrata con il punto della sentenza di primo grado concernente - nell'ambito del trattamento sanzionatorio - la mancata concessione della sospensione condizionale della pena, da cui è possibile ricavare implicitamente ulteriori ragioni volte a corroborare il suddetto diniego (v. pag. 9 della sentenza di primo grado).
È stata, infatti, valorizzata, non soltanto l'assenza di elementi positivi (v. pag. 8 della sentenza di appello), ma anche la gravità delle condotte, il numero rilevante delle stesse e l'ampiezza dell'arco temporale in cui sono state realizzate, elementi che hanno impedito al giudice di merito di formulare un giudizio prognostico di futura astensione da condotte della stessa specie, in ragione anche del fatto che tali condotte si sono interrotte solo a seguito della conoscenza dell'indagine amministrativa interna alla prefettura, la cui gravità non è stata peraltro riconosciuta neppure a distanza di anni (v. pag. 9 della sentenza di primo grado).
8. Con l'ultimo motivo di ricorso, la V. C. si duole dell'omessa motivazione sulla richiesta di concessione della sospensione condizionale della pena, specificamente formulata nell'atto di appello.
Occorre preliminarmente richiamare quella giurisprudenza di legittimità, alla stregua della quale «in tema di impugnazioni, il mancato esame, da parte del giudice di secondo grado, di un motivo di appello non comporta l'annullamento della sentenza quando la censura, se esaminata, non sarebbe stata in astratto suscettibile di accoglimento, in quanto l'omessa motivazione sul punto non arreca alcun pregiudizio alla parte e, se trattasi di questione di diritto, all'omissione può porre rimedio, ai sensi dell'art. 619 cod. proc. pen., la Corte di cassazione quale giudice di legittimità» (Sez. 3, n. 21029 del 03/02/2015, Dell'Utri, Rv. 263980).
Nel caso di specie deve farsi applicazione di tale orientamento giurisprudenziale in quanto, dalla lettura della sentenza di appello (v. pag. 1) e del certificato penale della V. C., emerge che quest'ultima è stata condannata, per il concorrente delitto di truffa aggravata commesso con le medesime condotte, con sentenza divenuta irrevocabile il 21/10/2020 - e quindi prima della pronuncia della sentenza di appello, emessa in data 25/03/2021 - alla pena di anni uno e mesi tre di reclusione: pena che, sommata a quella irrogata nel presente procedimento, pari ad anni uno e giorni quindici, avrebbe comunque impedito al giudice di merito di concedere il suddetto beneficio, in ragione di quanto previsto dall'art. 164, quarto comma, cod. pen.
In ragione di ciò, pur a fronte di un effettivo silenzio motivazionale della Corte d'Appello di Bologna, il predetto motivo non può trovare accoglimento in questa sede.
9. È d'uopo, infine, precisare che la manifesta infondatezza di tutti i motivi e la conseguente inammissibilità del ricorso, non consentendo il valido radicamento del rapporto processuale in questa sede, impediscono l'accoglimento della richiesta di annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per prescrizione, formulata dal difensore in udienza.
10. Per le ragioni sopra esposte, si impone la declaratoria di inammissibilità del ricorso e la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e di Euro tremila a favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e di Euro tremila a favore della Cassa delle Ammende.