
È perseguibile per dichiarazione infedele il promissario venditore che trattiene la caparra per inadempimento della controparte ma non la dichiara. La somma può, infatti, costituire reddito imponibile.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 05/04/2019, la Corte di appello di Messina, in parziale riforma della sentenza emessa il 22/06/2018 dal Tribunale di Barcellona Pozzo di Gozzo- che aveva dichiarato I.A. responsabile del reato di cui all'art. 4 d.lgs 74/2000 e lo aveva condannato alla pena sospesa di anni uno e mesi sei di reclusione con confisca dei beni nella disponibilità dell'imputato per un valore pari al profitto del reato - dichiarava non doversi procedere nei confronti dell'imputato in ordine al reato ascritto perché estinto per prescrizione e confermava la confisca limitatamente alla somma di denaro in sequestro pari ad euro 241.485,02.
2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione I.A. a mezzo del difensore di fiducia, articolando due motivi di seguito enunciati.
Con il primo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza del reato contestato, lamentando che i Giudici di appello avevano confermato la valutazione del Tribunale senza determinare la natura del corrispettivo versato al ricorrente in sede di stipula del contratto preliminare e senza considerare se esso fosse qualificabile in termini di caparra confirmatoria, clausola penale o caparra penitenziale, al fine di ritenerlo reddito assoggettabile ad imposizione diretta; neppure era stato considerato che la somma era stata percepita dalla persona fisica che aveva agito nell'ambito della propria sfera privatistica e che essa, vista anche la natura del compendio immobiliare non in grado di generare plusvalenze tassabili, non costituiva reddito tassabile, non essendoci alcun incremento di ricchezza; l'imputato, quindi, avrebbe dovuto essere assolto e revocata la disposta confisca.
Con il secondo motivo deduce violazione degli arrt. 240 cod.pen., 322 ter cod.pen. e 7 CEDU, argomentando che i Giudici di appello avevano disposto la confisca delle somme di denaro (conti correnti e polizze assicurative) pari ad euro 241.485,20 oggetto di precedente sequestro, qualificandola come confisca diretta avendo ritenuto che la predetta somma costituisse il prezzo del reato confiscabile ai sensi del disposto degli artt. 322 e 240cod.pen. anche in caso di estinzione del reato per prescrizione; tale decisione era errata perché la Corte territoriale non aveva effettuato alcuna valutazione in ordine alla sussistenza del nesso di pertinenzialità tra reato e denaro; inoltre, risultando il reato insussistente alla luce delle doglianze mosse in sede di legittimità, la confisca non poteva essere legittimamente disposta.
Chiede, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata.
3. Si è proceduto in camera di consiglio senza l'intervento del Procuratore generale e dei difensori delle parti, in base al disposto dell'art. 23, comma 8 d.l. 137/2020, conv. in I. n. 176/2020.
Motivi della decisione
1. Il primo motivo di ricorso è infondato.
Va osservato che, in caso di conforme affermazione di responsabilità, il giudice di secondo grado, nell'effettuare il controllo in ordine alla fondatezza degli elementi su cui si regge la sentenza impugnata, non è chiamato ad un puntuale riesame di quelle questioni riportate nei motivi di gravame, sulle quali si sia già soffermato il primo giudice, con argomentazioni che vengano ritenute esatte e prive di vizi logici, non specificamente e criticamente censurate.
In tale caso, infatti, le motivazioni della pronuncia di primo grado e di quella di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità detta motivazione, tanto più ove i giudici dell'appello abbiano esaminato le censure con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione, cosicchè le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscano una sola entità (Sez.3, n.44418 del 16/07/2013, Rv.257595; Sez. 2 n. 34891 del 16.05.2013, V., Rv. 256096, non massimata sul punto; conf. Sez. 3, n. 13926 del 1.12.2011, dep. 12.4.2012, V., Rv. 252615: sez. 2, n. 1309 del 22.11.1993, dep. 4.2.1994, A. ed altri, Rv. 197250).
Né il ricorrente può fondatamente dolersi delta mancanza di una più approfondita disamina dei motivi di appello, atteso che, come già è stato chiarito (Sez.4, n.19043 del 29/03/2017, Rv.269886; Sez. 2, n. 19619 del 13/02/2014, Bruno, Rv. 25992901; Sez. 5, n. 3751 del 15/02/2000, Re Carlo, Rv. 21572201), è legittima la motivazione delta sentenza di appello che, disattendendo le censure dell'appellante, si uniformi, sia per la ratio decidendi, sia per gli elementi di prova, ai medesimi argomenti valorizzati dal primo giudice, soprattutto se la consistenza probatoria di essi è così prevalente e assorbente da rendere superflua ogni ulteriore considerazione. Nell'ipotesi in cui siano dedotte, come nella specie puntualmente ha rilevato la Corte di Appello, questioni già esaminate e risolte in primo grado, il giudice dell'impugnazione può motivare per relationem.
Ciò posto, dall'esame congiunto delle sentenze di primo grado e di appello (che, com'è noto si integrano reciprocamente: Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013 - dep. 04/11/2013, Argentieri, Rv. 257595), risulta palese l'infondatezza della censura, atteso che la Corte d'appello, con motivazione stringata ma adeguata e priva di vizi logici, ha indicato nell'impugnata sentenza le ragioni fondanti il giudizio di responsabilità del ricorrente per il reato in questione richiamando le valutazioni in fatto e le argomentazioni in diritto del primo Giudice.
Il Tribunale, compiutamente esaminando la documentazione in atti e le pattuizioni intercorse tra le parti, aveva evidenziato che l'art. 6 del contratto preliminare di vendita concluso tra l'imputato, quale promittente venditore unitamente a I.M.T., e L.G., quale parte promissaria acquirente, prevedeva la corresponsione della somma di euro 800.000,00 quale acconto prezzo e, in caso di inadempimento, quale somma che la parte promittente venditrice avrebbe incamerato "a titolo di penale"; alla luce della giurisprudenza di legittimità richiamata in sentenza, quindi, il primo giudice aveva ritenuto che la somma di euro 800.000,00 - trattenuta dall'imputato nell'anno 2009, con missiva del 12.01.2011, quale promittente venditore, a seguito all'inadempimento del contratto preliminare da parte del promissario acquirente,- costituiva reddito imponibile a fini IRPEF e, come tale avrebbe dovuto essere oggetto della relativa dichiarazione nell'anno 2010.
La decisione, congruamente e logicamente motivata in fatto, è corretta in punto di diritto.
Va evidenziato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte /la caparra confirmatoria risponde ad autonome funzioni: oltre a costituire, in generale, indizio della conclusione del contratto cui accede, incita le parti a darvi esecuzione, considerato che colui che l'ha versata potrà perdere la relativa somma e la controparte potrà essere, eventualmente, tenuta a restituire il doppio di quanto ricevuto in caso di inadempimento ad essa imputabile; può svolgere, inoltre, funzione di anticipazione del prezzo, nel caso di regolare esecuzione del contratto preliminare, costituendo, invece, un risarcimento forfetario in caso d'inadempimento di questo, poichè il suo versamento dispensa dalla prova del quantum del danno subito in caso di inadempimento della controparte, salva la facoltà di richiedere il risarcimento del maggior danno; mentre nell'ipotesi di regolare adempimento del contratto preliminare, la caparra è imputata sul prezzo dei beni oggetto dei definitivi, assoggettabili ad iva, andando ad incidere sulla relativa base imponibile e, prima ancora, ad integrare il presupposto impositivo dell'imposta, in base al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 6, comma 4, l'inadempimento ne propizia il trattenimento, che serve a risarcire il promittente venditore" (Cass. civ. Sez.5, n. 17868 del 23/06/2021, Rv.661684 - 01; Cass. civ. Sez. 5, del 1.10.2019, dep. 17/3/2020, n. 7340; Cass. civ., Sez. 5 del 19/09/2018, dep. 8 febbraio 2019, n. 3736; Cass. civ., Sez.6-5, n.10306 del 20/05/2015, Rv. 635436 - 01).
L'esenzione dal pagamento dell'IVA non esclude, però, che la somma trattenuta a titolo di risarcimento forfetario per l'inadempimento dell'obbligo dì stipula del contratto definitivo rientri nel concetto di "reddito prodotto", perchè riferibile ad un danno forfettariamente determinato, comprensivo di un lucro cessante essendo rimasto il bene immobile nella disponibilità del percettore della caparra.
È stato, infatti, affermato che "l'inquadramento della clausola penale rientra pienamente nel disposto dell'art. 6, coma 2, del tuir, secondo il quale sono considerati redditi della stessa categoria di quelli perduti "le indennità conseguite a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di diritti", concordando la dottrina nell'affermare che, in caso di inadempimento dell'obbligazione principale, la rilevanza dell'imposizione diretta della corresponsione della penale ha per base la visione civilistica della fattispecie come essenzialmente risarcitoria"; "in seno all'incremento patrimoniale che si verifica a vantaggio della parte non Inadempiente, con l'introito della penale, sono state Individuate, ai fini tributari, una componente risarcitoria della perdita subita ed una componente risarcitoria del mancato guadagno; quest'ultima "è assimilata a reddito, e quindi assoggettata ad imposizione diretta, in quanto surrogatoria del mancato reddito a causa dell'inadempimento dell'altro contraente. Per l'individuazione di tali componenti all'interno della prestazione risarcitoria si è fatto ricorso al criterio riferito all'attitudine a produrre reddito della prestazione principale rimasta ineseguita. In caso affermativo, l'introito della penale viene a sua volta considerato reddito per la parte afferente a tale mancato reddito. Ne consegue che la penale è assoggettabile ad imposizione diretta, in quanto la prestazione principale rimasta ineseguita (cessione dell'immobile) avrebbe costituito reddito ai sensi dell'art. 67, comma 1, tuir. (cfr, in termini, Sez 5 n. 11307/2016).
Nella specie, quindi, la somma incamerata dall'imputato costituiva il risarcimento della perdita di proventi che, per loro natura, avrebbero generato redditi tassabili per un soggetto privato, con il conseguimento di una plusvalenza ai sensi dell'art. 67 del tuir".
Correttamente, pertanto, la Corte territoriale ha ritenuto integrato il reato contestato.
2. Il secondo motivo di ricorso è infondato.
Le Sezioni Unite (Sez. U n. 10561 del 30.01.2014, G.; Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, L.) hanno affermato che qualora il prezzo o il profitto derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme di cui il soggetto abbia comunque la disponibilità deve essere sempre qualificata come confisca diretta; in tal caso, tenuto conto della particolare natura del bene, non occorre la prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della confisca e il reato»; e si è precisato, a tal fine, che «ove il profitto o il prezzo del reato sia rappresentato da una somma di denaro, questa, non soltanto si confonde automaticamente con le altre disponibilità economiche dell'autore del fatto, ma perde - per il fatto stesso di essere ormai divenuta una appartenenza del reo - qualsiasi connotato di autonomia quanto alla relativa identificabilità fisica.
Tale orientamento è stato ribadito dalle Sezioni Unite con la più recente pronuncia, Sez. U, n. 42415 del 27/5/2021, C., Rv. 282037, nella quale si è affermato che "la confisca del denaro costituente profitto o prezzo del reato, comunque rinvenuto nel patrimonio dell'autore della condotta, e che rappresenti l'effettivo accrescimento patrimoniale monetario conseguito, va sempre qualificata come diretta, e non per equivalente, in considerazione della natura fungibile del bene, con la conseguenza che non è ostativa alla sua adozione l'allegazione o la prova dell'origine lecita della specifica somma di denaro oggetto di apprensione). In particolare, è stato chiarito che" la peculiare natura del "bene -denaro" costituente il prezzo o il profitto del reato conforma i tratti e la disciplina della confisca che lo abbia ad oggetto. A tal fine , quale numerario fungibile destinato ex lege a servire da mezzo di pagamento, esso è infatti ontologicamente e normativamente indifferente all'individuazione materiale del relativo supporto nummario: natura e funzione del denaro rendono recessiva la sua consistenza fisica, determinando la sua autonoma confusione nel patrimonio del reo, che ne risulta correlativamente accresciuto"; e si è precisato che risultano irrilevanti le vicende che abbiano in ipotesi interessato la somma riveniente dal reato una volta che la stessa - intesa per sua natura quale massa monetaria fungibile- sia stata reperita nel patrimonio del reo al momento dell'esecuzione della misura ablativa o, se del caso, del prodromico vincolo cautelare; ed ancora che "per il denaro, il nesso di pertinenzialità con il reato, non può essere inteso come fisica identità della somma confiscata rispetto al provento del reato, ma consiste nella effettiva derivazione dal reato dell'effettivo accrescimento patrimoniale conseguito dal reo, che sia ancora rinvenibile, nella stessa forma monetaria, nel suo patrimonio".
Alla luce delle superiori argomentazioni la doglianza difensiva risulta, quindi, destituita di fondamento, avendo la Corte territoriale fatto buon governo del suesposto principio di diritto.
3. Consegue, pertanto, il rigetto del ricorso e, in base al disposto dell'art. 616 cod.proc.pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.