La Cassazione risponde al quesito precisando cosa accade al contratto stipulato tra le parti e sulla base di quali parametri va liquidato il compenso, evidenziando che il danno da illegittimo patrocinio è da provare.
L'attuale ricorrente proponeva appello dinanzi al Tribunale di Salerno per chiedere la riforma della sentenza di primo grado con la quale era stata parzialmente accolta la sua opposizione contro il decreto ingiuntivo ottenuto da un avvocato che lo aveva assistito nell'ambito di un processo penale. Nello specifico, egli riportava di aver chiesto la revoca del menzionato decreto perché...
Svolgimento del processo
1. Con atto di citazione ritualmente notificato, V.M. proponeva appello, dinanzi al Tribunale di Salerno, per sentir riformare la sentenza del Giudice di pace di quella stessa città n. 404/2012, con la quale era stata accolta parzialmente l'opposizione, dallo stesso formulata, avverso il decreto ingiuntivo ottenuto dall'Avv. C.M. nella misura di euro 2.326,32 (a titolo di compenso professionale per l'attività svolta nell'interesse del V.M. nel procedimento penale n. 12297/2008 RGNR), ridotta ad euro 618,00, oltre accessori di legge, con compensazione delle spese giudiziali.
A sostegno dell'opposizione il V.M. aveva richiesto la revoca del decreto monitorio sul presupposto che, all'epoca dello svolgimento delle prestazioni professionali, l'Avv. C.M. non era iscritta nell'albo degli avvocati, ma solo in quello dei praticanti avvocati, ragion per cui non era abilitata al patrocinio dinanzi agli organi giurisdizionali collegiali, nel mentre lo aveva difeso anche avanti al Tribunale del riesame, donde si sarebbe dovuta ritenere la nullità di tutta la prestazione professionale dalla stessa svolta.
In subordine, il V.M. faceva presente, contestando le voci delle tabelle indicate nel ricorso per decreto ingiuntivo, di aver corrisposto all'opposta la somma di euro 208,26, equivalente a quella dovuta per l'attività defensionale autorizzata (e legittimamente esplicabile), domandando, in via riconvenzionale, il risarcimento dei danni per violazione della buona fede precontrattuale.
2. Decidendo sul gravame avanzato dal V.M. e nella costituzione dell'Avv. C.M., il citato Tribunale - con sentenza n. 1720/2017 (pubblicata il 6 aprile 2017) - lo accoglieva per quanto di ragione, riducendo la somma dovuta in favore dell'appellata in quella di euro 364,57 (oltre interessi legali dalla domanda al soddisfo), detratto l'importo versato a titolo di acconto di euro 208,26.
A fondamento dell'adottata decisione il Tribunale salernitano, una volta ricordata la natura del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo ed evidenziato il relativo riparto dell'onere probatorio tra le parti, riteneva che, effettivamente, l'Avv. C.M., in quanto solamente iscritta nell'albo dei praticanti avvocati all'epoca dell'incarico conferitole dal V.M., non era abilitata a svolgere l'attività professionale relativamente alle fase di impugnazione instaurata dinanzi al Tribunale del riesame (quale organo giurisdizionale collegiale), nel mentre lo era relativamente alla fase precedente, potendo, ai sensi dell'art. 7 della legge n. 479/1999, assumere l'incarico riguardante i procedimenti relativi ai "reati per i quali la legge stabilisce una pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni ovvero una pena pecuniaria sola o congiunta alla predetta pena detentiva" (e, nel caso di specie, il reato contestato al V.M. - quello di cui all'art. 494 c.p. - prevedeva la pena detentiva pari nel massimo ad un anno). Pertanto, tenuto conto della parte delle attività legittimamente compiute dalla professionista legale ed applicato il valore medio delle tariffe di cui al D.M. n. 127/2004 ("ratione temporis" applicabili), il Tribunale riconosceva come dovuto all'Avv. C.M. il compenso per la somma di euro 572,83, dalla quale detrarre l'indicato acconto versato nella misura di euro 208,26. Il giudice di appello respingeva, infine, il motivo di gravame relativo al rigetto della domanda risarcitoria, essendo la stessa rimasta del tutto sfornita di prova.
3. Avverso la suddetta sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, l'appellante V.M.. Ha resistito con controricorso l'intimata Avv. C.M..
La difesa del ricorrente ha anche depositato memoria ai sensi dell'art. 380- bis.1. c.p.c.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, il ricorrente ha denunciato - ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. - la violazione di falsa applicazione degli artt. 1418, comma 1, e 2033 c.c., nonché l'omessa considerazione della nullità ontologica da cui risultava affetto il contratto stipulato con un praticante avvocato abilitato che abusivamente aveva speso il titolo di avvocato specializzato, con ciò, incidendo, condizionandola, sulla volontà effettiva del contraente di concludere il contratto d'opera professionale.
Con lo stesso motivo il ricorrente ha, altresì, denunciato la violazione e falsa applicazione dell'art. 2231 c.c., alla stregua del quale non è data azione giudiziaria per il pagamento del compenso al prestatore dell'attività professionale in difetto di iscrizione necessaria ad un albo o ad un elenco, oltre alla violazione e falsa applicazione dell'art. 7 della legge n. 479/1999 (c.d. "legge Carotti"), che, lungi dall'autorizzare un praticante avvocato abilitato ad assumere il mandato in proprio (peraltro spendendo abusivamente un titolo abilitativo, in realtà inesistente) con possibilità di procedere all'autentica della sottoscrizione del cliente apposta sul mandato, consente, di contro, nelle predeterminate condizioni, unicamente di costituirsi in udienza quale sostituto processuale del titolare della difesa.
2. Con la seconda censura, il ricorrente ha dedotto - con riferimento all'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. - la violazione e falsa applicazione delle disposizioni contenute nel D.M. n. 127/2004 (inerente alle tariffe forensi relative all'attività svolta dinanzi al GIP, venendo, di contro, in discussione, nel caso di specie, le voci di compenso di cui al citato D.M. astrattamente riconoscibili in relazione ad attività da ricondurre a quella "innanzi al Tribunale in composizione monocratica", con conseguente mancata applicazione dell'art. 7 del medesimo D.M., secondo cui i compensi dovuti in favore dei praticanti abilitati sono ridotti della metà).
3. Con la terza doglianza, il ricorrente ha prospettato - in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. - la violazione e falsa applicazione dell'art. 185 c.p., l'erroneo rigetto della domanda riconvenzionale per come avanzata volta ad ottenere il risarcimento del danno causato dalla professionista che aveva posto in essere contegni sussumibili nella fattispecie di cui all'art. 348 c.p. oltre a comportamenti integranti gravi violazioni di natura deontologica (a cui andava aggiunta una condotta scorretta della stessa, che aveva chiesto compensi per attività mai svolte).
4. Con il quarto ed ultimo motivo, il ricorrente ha denunciato il vizio di omessa pronuncia sulla richiesta di restituzione degli importi corrisposti in esecuzione della sentenza di primo grado, detratta la somma dovuta per il compenso effettivamente riconoscibile all'allora praticante avv. C.M. nei limiti dell'attività professionale da considerarsi legittimamente svolta nel suo interesse.
5. Rileva il collegio che il primo motivo è infondato e deve, perciò, essere rigettato.
Pacifica, in generale, la sussistenza della nullità assoluta ed insanabile della costituzione del contratto di opera professionale stipulato tra un cliente ed un professionista legale non abilitato (cfr., ad es., Cass. n. 20436/2009 e Cass. n. 26898/2014 ), va osservato che, nella fattispecie, il Tribunale ha rilevato che, al momento della stipula di tale contratto, l'attuale avv. C.M., ancorché fosse in quel momento solo praticante avvocato abilitato iscritto nel relativo albo, aveva legittimamente ricevuto il conferimento dell'incarico con il rilascio dell'apposita procura speciale da parte del V.M., poiché nei confronti di quest'ultimo si procedeva in sede penale in relazione al reato di cui all'art. 494 c.p., la cui pena era ricompresa nei limiti edittali previsti dall'art. 550 c.p.p., donde la legittimazione all'esercizio dell'attività professionale da parte della stessa avv. C.M. per la fase dinanzi al giudice monocratico, ai sensi dell'art. 7 della legge n. 479 del 1999.
Da ciò consegue che il contratto in questione non poteva considerarsi affetto da nullità assoluta "ab origine" ma che lo fosse diventato parzialmente solo limitatamente all'attività poi espletata dalla professionista legale dinanzi al Tribunale del riesame, in quanto organo giurisdizionale collegiale.
In tali termini ha deciso il giudice di appello, riconoscendo, perciò, correttamente i compensi all'allora praticante avv. C.M. per la sola attività professionale svolta legittimamente nei limiti di cui al citato art. 7 della legge n. 479/1999, cioè quella relativa al procedimento penale instaurato a carico del V.M. per un reato di competenza del Tribunale monocratico (da cui anche la mancata configurabilità per tale fase del reato di esercizio abusivo della professione), nel mentre sarebbe potuta intervenire dinanzi al Tribunale (del riesame) collegiale solo quale sostituto di avvocato abilitato e non in proprio, quale praticante avvocato non abilitato (cfr. Cass. n. 7754/2020 e, da ultimo, Cass. n. 3676/2021).
6. Ritiene il collegio che è, invece, fondato il secondo motivo.
Occorre, innanzitutto, prendere atto che il Giudice di appello ha liquidato i compensi spettanti all'allora praticante avv. C.M. applicando il valore medio delle tariffe del D.M. n. 127/2004 in ordine allo scaglione dell'attività svolta dinanzi al G.I.P.
Senonché, il ricorrente, a confutazione di questo criterio di liquidazione, ha contrapposto che, nel caso di specie, avrebbe dovuto trovare applicazione - per la fase espletata dinanzi al GIP - l'art. 7 del cap. II del D.M. n. 127/2004 (temporalmente vigente), contemplante la spettanza ai praticanti avvocati abilitati in sede penale degli onorari nella misura della metà rispetto a quelli da riconoscersi in favore degli avvocati abilitati.
Pertanto, in conformità a quanto denunciato con il motivo in questione, il Tribunale non avrebbe potuto quantificare i compensi spettanti all'allora praticante avv. C.M. (per la fase in cui la stessa era abilitata all'attività difensiva svolta dinanzi al GIP) applicando il valore medio delle tariffe di cui al citato D.M. (liquidandoli nell'importo di euro 572,82, in luogo della somma effettivamente spettante di euro 208,26, come analiticamente e correttamente determinata a pag. 10 del ricorso, in relazione alla singole voci legittimamente riconoscibili).
7. La terza censura è priva di fondamento e va, pertanto, respinta.
Occorre, infatti, evidenziare che il giudice di appello ha legittimamente motivato - confermando la sentenza di primo grado - sulla mancata prova (che avrebbe dovuto fornire il V.M.) circa le condizioni per il riconoscimento del preteso risarcimento del danno, posto che non era rimasto dimostrato come, per effetto della prestazione professionale resa dalla C.M., egli avesse risentito di un pregiudizio in concreto e che, anzi, la difesa espletata dinanzi al Tribunale del riesame aveva consentito allo stesso odierno ricorrente, in accoglimento dell'impugnazione, la restituzione dell'abbonamento e della tessera sanitaria sequestrata (attraverso il cui utilizzo era stato consumato - secondo l'imputazione contestata - il reato di sostituzione di persona).
Oltretutto, come già posto in risalto, al momento del conferimento dell'incarico alla dott.ssa C.M., ancorché solo praticante avvocato abilitato nei limiti di cui all'art. 7 della citata legge n. 479/1999, ella era legittimata a ricevere l'incarico dal V.M. e, pertanto, non si erano venuti a configurare i presupposti per l'ipotizzabilità del reato di cui all'art. 348 c.p.. Inoltre, il Tribunale ha adeguatamente motivato anche sull'inutilizzabilità della deposizione del teste S.F. siccome "de relato actoris" e sulla insussistenza, con riferimento alla domanda risarcitoria, di una riconducibilità dell'evento dannoso all'esercizio parzialmente invalido della prestazione professionale da parte dell'avv. C.M., che, peraltro, aveva condotto ad un esito positivo, risultando, infatti, del tutto verosimile che il disagio psichico dedotto dal V.M. fosse dovuto al fatto in sé di essere stato sottoposto a procedimento penale e alle eventuali conseguenze negative che ne sarebbero potute derivare (e non, quindi, alla condotta della praticante avvocato).
Il riferimento, poi, ad eventuali rilievi deontologici nella condotta della C.M. avrebbe potuto avere rilevanza ad altri fini (ad es. in sede disciplinare), ma non sul piano della incidenza in relazione ad una sua possibile responsabilità contrattuale con riferimento alla prestazione professionale svolta.
8. Va ravvisata, infine, la fondatezza del quarto motivo, dal momento che, malgrado la formulazione della relativa richiesta (pacificamente ammissibile) con l'atto di appello concernente la restituzione dell'importo corrisposto in esecuzione della sentenza di primo grado (come documentalmente riscontrato attraverso i vaglia prodotti in atti), il Tribunale di Salerno, con la sentenza qui impugnata, non ha provveduto in proposito, tenendo conto di quanto effettivamente spettante all'avv. C.M. (nel "quantum" peraltro rideterminato in questa sede in conseguenza dell'accoglimento del secondo motivo) e di quanto alla stessa invece corrisposto per effetto della decisione di prime cure provvisoriamente esecutiva.
9. In definitiva, alla stregua delle ragioni complessivamente esposte, vanno accolti il secondo e quarto motivo, mentre vanno respinti il primo ed il terzo.
Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto e tenendosi conto del compenso effettivamente spettante all'allora praticante avv. C.M., per l'attività di patrocinio legittimamente svolta, nei limiti di cui al secondo motivo (ovvero con il riconoscimento dell'importo di euro 208,26, accessori compresi), si può direttamente provvedere sul merito della domanda restitutoria alla quale è riferito il quarto motivo ritenuto fondato, con la determinazione della somma da restituire in favore del ricorrente V.M. nella misura di euro 525,91 (derivante dalla sottrazione del citato compenso di euro 208,26 dal totale di euro 734,17 corrisposto in esecuzione della sentenza di primo grado), oltre interessi legali dal dovuto al soddisfo.
In virtù della loro reciproca soccombenza, le spese del presente giudizio vanno integralmente compensate, ferma rimanendo, altresì, la statuizione sulle spese adottata con la sentenza di appello (a loro volta compensate) in relazione ai gradi di merito.
P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo e quarto motivo del ricorso e rigetta il primo e il terzo.
Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e, decidendo nel merito, riduce la misura del compenso dovuto alla controricorrente, per la causale dedotta in giudizio, alla somma di euro 208,26, condannando la stessa alla restituzione della differenza tra la somma pagata dal V.M. in suo favore in esecuzione della sentenza di primo grado e quella indicata a titolo di compenso spettantele nei termini di cui in motivazione.
Compensa integralmente tra le parti le spese del presente giudizio, ferma restando la statuizione sulle spese dei gradi di merito come adottata con la sentenza di appello.