Rigettato il ricorso dello stilista distaccatosi dalla società da lui fondata, poiché la decadenza del marchio per ingannevolezza sopravvenuta implica non solo il peggioramento dei livelli qualitativi del prodotto, ma anche l'accertamento di una relazione eziologica con il modo e con il contesto in cui il marchio viene usato dal nuovo titolare.
Il Tribunale di Milano respingeva le domande proposte dall'odierno ricorrente circa l'inadempimento della controparte a un accordo transattivo concluso con lo scopo di disciplinare l'uso del marchio patronimico del ricorrente nonché il diritto di sfruttamento dell'opera artistica da lui creata, entrambi ceduti alla società che egli stesso aveva fondato. ...
Svolgimento del processo
A.M. propose appello avverso la sentenza del tribunale di Milano che ne aveva respinto una serie di domande basata sull’inadempimento della A.M. s.p.a. a un accordo transattivo intervenuto tra le parti, nell’anno 2006, col fine di disciplinare l’uso del marchio patronimico dello stilista e il diritto di sfruttamento dell’opera artistica “Geo”, creata dal medesimo, entrambi ceduti da questi alla società.
Nella resistenza della convenuta, l’adita corte d’appello di Milano ha respinto il gravame.
Contro la detta sentenza A.M. ha proposto ricorso per cassazione in tre motivi, ai quali la società ha replicato con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato una memoria.
Motivi della decisione
I. – Col primo motivo, deducendo violazione o falsa applicazione degli artt. 1363 e 1455 cod. civ., il ricorrente censura la sentenza per aver respinto il motivo di gravame relativo all’erronea valutazione dell’importanza e delle conseguenze dell’inadempimento della transazione da parte della società. L’inadempimento sarebbe consistito nella mancata pubblicazione della notizia del distacco dello stilista dalla società e, più in generale, nella mancata comunicazione al mercato della sua estraneità a essa.
II. - Il motivo è inammissibile.
Risulta dal ricorso e dalla sentenza che le parti avevano regolato le questioni insorte tra di loro mediante un atto transattivo.
Con questo il marchio patronimico era stato ceduto alla società nel contesto del marchio “Alviero Martini Prima Classe”.
La corte d’appello di Milano ha osservato e ritenuto che la clausola n. 25 dell’atto transattivo fosse generica al punto da rendere indefinita la modalità di esecuzione in vista del raggiungimento dello scopo voluto dalle parti, consistente nel rendere edotti i consumatori del distacco del M. dalla società da lui fondata.
Il tenore della clausola, riportato testualmente in motivazione, era il seguente: “le parti saranno libere di pubblicare attraverso qualunque mezzo di diffusione e ovunque comunicati con i quali venga divulgata la notizia della cessione dei rapporti tra le parti. La s.p.a. A.M. si impegna a comunicare la predetta cessione nella home page del proprio sito internet”.
III. - In guisa della preliminare notazione, la corte d’appello ha altresì confermato che la notizia del distacco era in effetti avvenuta a mezzo di noti quotidiani e riviste, in modo tale che un più ampio ventaglio di soggetti era stato messo nelle condizioni di conoscere il fatto rispetto a chi avesse consultato il sito internet. E ha rilevato che le parti non avevano d’altronde determinato in modo analitico né quale dovesse essere il contenuto di tale comunicazione, né quale dovesse essere la modalità (anche temporale) della stessa. Sicché, denotando tale genericità della clausola una non fondamentale importanza attribuita dalle parti al rispetto dell'obbligazione, la corte ha concluso che la gravità dell’inadempimento – discendente dal non esser stata pubblicata sul sito web la notizia del distacco - era in ogni caso da escludere, tenuto conto dell'atto transattivo nella sua interezza e della volontà delle parti così come estrinsecata in esso.
IV. - Il ricorrente assume che sia stato violato il canone di ermeneutica contrattuale a mente del quale (art. 1363 cod. civ.) “le clausole si interpretano le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna di esse il senso che risulta dal complesso dell’atto”.
Questo perché un’interpretazione complessiva e secondo buona fede della transazione avrebbe imposto di ritenere che l’obbligo da essa posto a carico della società non poteva ritenersi limitato a una pubblicazione una tantum, sul proprio sito, dell’uscita dello stilista, ma avrebbe dovuto identificare la condotta mediante una comunicazione d’impresa, che mettesse i consumatori in grado di essere consapevoli di tale uscita e quindi dell’estinzione del legame di paternità stilistica e di collaborazione del M. con la società che ancora portava (e porta) il suo nome.
V. - E’ però da osservare che la stessa allegazione del ricorrente consente di evincere che la pubblicazione nel web del distacco del medesimo dalla società era avvenuta, sebbene appunto una tantum.
In ogni caso, confezionata nel modo sopra detto, la doglianza non soddisfa il fine di specificità richiesto dall’art. 366 cod. proc. civ.
Sebbene integrandola mediante riferimento alle regole di ermeneutica contrattuale, con essa il ricorrente intende semplicemente sostituire una propria, peraltro non ben definita, ipotesi esegetica - non ben definita in quanto non si comprende a cosa si alluda con l’espressione “comunicazione d’impresa” - a quella motivatamente e congruamente sostenuta dal giudice del merito; e peraltro senza neppure precisare in qual senso la risultante del complesso dell’atto avrebbe dovuto considerarsi sintonica alla conclusione ritenuta.
VI. - Questa Corte ha da tempo chiarito che il sindacato di legittimità non può avere a oggetto la ricostruzione del significato di una clausola negoziale secondo l’intenzione delle parti individuata dal giudice del merito, ma solo la verifica dei criteri ermeneutici del processo logico del quale il giudice di merito si sia avvalso per assolvere la funzione a lui riservata.
Solo in tal caso può difatti stabilirsi se egli sia incorso, o meno, in vizi del ragionamento o in errori di diritto.
La motivazione della corte d’appello non contiene deficienze o errori di tal genere.
Non c’è dubbio che in tema di contratti il giudice, anche a fronte di una clausola estremamente generica e indeterminata, deve comunque presumere che sia stata oggetto della volontà negoziale, sicché deve interpretarla in relazione al contesto (art. 1363 cod. civ.) per consentire alla stessa di avere qualche effetto (art. 1367 cod. civ.) (v. Cass. n. 13839-13, Cass. n. 1950-09).
Ma non può sostenersi che la vaghezza e la genericità della clausola che qui rileva sia stata messa al centro di una non-ricostruzione del significato della stessa nel contesto dell’atto, dal momento che proprio tale significato, invece, nel riferimento al fine perseguito di rendere il pubblico edotto del distacco del M. dalla società da lui fondata, è stato posto dalla corte territoriale a fondamento del rilievo essenziale. Il quale rilievo è che la clausola imponeva una comunicazione idonea, e tale era – secondo quanto accertato dal giudice a quo - anche quella fatta attraverso canali di conoscenza diversi e ulteriori rispetto al sito internet.
D’altronde – e lo dice lo stesso ricorrente – la comunicazione era stata inserita nel sito, sebbene una tantum.
Da quest’ultimo punto di vista merita di essere precisato che, semmai un errore c’è stato nella motivazione della sentenza impugnata, tale errore sta nell’avere ritenuto esistente un’inadempienza, sebbene di scarsa importanza in ragione del contenuto della clausola.
Ove anche esistente, simile sbavatura è innocua, poiché è ovvio che se si assume, come il ricorrente stesso afferma, che la comunicazione era avvenuta mediante pubblicazione in Internet una tantum, e se si assume, come la corte d’appello assume, che la notizia infine era stata data con mezzi diversi ma coerenti col (pur generico) tenore della clausola, l’inadempimento era semplicemente escludere.
VII. – Col secondo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 14, 21 e 23 del c.p.i., 2697 e 2909 cod. civ., 115 e 324 cod. proc. civ., il ricorrente lamenta che la sentenza, pur in presenza di un accertamento avente efficacia di giudicato circa l’esistenza del carattere ingannevole per il pubblico, abbia respinto le domande di decadenza dei marchi, e innanzi tutto del marchio “Alviero Martini Prima Classe”, per ingannevolezza sopravvenuta, e di inibitoria all’uso dei medesimi e degli altri segni distintivi tra cui la denominazione sociale e il domain name contenenti il patronimico o l’espressione “Geo”.
Eccepisce invero la nullità della sentenza d’appello per violazione del giudicato interno formatosi sugli accertamenti operati dal primo giudice, perché da questo sarebbe stato accertato il diritto al patronimico in quanto tale e al suo uso economico in capo al M., e non alla società.
Il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza, non essendo riportato l’effettivo e congruente contenuto della sentenza di primo grado nella parte assunta come contenente una statuizione passata in giudicato.
In ogni caso il ragionamento che lo accompagna non ha base legale, e dunque va disatteso per la ragione che segue.
VIII. - La corte d’appello ha ben evidenziato come le domande proposte dal M. fossero state tutte respinte dal tribunale.
Tanto osta a ravvisare esistente una qualunque ipotesi di giudicato favorevole a chi (M.) quelle domande aveva proposto.
Dopodiché, in ordine alla questione della asserita ingannevolezza sopravvenuta del marchio Prima Classe, e alla conseguente sua decadenza, la corte d’appello ha osservato che non era stato dimostrato un inganno effettivo, e in ogni caso sufficientemente grave, sulle qualità e caratteristiche dei prodotti contraddistinti, tale da riflettersi direttamente sul marchio.
Ha messo in risalto che proprio in base alla transazione era stato attribuito alla società il diritto di usare o far usare in qualunque forma e modo l’espressione “Prima Classe Alviero Martini” come marchio o come segno distintivo, corrispondentemente alla pattuizione che aveva previsto, invece, che il M. usasse il patronimico in funzione descrittiva.
In tal guisa la corte d’appello ha ritenuto che l’operazione economica fosse quella della cessione del marchio patronimico – oltre che di quello consistente nello sfruttamento economico dell’opera artistica “Geo”; e che se anche fisiologicamente, in forza di tale operazione, alcuni consumatori avessero potuto ricondurre l’acquisto degli articoli ad A.M., non per tale ragione si sarebbe dovuto apprezzare un fenomeno ingannevole. La caratteristica di decettività avrebbe dovuto essere valutata, in vero, anche da una prospettiva oggettiva. E sotto il profilo oggettivo, focalizzato dalla condotta del cessionario, la società si era mantenuta nei limiti di rispetto delle clausole transattive, utilizzando e spendendo il nome A.M. unitamente all’espressione “Prima Classe” esattamente come le consentiva l’atto di acquisto.
In tal senso la corte d’appello ha escluso, dunque, un peggioramento qualitativo dei prodotti tale da risultare ingannevole per i consumatori circa la provenienza dei beni direttamente dallo stilista, ulteriormente considerando che in nessuna parte della transazione era stato previsto un obbligo di mantenimento qualitativo o una possibilità del perdurante controllo sulla qualità dei prodotti.
La motivazione riflette un accertamento di fatto motivato e non sindacabile in cassazione; un accertamento che non risulta in contrasto con un giudicato interno ostativo. È vano sostenere che l’inganno del pubblico sulla paternità creativa di prodotti di moda in capo a uno stilista, che non faccia più parte di una compagine societaria, può rientrare nella definizione di inganno giuridicamente rilevante ai fini del diritto dei marchi (in base all’art. 14, secondo comma, c.p.i.).
Come meglio si dirà, la norma stabilisce che il marchio d'impresa decade: “a) se sia divenuto idoneo ad indurre in inganno il pubblico, in particolare circa la natura, qualità o provenienza dei prodotti o servizi, a causa del modo e del contesto in cui viene utilizzato dal titolare o con il suo consenso, per i prodotti o servizi per i quali è registrato”.
Giustappunto il profilo dell’inganno è stato motivatamente escluso, nel caso concreto, dalla corte territoriale.
Un tale profilo appartiene, notoriamente e per intero, alla questione di fatto.
IX. – Col terzo motivo, infine, il ricorrente denunzia la violazione o falsa applicazione degli artt. 14, secondo comma, lett. a), 21 e 23 del c.p.i., 2697 e 2909 cod. civ., 115 e 324 cod. proc. civ. sotto l’aspetto del decadimento qualitativo dei capi recanti il marchio “Alviero Martini Prima Classe”. Assume che le medesime norme sull’ingannevolezza sopravvenuta poste al fondo del secondo mezzo, con gli aggiuntivi riferimenti agli artt. 2697 e 2909 cod. civ. e agli artt. 115 e 324 cod. proc. civ., sarebbero state violate in relazione all’inganno derivante dal decadimento qualitativo, poiché questo in nessun modo era stato evidenziato al pubblico dopo il distacco dello stilista.
Tale decadimento, a dire del ricorrente, dovrebbe rilevare di per sé, alla stregua di inadempimento della transazione e comunque alla stregua di violazione della norma citata a presidio del marchio.
X. - Il motivo in parte è inammissibile, per le medesime ragioni già messe in evidenza per il secondo mezzo, e in parte è infondato.
La corte d’appello ha svolto in proposito le seguenti considerazioni, mutuate da distinti accertamenti in fatto: (i) la produzione successiva all’uscita dello stilista era avvenuta sotto il marchio “Alviero Martini Prima Classe”, e non del solo patronimico; (ii) la circostanza del distacco era stata messa a disposizione del pubblico dei consumatori, in conformità all’atto transattivo; (iii) in nessuna parte di tale atto era stato previsto un obbligo di mantenimento qualitativo, o comunque una possibilità di perdurante controllo da parte del cessionario; (iv) in ogni caso nessun obbligo di mantenimento di particolari standard qualitativi era stato assunto dalla cessionaria nei confronti del cedente.
XI. - Il nodo centrale della critica del ricorrente è in ciò: che sarebbe irrilevante, ai fini della decettività, la circostanza che i marchi comprendessero anche l’espressione “Prima Classe” oltre al patronimico “Alviero Martini”, in quanto nel caso concreto viene in considerazione la non conformità qualitativa dei prodotti recanti i suddetti marchi agli standard che il pubblico era abituato a collegare a quelli del Martini stesso.
Questa critica sottende anche le restanti affermazioni del ricorrente: quella per cui, a evitare l’inganno sulla qualità dei prodotti, sarebbe stato necessario dare avviso ai consumatori non solo del distacco del M. dalla società ma anche e specificamente della scelta di ridurre la qualità dei prodotti, e quella per cui, di conseguenza, sarebbe irrilevante che nell’accordo contrattuale non fosse stato previsto un obbligo del cessionario di mantenere il livello qualitativo che i prodotti avevano prima della cessione.
XII. - Sennonché la critica – che pur devolve una questione giuridica di una certa complessità a proposito del significato del precetto di cui all’art. 14, secondo comma, lett. a), del c.p.i. - è nel suo complesso sguarnita di consistenza, poiché si risolve in un’istanza di revisione del giudizio di fatto.
Anche in base al richiamato art. 14, secondo comma, lett. a), del c.p.i. l’aspetto del peggioramento qualitativo non poteva andar disgiunto dalla considerazione della condotta della società come decettiva o meno, poiché questa, a seguito della transazione, era divenuta titolare del marchio “Alviero Martini Prima Classe”.
Da questo punto di vista è risolutivo che in base all’accertamento di merito il patronimico era stato oggetto di cessione, non di mera licenza.
Vero è che la circostanza che la cessionaria avesse assunto, o meno, un obbligo di conformazione dei prodotti da realizzare sotto il marchio di cui era divenuta titolare (“Alviero Martini Prima Classe”) a un certo standard qualitativo poteva non essere essenziale nell’economia del giudizio parametrato all’art. 14 del c.p.i.
Ma diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente l’eccepito deficit qualitativo dei prodotti non poteva costituire, di per sé, né un inadempimento contrattuale, quanto agli obblighi assunti con la transazione, né una violazione delle caratteristiche del marchio tale da rappresentare la fattispecie di decadenza di cui all’art. 14 del c.p.i.
Non poteva esserlo, da questo secondo punto di vista, perché la decadenza per decettività sopravvenuta impone di dimostrare, cosa che la corte d’appello ha escluso in fatto, che uno standard qualitativo del marchio patronimico sia apprezzabile dal pubblico dei consumatori (non in sé e per sé, ma) in relazione al modo e al contesto di utilizzazione da parte del cessionario.
È allora la circostanza che il marchio non fosse più ricollegabile allo stilista per fattori oggettivi, enucleati dalla condotta della titolare, il punto che viene in rilievo, più e oltre il fatto che un obbligo di mantenimento dei livelli qualitativi dei prodotti contraddistinti dal marchio patronimico ceduto non fosse stato assunto.
Su tale versante la motivazione della corte d’appello va corretta nel senso appena detto.
Ma, come già osservato, la corte medesima ha pure stabilito che, una volta attivate le condotte informative da parte della cessionaria mediante la diffusione delle notizie circa il distacco del M. dalla società, e una volta realizzata la produzione col marchio “nuovo” dopo che una tale mutazione era stata oggetto di valida attività informativa presso il pubblico “mediante molteplici pubblicazioni su riviste di spicco nel settore della moda”, il pubblico dei consumatori non era più legittimato a collegare – oggettivamente – il marchio allo stilista cedente, né i prodotti al marchio originario.
Tenuto conto di simile considerazione, integrata da un corrispondente accertamento di fatto, non possiede base giuridica sostenere che i livelli qualitativi, non previsti nel contratto di cessione e non oggetto di inganno, si sarebbero dovuti associare invece al marchio in virtù dell’autonoma previsione di decadenza di cui alla norma citata.
XIII. – Il ricorso è rigettato.
Deve essere affermato il seguente principio di diritto:
- in tema di cessione di marchio patronimico, l’art. 14, secondo comma, lett. a), del c.p.i., nel prevedere la generale decadenza del marchio che sia divenuto idoneo a indurre in inganno il pubblico circa la qualità o provenienza dei prodotti, implica non semplicemente che si stabilisca l’eventualità di un peggioramento purchessia dei livelli qualitativi dei prodotti contraddistinti, ma che sia accertata una relazione eziologica col modo e col contesto in cui il marchio viene utilizzato dal nuovo titolare; l’accertamento di tali profili - il modo e il contesto -, e della stessa relazione eziologica, è questione di fatto, e il relativo giudizio, se debitamente motivato, resta sottratto al sindacato di legittimità.
Le spese processuali seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese processuali, che liquida in 8.200,00 EUR, di cui 200,00 EUR per esborsi, oltre accessori e rimborso forfetario di spese generali nella massima percentuale di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello relativo al ricorso, se dovuto.