La Cassazione afferma il principio di diritto secondo cui il giudice può ricorrere al criterio della royalty ragionevole, purché tale scelta sia corredata da una congrua motivazione.
Una società agiva dinanzi al Tribunale di Treviso proponendo diverse azioni a tutela di brevetti per invenzione industriale. In risposta, il Tribunale disponeva la conversione in modello di utilità di uno dei brevetti, accertandone la contraffazione da parte di altra società che veniva pertanto condannata al risarcimento dei danni per i mancati...
Svolgimento del processo
Il tribunale di Treviso, adito da Tecnosystemi s.r.l. con diverse azioni a tutela di brevetti per invenzione industriale, dispose, per quanto in questa sede ancora rileva, la conversione in modello di utilità del brevetto per invenzione n. 1.311.815 e accertò la contraffazione di tale brevetto da parte di N. Italy s.r.l. Di conseguenza condannò questa società al risarcimento dei danni per i mancati guadagni dell’attrice, liquidandoli in 1.027.549,91 EUR.
La corte d’appello di Venezia ha definito il giudizio di secondo grado con due sentenze, l’una non definitiva e l’altra definitiva.
Con la sentenza non definitiva n. 2679/2015 ha respinto sia l’appello principale di Tecnosystemi, sia l’appello incidentale di N. in ordine ai contrapposti profili della validità del brevetto e al riconoscimento della contraffazione.
Con la sentenza definitiva n. 536/2017, rinnovata la c.t.u., ha riformato la prima decisione nella parte relativa alla liquidazione del danno, rideterminandolo in 227.990,68 EUR in applicazione del criterio della giusta royalty; tale criterio ha ritenuto più congruo e aderente al contenuto tecnologico del trovato in base all’art. 125 del codice della proprietà industriale (hinc, c.p.i.), sebbene tale norma fosse stata indicata nella sentenza non definitiva come non applicabile al caso concreto.
Tecnosystemi, che ne aveva fatto riserva quanto alla non definitiva, ha impugnato entrambe le sentenze con ricorso per cassazione affidato a tre motivi.
Gli intimati hanno resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato una memoria.
Motivi della decisione
I. Col primo motivo la ricorrente censura la sentenza per violazione o falsa applicazione degli artt. 112, 329, 342, 346 cod. proc. civ. e 2909 cod. civ., per aver pronunciato oltre i limiti dell’effetto devolutivo, essendo stata esaminata la questione della modalità di liquidazione del danno nonostante non fosse stata espressamente prospettata nei motivi d’impugnazione.
II. Il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza.
Deve premettersi, per le conseguenze che saranno a breve esposte, che l’azione risulta esser stata proposta da Tecnosystemi con citazione del 16-5-2002.
Ratione temporis la controversia era, dunque, (ed è) sottratta all’art. 125 del c.p.i.
Dalla sentenza non definitiva si evince che la controparte, col quarto motivo d’appello, aveva messo in discussione “il metodo”, oltre che le conclusioni raggiunte dal consulente contabile del tribunale.
Ciò consente di affermare che le modalità prescelte dalla consulenza in ordine alla quantificazione del danno, determinato, in primo grado, col criterio dei ricavi perduti da Tecnosystemi sulla base del numero dei pezzi venduti da N. all’esito della condotta di contraffazione, fossero esse stesse incluse nell’ambito della devoluzione.
La ricorrente eccepisce che la corte territoriale abbia applicato il distinto criterio valutativo del danno, commisurato alla cd. royalty equa o ragionevole, senza che la sentenza di primo grado fosse stata in effetti impugnata in ordine all’applicazione di quello originario, prescelto dal tribunale per determinare il mancato guadagno.
Tuttavia, misurato sulla citata risultanza della sentenza non definitiva, il ricorso è generico, poiché non contiene alcuna specificazione, neppure per sintesi, del contenuto dell’atto di interposizione d’appello al quale riferire il controllo di legittimità.
Come più volte si è detto, quando in cassazione sia dedotto un vizio processuale, che comporti la nullità del procedimento o della sentenza impugnata, la Corte è investita del potere di esaminare direttamente gli atti e i documenti sui quali il ricorso si fonda, purché però la censura sia stata proposta dal ricorrente in conformità al criterio di autosufficienza determinato dalle regole fissate al riguardo dal codice di rito agli artt. 366 e 369 cod. proc. civ. (v. Cass. Sez. U n. 8077-12).
Nel caso concreto il primo mezzo non soddisfa, per la ragione detta, il fine di autosufficienza.
III. Il secondo e il terzo motivo possono essere esaminati unitariamente.
Col secondo la ricorrente denunzia la violazione o falsa applicazione degli artt. 86 legge inv. e 125 c.p.i., nonché degli artt. 1223, 1226 e 1227 cod. civ., con riguardo al criterio di liquidazione del danno da contraffazione, laddove la corte d’appello ha disposto il rinnovo della consulenza contabile focalizzandosi sul criterio delle royalties, al fine di semplificare i conteggi e fornire una liquidazione in via forfettaria più congrua e aderente al contenuto tecnologico del trovato. La ricorrente sostiene che quello della royalty è un criterio residuale e non ottimale, poiché non soddisfa il principio per il quale il patrimonio del danneggiato deve riportarsi in pristino stato; sicché può trovare applicazione solo in casi particolari, come quando il titolare della privativa operi in territori diversi da quello in cui è stato immesso il prodotto contraffatto, ovvero quando il contraffattore, non rivolgendosi al medesimo mercato, non abbia a recare al titolare un danno diretto.
Col terzo motivo la ricorrente ulteriormente denunzia la violazione o falsa applicazione degli artt. 86 legge inv. e 125, secondo comma, c.p.i., nonché degli artt. 1223, 1226 e 1227 cod. civ., ancora con riguardo al criterio della royalty. Pure in questa prospettiva assume che il criterio sia stato applicato, non solo in difetto dei presupposti, ma anche omettendo di considerare le circostanze di fatto oggetto del giudizio, e quindi in modo del tutto forfetario anziché “in base agli atti di causa e alle presunzioni che ne derivano”; quando invece quello della royalty esprime, secondo il c.p.i., un riferimento minimo, non un criterio giuridico da adottare di per sé a prescindere dalle risultanze di causa.
IV. I motivi sono in parte inammissibili e in parte infondati.
L’argomentazione basica della ricorrente fa leva su alcuni orientamenti assunti in ordine all’art. 125 del c.p.i.
L’art. 125 c.p.i., intitolato al risarcimento del danno e alla restituzione dei profitti dell’autore della violazione e finalizzato a regolare le modalità di ristoro del titolare del diritto leso in materia di violazioni di diritto industriale, è, nella versione attuale, norma conseguente alle modifiche introdotte dall’art. 17, d.lgs. 16 marzo 2006, n. 140, in attuazione dell’art. 13 della direttiva 2004/48-CE, cd. Direttiva Enforcement, sul rispetto dei diritti di proprietà industriale.
Nella detta prospettiva la norma prevede regole volte ad agevolare un ristoro da parte dell’autore della contraffazione in favore del danneggiato.
V. Come si è anticipato, però, l’attuale controversia è ratione temporis sottratta all’art. 125 c.p.i., donde le considerazioni svolte dalla ricorrente sul presupposto di tale norma non sono pertinenti.
Non serve sottolineare, cioè, che, in base alla disciplina semplificata di cui al citato art. 125, il criterio della "giusta royalty" o "royalty virtuale" segna solo il limite inferiore del risarcimento del danno liquidato in via equitativa.
Ciò in effetti è stato affermato da questa Corte, ma in rapporto – giustappunto - all’art. 125 c.p.i., stante che – si è detto - è ben possibile ristorare del danno il titolare del diritto di privativa leso dalla condotta di contraffazione del brevetto tenendo conto (art. 125 c.p.i.) degli utili realizzati in violazione del diritto, vale a dire considerando il margine di profitto conseguito, deducendo i costi sostenuti dal ricavo totale; e dunque mediante il criterio della "giusta royalty" o "royalty virtuale" quale limite inferiore del risarcimento del danno liquidato in via equitativa (Cass. n. 5666-21). Cosicché – ancora si è opinato – quel criterio non potrebbe essere utilizzato a fronte dell'indicazione, da parte del danneggiato, di ulteriori e diversi ragionevoli criteri equitativi, da considerare nell'obiettivo di una piena riparazione del pregiudizio risentito dal titolare del diritto di proprietà intellettuale.
VI. Questo orientamento niente toglie al fatto che il criterio della royalty ragionevole (o equa), di contro, ben potesse giovare anche prima dell’art. 125 c.p.i., seppure per riparare il danno su base equitativa; e in tale contesto era utilizzabile come uno dei molteplici criteri a disposizione del giudice del merito secondo gli artt. 1226 e 2056 cod. civ.
VII. Il punto essenziale sta allora in ciò: che nella vigenza delle norme in materia brevettuale anteriori al c.p.i. il danno da lucro cessante (tale essendo quello risarcito dalla corte d’appello nel caso concreto) restava (e resta) soggetto alla valutazione equitativa prevista in generale dagli artt. 1226 e 2056 cod. civ.
Nell’ambito di tale valutazione il lucro cessante semplicemente coincide col mancato profitto del titolare del diritto leso.
Per determinare tale mancato profitto soccorrono i criteri equitativi e nessuna norma sancisce, nella individuazione del migliore dei suddetti criteri, che debba prevalere l’uno o l’altro metodo di determinazione del danno.
In particolare, nessuna norma stabilisce che il criterio della royalty ragionevole non sia utilizzabile esso stesso come criterio di matrice generale equitativa.
Ne discende che, nell’ottica degli artt. 1226 e 2056 cod. civ. il criterio applicato dalla corte d’appello, in luogo di quello ritenuto dal tribunale, era astrattamente consentito e tutto si concentrava nella necessità di fornire adeguata spiegazione del perché si fosse ritenuto di utilizzarlo.
La spiegazione è stata fornita dalla corte territoriale, e la tesi sviluppata dei motivi si dipana, nella sua genericità, dall’affermazione per cui l’utilizzo di tale criterio non avrebbe avuto, di converso, effettiva funzione riparatoria del danno patrimoniale.
Ma in tal modo il ricorso finisce per scadere nella questione di fatto, dal momento che oppone alla tesi della corte territoriale, secondo la quale – invece – proprio il criterio della royalty ragionevole era maggiormente indicato al caso di specie in base alla necessità di riconsiderare una minima proporzione rispetto al risultato contabile correlato alle caratteristiche tecnologiche dei trovati, una tesi giustapposta in punto di corrispondenza e congruenza logica.
La traduzione della censura in un ambito di pieno merito è notoriamente incompatibile col giudizio di legittimità.
VIII. Il ricorso è rigettato.
Va affermato il seguente principio:
Ai fini della determinazione del danno da lucro cessante in materia brevettuale, per le controversie soggette alle norme generali anteriori al codice della proprietà industriale, il computo dei mancati profitti del titolare del diritto leso presuppone una valutazione su base equitativa, ai sensi degli artt. 1226 e 2056 cod. civ.; ai fini di tale valutazione è consentito al giudice del merito far ricorso al criterio della royalty ragionevole, purché di tale scelta sia data congruente motivazione; tale è quella imperniata sulla necessità di considerare una minima proporzione rispetto al risultato contabile correlato alle caratteristiche tecnologiche dei trovati.
Le spese processuali seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese processuali, che liquida in 10.200,00 EUR, di cui 200,00 EUR per esborsi, oltre accessori e rimborso forfetario di spese generali nella massima percentuale di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello relativo al ricorso, se dovuto.