Doppia imputazione per il legale che esercita la professione nonostante la sospensione dall'Albo e viola i doveri di correttezza e lealtà mentendo al cliente sul deposito degli atti necessari a provare la legittimità delle sue istanze, facendolo così condannare per lite temeraria.
La Corte d'Appello di Milano confermava la condannava nei confronti dell'imputato dichiarandolo responsabile dei reati riuniti degli
Svolgimento del processo
1. La Corte di appello di Milano ha parzialmente riformato la sentenza emessa il 25 febbraio 202 dal Tribunale di Milano nei confronti di G.N., revocando la pena accessoria inflitta all'imputato e confermando nel resto la sentenza appellata, che lo aveva dichiarato responsabile dei reati riuniti di cui agli artt. 348 e 380 cod. pen.
In particolare, all'imputato si contesta al capo A) di aver esercitato abusivamente la professione di avvocato, in quanto, pur essendo stato sospeso dall'esercizio della professione dal 3 agosto 2016 al 2 agosto 2017, aveva curato la causa di separazione personale tra coniugi di K.G., comparendo quale difensore della stessa dinanzi al Tribunale civile di Milano all'udienza del 25 maggio 2017 di precisazione delle conclusioni; al capo C) di aver svolto attività difensiva, rendendosi infedele ai suoi doveri professionali e arrecato danno alla sua assistita, omettendo di depositare, in violazione degli accordi, la memoria autorizzata, la comparsa conclusionale e la documentazione fornita dalla cliente per provare la condizione reddituale del coniuge, tanto da giustificare la condanna della G. per lite temeraria.
L'affermazione di responsabilità è stata fondata sulle dichiarazioni della persona offesa, sulla documentazione acquisita e sulla sentenza emessa il 20 settembre 2017 dalla IX Sezione civile del Tribunale di Milano nel giudizio di separazione, in cui la resistente G. aveva proposto domanda riconvenzionale, ribadita dal difensore in sede di conclusioni, nonostante la mancata richiesta di mezzi istruttori e il mancato deposito di documentazione e comparsa conclusionale, così determinandone il rigetto per mancanza di prova e persino la condanna al pagamento della somma di 2 mila euro per lite temeraria.
2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso il difensore del N., che ne chiede l'annullamento per i motivi di seguito illustrati.
2.1 Con il primo motivo denuncia la contraddittorietà della motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dei reati contestati, atteso che il pacifico esercizio abusivo delle funzioni all'udienza del 25 maggio 2017 dimostra che il ricorrente non ha abbandonato la difesa della G. e ciò contrasta con la condanna per patrocinio infedele; sostiene che eventuali colpose omissioni del professionista non integrano il delitto doloso di cui all'art. 380 cod. pen.
2.2 Vizi di motivazione ed erronea ricostruzione degli elementi probatori in ordine alla ritenuta sussistenza del nocumento richiesto dall'art. 380 cod. pen.
La Corte di appello non avrebbe verificato il nocumento arrecato alla cliente, trascurando che la persona offesa poteva appellare la sentenza ed evitare danni, chiedendo il divorzio; che la stessa sentenza di separazione evidenziava la superfluità di ulteriore istruttoria e respingeva la domanda di addebito proposta dalla G.; peraltro, proprio mediante l'esercizio abusivo della professione il ricorrente intendeva evitare un nocumento alla cliente né risulta la violazione del codice deontologico.
2.3 Omessa motivazione in relazione all'elemento soggettivo dei reati per non avere la Corte di appello risposto alla specifica censura formulata in appello, specie a fronte della necessità di chiarire il comportamento dell'imputato, ritenuto incomprensibile, sotto il profilo della fedeltà del patrocinatore, non potendo ritenersi configurabile il reato ogni qualvolta l'iniziativa risulti discutibile o incomprensibile.
2.4 Violazione di legge in relazione al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche ed alla eccessività della pena per non avere la Corte adeguato la pena al fatto, pur ritenendo severo il giudizio del Tribunale.
2.5 Mancato riconoscimento dell'impedimento a comparire dell'imputato per avere la Corte di appello motivato il rigetto con riferimento all'impedimento del difensore e non dell'imputato, evidentemente indotta in errore dalla professione legale dell'imputato.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è inammissibile per genericità dei motivi, meramente reiterativi di censure già vagliate e disattese in sentenza con congrua e lineare motivazione, che si salda a quella ancor più lineare, dettagliata e puntuale della sentenza di primo grado.
E', infatti, consolidato il principio secondo il quale quando le sentenze di primo e secondo grado concordino nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, come nel caso di specie, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda alla precedente per formare un unico corpo argomentativo organico al quale riferirsi per valutare la completezza e congruità della motivazione.
Altrettanto, consolidato è l'indirizzo interpretativo che destina all'inammissibilità i ricorsi i cui motivi si risolvano nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e puntualmente disattesi dalla corte di merito, dovendosi gli stessi considerare non specifici, ma soltanto apparenti, in quanto omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (Sez. 6, n. 23014 del 29/04/2021, B., Rv. 281521).
1.1 Alla luce di tali coordinate è immediatamente rilevabile la inammissibilità del primo motivo, che ripropone la tesi della inconciliabilità dei due reati contestati, dovendo, a parere del ricorrente, ritenersi sussistente o l'uno o l'altro reato e ciò nonostante sia stato ben chiarito in sentenza che le condotte contestate sono due e di diversa natura, consistendo quella commissiva, oggetto del capo A), nell'attività espletata all'udienza del 25 maggio 2017, quando, in palese violazione del divieto di sospensione dalla professione, il ricorrente si presentava in qualità di difensore della G. e precisava le conclusioni; quella omissiva, oggetto del capo B), nella violazione degli accordi e delle intese con la cliente nonché del dovere di lealtà e correttezza professionale, omettendo di depositare -o almeno di incaricare altri di farlo in sua vece- la comparsa conclusionale o una memoria di replica, oltre a non avere, già in precedenza, avanzato istanze istruttorie né depositato la documentazione trasmessagli dalla cliente.
Come già puntualmente illustrato nella sentenza di primo grado (p.3-4), il ricorrente all'udienza del 31 maggio 2016 aveva rinunciato al termine per il deposito delle memorie dirette a formulare richieste istruttorie né aveva poi depositato la comparsa conclusionale o una memoria dopo l'udienza di precisazione delle conclusioni, e ciò nonostante la G. avesse avanzato pretese economiche nei confronti del coniuge, ribadite in sede di conclusioni, che era necessario provare e argomentare.
Sul punto il ricorso ignora del tutto le condotte decettive del ricorrente, riferite dalla G. e documentate dalle mail scambiate tra la sorella della G., anch'ella legale, e il ricorrente relative all'invio di una memoria e a documentazione da depositare per provare l'attività lavorative del coniuge nonché dal comportamento adesivo e propositivo del ricorrente, che solo apparentemente comunicava loro la propria strategia difensiva senza in realtà fare nulla per attuarla, come dimostrato dall'invio alla cliente di una bozza della comparsa conclusionale da depositare, che, come già detto, non fu depositata (p. 4 sentenza).
2. Tali condotte, contrariamente all'assunto difensivo, sono state correttamente apprezzate dai giudici di merito sotto il duplice profilo sia della competenza, coerenza e linearità della condotta professionale, sia delle conseguenze della stessa, ritenuta incomprensibile ovvero inspiegabile e tale da incidere sull'esito decisorio, risoltosi in danno della cliente, che, oltre a vedere respinte le domande riconvenzionali, subiva doppia condanna al pagamento delle spese per la soccombenza e la temerarietà della lite.
Anche sul punto la sentenza risponde all'obiezione difensiva, correttamente evidenziando che anche l'eventuale proposizione dell'appello con esito vittorioso non avrebbe eliso le conseguenze del precedente grado di giudizio (pag. 5-6 sentenza impugnata). Risulta, peraltro, singolare il tentativo di ascrivere alla mancata iniziativa della G. l'assenza di nocumento, a fronte di un danno oggettivo, concretamente ascrivibile alla inspiegabile e incoerente condotta professionale del ricorrente.
3. Destituita di ogni fondamento è l'eccepita mancanza di motivazione sull'elemento soggettivo dei reati a fronte di specifica, puntuale e corretta motivazione resa sul punto (pag. 6), essendo incontestabile la consapevole violazione del divieto di esercitare l'attività forense nel periodo di sospensione, riscontrabile nella partecipazione all'udienza di precisazione delle conclusioni, ed altrettanto incontestabile la ripetuta violazione dell'obbligo di curare gli interessi della cliente non solo mediante le omissioni descritte, ma persino mentendole ripetutamente sul reale andamento del giudizio.
A tal fine rilevano, come evidenziato in sentenza, non solo la violazione delle regole processuali, ma le false informazioni rese sull'iter processuale, addebitando al giudice, contrariamente al vero, la mancata acquisizione di memorie, invece, non depositate per rinuncia all'apposito termine, e assicurando il deposito della comparsa conclusionale, mai depositata, inviando la bozza alla G., trattandosi di condotte idonee a creare l'apparenza del diligente espletamento del mandato professionale, in realtà, del tutto tradito.
4. Inammissibili per genericità sono i motivi relativi al diniego delle attenuanti generiche e al trattamento sanzionatorio a fronte dell'ampia e puntuale motivazione resa, che attribuisce rilievo alla elevata gravità dei fatti, alla particolare intensità del dolo, alla reiterazione dei comportamenti infedeli e scorretti del legale nonché al precedente per truffa e all'assenza di iniziative riparatorie.
5. Del tutto infondato è anche l'ultimo motivo, respinto in sentenza con motivazione corretta.
La Corte di appello ha ritenuto non provato il carattere assoluto dell'impedimento a comparire dell'imputato ai sensi dell'art. 420-ter cod. proc. pen., come già ritenuto dal primo giudice (pag. 2 sentenza di primo grado), stante l'incompletezza dell'istanza di rinvio presentata dal ricorrente per addurre un contestuale impegno professionale, non risultando idoneamente giustificato il preponderante rilievo dell'impegno in altra sede e l'impossibilità di essere sostituito in quel processo.
A differenza di quanto sostenuto nel ricorso, non vi è stata alcuna confusione o errore determinato dalla coincidente posizione di imputato e di legale del N., in quanto i giudici di merito erano tenuti a valutare l'istanza e l'impegno di lavoro addotto dall'imputato al fine di verificarne rilevanza e indispensabilità, integranti l'assolutezza dell'impedimento a comparire, nella specie esclusa in mancanza del carattere assorbente dell'impegno professionale addotto e tale da giustificare la mancata partecipazione dell'imputato al suo processo.
Considerato che in tema di impedimento dell'imputato a comparire è rimessa al giudice la valutazione, non solo della gravità e del carattere assoluto dello stesso, ma anche della sua attualità, (Sez. 5, n. 43373 del 06/10/2005, Rv. 233079), l'impedimento a comparire dell'imputato, idoneo a giustificare un rinvio d'udienza, deve possedere i caratteri dell'assolutezza e deve essere effettivo, legittimo nonché riferibile ad una situazione non dominabile dall'imputato medesimo e a lui non ascrivibile (Sez. U, n. 36635 del 27/09/2005, Gagliardi, Rv. 231810; Sez. 3, n. 11460 del 05/12/2018, dep. 2019, Salvucci, Rv. 275184, relativa a fattispecie in cui la S.C. ha ritenuto che la richiesta di rinvio d'udienza dell'imputato, fondata sulla generica indicazione di "motivi di lavoro", non fosse esaustiva dell'onere di allegazione e di prova posto a suo carico).
Di tali principi è stata fatta corretta applicazione, essendo stato escluso,
con accertamento in fatto insindacabile in questa sede, il carattere assoluto dell'impedimento a comparire.
All'inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di una somma in favore della cassa delle ammende, equitativamente determinata in tremila euro.
P. Q. M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.