La scriminante di cui all'art. 598 c.p. si applica solo quando le espressioni ingiuriose riguardano, in modo diretto ed immeditato, l'oggetto della controversia. Nel caso di specie, l'avvocato si era rivolto al magistrato facendo ripetutamente riferimento a profili di negligenza, imperizia e ignoranza, ed invitandolo a tornare a studiare la questione controversa.
La Corte d'Appello di Messina confermava la sentenza di primo grado con la quale l'attuale ricorrente era stato condannato in relazione al reato di cui agli
Svolgimento del processo
1. Con la sentenza sopra indicata la Corte di appello di Messina confermava la pronuncia di primo grado del 13 novembre 2017 con la quale il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Messina, all'esito di giudizio abbreviato, aveva condannato G.C. in relazione al reato di cui agli artt. 110 e 343, primo e terzo comma, cod. pen., per avere, quale avvocato difensore di fiducia di G.C. - indagato in un procedimento penale in fase di indagini per aveva concorso, nella veste di notaio, nella commissione dei delitti di falso in atto pubblico e truffa aggravata - nel corso dell'interrogatorio di garanzia curato il 3 novembre 2015 dal Giudice per le indagini preliminari che aveva disposto nei riguardi del C. l'applicazione di una misura cautelare personale, in concorso con il proprio assistito offeso l'onore e il prestigio del pubblico ministero ivi presente T.P., magistrato in servizio presso l'ufficio di procura siracusano; in particolare, dopo che il C. aveva formulato espressioni offensive verso il P. (dicendo che "il pubblico ministero sta(va) dicendo cose inutili", che "il pubblico ministero non (sapeva) neanche cos'è un atto notarile falso... (e che avrebbe dovuto) spiegare di fronte a una pubblica accusa perché (aveva dichiarato) che il (suo) atto pubblico (era) falso", invitando il magistrato "a studiare"), aveva rivolto a quel magistrato altre frasi offensive, anticipandogli che l'indomani "gli avrebbe notificato per questo una citazione personale"; sostenendo di voler sapere dal P. "dove e come si (fosse) permesso di scrivere una richiesta di misura cautelare senza una norma in vigore"; anticipandogli che "questo lo (avrebbero visto) al CSM", avendo ricevuto dal proprio cliente apposito "mandato", perché quello "era il suo lavoro... studiare la responsabilità dei magistrati quando violano gli obblighi in maniera oggettiva"; aggiungendo che "le filosofie che {faceva) il pubblico ministero si scontra(va)no con un principio rodato che (lui) aveva studiato al primo anno di università" e che "doveva studiare il 1488..."; intimandogli di "rendersi conto della gravità del suo comportamento (per aver chiesto) per negligenza e imperizia una misura a un notaio deputato della regione Sicilia; rivolgendosi al magistrato con la frase "non siete Dio!"; chiedendo "l'immediata revoca dell'ordinanza" e riservando "ogni e più opportuna azione sotto il profilo disciplinare"; contestando al P. la sua asserita "ignoranza" in ambito giuridico.
2. Avverso tale sentenza ha presentato ricorso il C., con atto sottoscritto dai suoi difensori, il quale ha dedotto cinque motivi {il cui contenuto è stato ulteriormente esplicitato con la successiva memoria difensiva trasmessa via pec).
2.1. Violazione di legge, in relazione all'art. 178, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., per avere la Corte territoriale ingiustificatamente disatteso la richiesta difensiva di rinvio della trattazione dell'appello nell'udienza del 13 novembre 2019, benché fosse stata documentata l'esistenza di una ragione ostativa sanitaria alla partecipazione dell'imputato a quella udienza.
2.2. Violazione di legge, in relazione all'art. 343 cod. pen., e vizio di motivazione, per manifesta illogicità e contraddittorietà, per avere la Corte distrettuale confermato la pronuncia di condanna di primo grado benché:
2.2.1. il C. fosse stato chiamato a rispondere a titolo di concorso di frasi oltraggiose pronunciate dal coimputato;
2.2.2. il prevenuto fosse stato giudicato responsabile per aver formulato una "minaccia di azione disciplinare", che è elemento estraneo al paradigma normativo della fattispecie oggetto di addebito;
2.2.3. il predetto avesse pronunciato la frase "il 1488 lei lo deve andare a studiare, non io" che altro non era stata se non una risposta ad analoga affermazione rivoltagli dal pubblico ministero nel corso di quell'interrogatorio;
2.2.4. l'imputato avesse espresso indicazioni oggettivamente pertinenti e continenti rispetto all'oggetto della disputa giuridica, tenuto conto che a seguito e per effetto di quei rilievi critici il pubblico ministero aveva provveduto a modificare il capo d'imputazione, eliminando ogni riferimento alla violazione di un protocollo notarile che non era mai entrato in vigore;
2.2.5. il C. fosse stato, dunque, dichiarato colpevole non per l'effettivo contenuto e il valore semantico delle frasi pronunciate all'indirizzo del magistrato, aspetto che non era stato chiarito (anche per il mero riferimento che era stato fatto agli elementi costitutivi - ignoranza e negligenza - di possibili illeciti disciplinari), ma per il modo in cui le stesse erano state esternate, cioè per il volume della voce e il tono della esposizione.
2.3. Violazione di legge, in relazione agli artt. 598 e 393-bis cod. pen., e vizio di motivazione, per travisamento del fatto, per avere la Corte di merito erroneamente disatteso le richieste difensive di qualificare le affermazioni dell'imputato come direttamente funzionali alla difesa del proprio cliente, accusato di aver violato un protocollo notarile mai entrato in vigore e perciò giuridicamente inesistente; e di aver escluso che quei comportamenti fossero stati giustificati dalla esigenza di reagire al compimento di un atto arbitrario, quale quella di aver formulato una richiesta di applicazione di una misura cautelare nei confronti dell'indagato sulla base di un presupposto normativo inesistente, atto illegittimo perché espressione di quella "ingiustificatezza" e di quella "colpa inescusabile" del pubblico ministero che ben avrebbero potuto integrare gli estremi di un illecito disciplinare; ed ancora, per avere la Corte di appello attribuito al C. la espressione di frasi che erano state, invece, certamente pronunciate dal coimputato C..
2.4. Violazione di legge, in relazione all'art. 343, terzo comma, cod. pen., e vizio di motivazione, per illogicità, per avere la Corte messinese ritenuto la sussistenza della aggravante della minaccia, laddove l'imputato si era limitato a prospettare la possibilità della presentazione di una denuncia di natura disciplinare, comportamento che non può essere qualificato come minaccioso a fini penali.
2.5. Vizio di motivazione, per assenza o apparenza, per avere la Corte territoriale disatteso le richieste difensive di riduzione della pena, di riconoscimento delle attenuanti generiche con giudizio di prevalenza e di concessione del beneficio della non menzione della condanna, nonostante fosse risultato che il C. aveva agito nella convinzione di esercitare un diritto di critica, proprio della sua attività professionale, a fronte della ingiustificatezza della richiesta cautelare che era stata formulata dal pubblico ministro.
Motivi della decisione
1. Ritiene la Corte che il ricorso presentato nell'interesse di G.C. vada rigettato.
2. Il primo motivo del ricorso non supera il vaglio preliminare di ammissibilità per la genericità del suo contenuto.
Nella giurisprudenza di legittimità si è avuto modo ripetutamente di chiarire che il requisito della specificità dei motivi implica non soltanto l'onere di dedurre le censure che la parte intenda muovere in relazione ad uno o più punti determinati della decisione, ma anche quello di indicare, in modo chiaro e preciso, gli elementi che sono alla base delle censure medesime, al fine di consentire al giudice dell'impugnazione di individuare i rilievi mossi ed esercitare il proprio sindacato.
Nella fattispecie il ricorrente si è limitato ad enunciare il dissenso rispetto alle valutazioni compiute dai giudici di secondo grado, senza realmente specificare gli aspetti di criticità di passaggi giustificativi della decisione, cioè omettendo di confrontarsi realmente con la motivazione della ordinanza con la quale la Corte di appello aveva rigettato la richiesta di rinvio della trattazione dell'impugnazione ad altra udienza. Provvedimento con il quale i giudici di merito avevano motivatamente escluso che il problema di salute dell'imputato fosse una legittima causa di ostacolo a comparire in udienza, considerato che per l'art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen. stabilisce che il giudice deve rinviare il procedimento ad altra udienza solo se l'assenza dell'imputato sia dovuta "ad assoluta impossibilità a comparire": situazione non sussistente nel caso di specie nel quale la difesa aveva allegato un certificato medico attestante che il 7 novembre 2019, dunque sei giorni prima della data dell'udienza, il C. era affetto da una nevralgia e da una faringotracheite, con prescrizione di riposo ma senza alcuna attestazione di un assoluto impedimento a comparire né nel giorno di rilascio del certificato medico, né tanto meno in quello dell'udienza (in tal senso v. Sez. 6, n. 54424 del 27/04/2018, Calabrò, Rv. 274680-07).
Non conducono a differenti conclusioni gli argomenti esposti nella memoria difensiva trasmessa via pec e la documentazione ad essa allegata, in quanto dal fascicolo risulta che all'udienza del 13 novembre 2019 i difensori del C. produssero il solo certificato medico del 7 novembre 2019 innanzi citato, mentre altro certificato sanitario venne messo dal prevenuto a disposizione dei suoi patrocinatori solo il 15 novembre 2019.
3. Il secondo motivo del ricorso è inammissibile con riferimento alle doglianze indicate sinteticamente nei punti 2.2.1. e 2.2.3 del 'Ritenuto in fatto', in quanto concernenti questioni che non erano state devolute all'esame del giudice di secondo grado.
L'art. 606, comma 3, cod. proc. pen. prevede, infatti, espressamente come causa speciale di inammissibilità la deduzione con il ricorso per cassazione di questioni non prospettate nei motivi di appello: situazione, questa, con la quale si è inteso evitare il rischio di un annullamento, in sede di cassazione, del provvedimento impugnato, in relazione ad un punto intenzionalmente sottratto alla cognizione del giudice di appello.
4. Il secondo motivo del ricorso, con riferimento alle doglianze difensive riportate nei punti 2.2.2., 2.2.4. e 2.2.5. del 'Ritenuto in fatto', nonché il terzo e il quarto motivo del ricorso, nella parte in cui sono stati denunciati vizi di motivazione, sono inammissibili perché caratterizzati dalla fedele riproposizione delle stesse identiche censure che erano state formulate con l'atto di appello, senza in alcun modo considerare ovvero senza adeguatamente confrontarsi con le ragioni che la Corte di merito aveva esposto per ritenere quei motivi infondati.
Rappresenta espressione di un pacifico orientamento della giurisprudenza di legittimità il principio secondo il quale è inammissibile per genericità il ricorso per cassazione, i cui motivi si limitino a pedissequamente replicare le medesime ragioni e gli stessi argomenti già illustrati in atti presentate al giudice a quo, in modo disancorato dalla motivazione del provvedimento impugnato, che quelle ragioni e argomenti abbia puntualmente disatteso (in questo senso, tra le molte, Sez. 3, n. 29612 del 05/05/2010, R., Rv. 247741).
Il terzo motivo del ricorso è, altresì, inammissibile nella parte in cui è stato prospettato un vizio della motivazione per 'travisamento del fatto' Ed invero non è possibile dedurre con il ricorso per cassazione il mero travisamento dei fatti, essendo pacifico che, in base all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., è consentito dedurre con il ricorso per cassazione solamente il vizio di 'travisamento della prova', che ricorre nel caso in cui il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova obiettivamente ed incontestabilmente diverso da quello reale, mentre non è consentito dedurre - come nella fattispecie è accaduto - il vizio del 'travisamento del fatto', stante la preclusione per il giudice di legittimità a sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito.
5. Gli stessi punti di censura indicati nel punto che precede, nella parte in cui sono state ipotizzate la mancata osservanza o l'erronea interpretazione delle indicate disposizioni del codice penale, sono infondati.
5.1. Quanto alla sussistenza degli elementi costitutivi oggettivi previsti dalla norma incriminatrice in argomento, va detto che sono prive di pregio le questioni poste dal ricorrente, di cui al punto 2.2.5. del 'Ritenuto in fatto.'
La Corte di appello, con motivazione congrua, ha chiarito come il C. dovesse considerarsi responsabile delle offese rivolte al magistrato in udienza, non per il tono o il volume della voce, ma per la oggettiva capacità delle frasi pronunciate di ledere l'interesse giuridico protetto che si identifica con il rispetto dovuto alle funzioni giudiziarie esercitate da un magistrato in quel contesto funzionale. In tale ottica, le parole impiegate dal prevenuto, l'aver fatto ripetutamente riferimento a profili di negligenza, imperizia e ignoranza, oltre che l'invito sarcastico a studiare principi che si insegnano agli studenti del primo anno della facoltà di giurisprudenza, avevano avuto ad oggetto apprezzamenti oggettivamente offensivi della reputazione e del prestigio del magistrato preso di mira.
Le valutazioni dei giudici di merito risultano, dunque, coerenti con l'insegnamento di questo Supremo Collegio che ha avuto modo più volte di puntualizzare come integrino gli estremi del delitto de quo le espressioni e gli apprezzamenti denigratori della reputazione e del prestigio rivolti, anziché agli atti e ai provvedimenti, direttamente alla persona del magistrato (così, tra le altre, Sez. 5, n. 31267 del 14/09/2020, Lanzetta, Rv. 279750-01; Sez. 6, n. 20085 del 26/04/2011, Prencipe, Rv. 250070): e ciò perché, come si è chiarito nella giurisprudenza costituzionale, "tutti gli atti e ogni condotta nel processo devono rispecchiare il dovere di correttezza anche nelle forme espressive usate dalle parti" (Corte cast., sent. n. 380 del 1999).
5.2. Quanto alle doglianze difensive formulate in termini di violazione di legge con il terzo motivo del ricorso, le stesse appaiono manifestamente infondate.
Costituisce ius receptum nella giurisprudenza di questa Corte di cassazione il principio secondo il quale la condotta oggettivamente offensiva posta in essere da un patrocinatore nell'esercizio della sua attività difensiva dinanzi all'autorità giudiziaria può ritenersi scriminata ai sensi dell'art. 598 cod. pen. occorre che le espressioni ingiuriose concernano, in modo diretto ed immediato, l'oggetto della controversia ed abbiano rilevanza funzionale per le argomentazioni poste a sostegno della tesi prospettata o per l'accoglimento della domanda proposta (in questo senso, tra le molte, Sez. 5, Sentenza n. 8421 del 23/01/2019, Gigli, Rv. 275620; Sez. 5, n. 2507 del 24/11/2016, dep. 2017, Carpinelli, Rv. 269075; Sez. 6, n. 14201 del 06/02/2009, Dodaro, Rv. 243833, in un caso nel quale, significativamente, si è considerato sussistente il reato in parola nelle condotte che si erano sostanziate nel definire "ignorante" nelle materie trattate il pubblico ministero di udienza).
Di tale regula iuris la Corte distrettuale ha fatto buon governo, osservando come nel caso in esame il C., in maniera tutt'altro che corretta e misurata, avesse offeso il magistrato P. riferendo il mancato possesso di conoscenze basilari del diritto e invitandolo a tornare a studiare la questione controversa, rafforzando l'affermazione del proprio assistito che aveva sostenuto che il pubblico ministero stava dicendo "cose inutili", nonché contestando apertamente, e senza alcun rispetto del limite della continenza, al suo interlocutore istituzionale di essere "ignorante, negligente e imperito".
5.3. Anche l'affermazione contenuta nella sentenza gravata circa l'assenza delle condizioni per applicare la scriminante dell'art. 393-bis cod. pen. resta esente da qualsivoglia censura di legittimità.
Al riguardo si è rimarcato come, in tema di oltraggio a magistrato in udienza,
la scriminante di cui all'art. 393-bis cod. pen. presuppone il compimento di un'attività arbitraria o ingiustamente persecutoria del magistrato che, eccedendo i limiti delle proprie attribuzioni funzionali, fuoriesca del tutto dalle ordinarie modalità di esplicazione del "munus" pubblico demandatogli nei confronti delle parti e dei difensori, la cui reazione, in presenza di un atto oggettivamente illegittimo, non è punibile solo se strettamente proporzionale all'esigenza di esercitare un proprio diritto (così, tra le molte, Sez. 5, Sentenza n. 31267 del 14/09/2020, Lanzetta, Rv. 279750-02).
Principio di cui la Corte messinese ha fatto corretta applicazione sottolineando come nel caso in esame fossero del tutto assenti nell'iniziativa del pubblico ministero i caratteri di pura arbitrarietà ovvero di ingiusta finalità persecutoria, in quanto l'erroneo riferimento, che quel magistrato aveva fatto nell'originaria imputazione provvisoria, ad un testo normativo di un protocollo che non era mai entrato in vigore - richiamo che, peraltro, non era stato neppure verificato dal giudice, che nei confronti dell'indagato aveva disposto l'applicazione della misura cautelare, al quale significativamente non era stata rivolta alcuna esarcebata critica difensiva - non solo era un errore cui lo stesso aveva poi posto rimedio, ma che non aveva influito in maniera determinante sul provvedimento adottato: difetto che eloquentemente non aveva impedito al giudice per le indagini preliminari di stigmatizzare negativamente il comportamento del notaio C., e che, lungi dal portare all'archiviazione del procedimento, come aveva auspicato la difesa, non aveva impedito al pubblico ministero di mantenere ferma l'ipotesi accusatoria, contestando, con la sola parziale rettifica dell'imputazione, il medesimo addebito con l'avviso della conclusione delle indagini ex art. 415-bis cod. proc. pen.
5.4. Con riferimento alle questioni poste con il secondo motivo, di cui al punto 2.2.2. del 'Ritenuto in fatto', e con lo strettamente connesso quarto motivo, è sufficiente rilevare come la Corte di appello di Messina si sia uniformata al consolidato indirizzo interpretativo della giurisprudenza di legittimità secondo il quale la prospettazione della presentazione di una denuncia diretta a far desistere taluno da un comportamento ritenuto illegittimo o ad indurlo ad una prestazione dovuta costituisce male ingiusto laddove la prospettazione medesima non sia correlata in modo plausibile con il diritto preteso (in questo senso, tra le altre, Sez. 6, n. 57231 del 09/11/2017, Longo, Rv. 271672): e ciò perché la minaccia di esercitare un diritto, qual è indubbiamente la minaccia del promovimento di un'azione giudiziaria civile o la formalizzazione di una segnalazione finalizzata all'attivazione dell'azione disciplinare nei riguardi del proprio interlocutore, pur ponendo il soggetto passivo nella condizione di subire un pregiudizio dei propri interessi, non presentano, di per se sole, i caratteri propri della minaccia rilevante penalmente; a meno che "lo scopo dell'agente non sia quello di attingere, con altrui danno, un vantaggio ulteriore e diverso, perché l'esercizio del diritto non è in funzione dell'interesse protetto ed il pregiudizio che, attraverso l'iniziativa giudiziaria formalmente legittima, si minaccia di infliggere al soggetto passivo non è funzionale al predetto interesse ma ad una pretesa ulteriore che, in quanto non garantita giuridicamente in quello specifico rapporto, deve considerarsi illegittimamente perseguita attraverso quel particolare strumento giudiziale utilizzato o che si minaccia di utilizzare" (così in Sez. 2, n. 16618 del 16/01/2003, Staniscia, non massimata).
In tale ottica appare convincente il passaggio argomentativo contenuto nella sentenza impugnata nella parte in cui è stato sottolineato come la minaccia formulata dal C. di citare a giudizio civile il pubblico ministero P. (azione di risarcimento che, per giunta, la disciplina sulla responsabilità civile dei magistrati - come noto - non consente di promuovere direttamente nei riguardi del magistrato) ovvero a denunciarlo disciplinarmente dinanzi al Consiglio Superiore della Magistratura, lungi dall'essere funzionalmente collegabile alla tutela del diritto alla libertà del proprio assistito - diritto che, peraltro, quel difensore era messo in condizioni di far valere dinanzi al giudice per le indagini preliminari che stava procedendo al compimento dell'interrogatorio di garanzia e al quale era stata domandata la verifica della permanenza dei presupposti operativi della misura cautelare applicata al proprio cliente - avesse avuto come scopo, oltre che di screditare il magistrato della pubblica accusa, quello di intimidire e spaventare lo stesso pubblico ministero nella speranza che lo stesso non insistesse nel coltivare, nel prosieguo del procedimento, una ipotesi di accusa che il difensore aveva reputato del tutto infondata.
7. Il quinto e ultimo motivo del ricorso è inammissibile perché manifestamente infondato.
Nell'atto di appello le richieste difensive finalizzate ad ottenere una riduzione della pena inflitta, il riconoscimento delle attenuanti generiche con giudizio di prevalenza sulla aggravante contestata e la concessione del beneficio della non menzione della condanna, erano state formulate in termini molto indeterminati con un mero richiamo degli argomenti posti a fondamento della asserita configurabilità delle innanzi considerate esimenti.
Talché del tutto legittimamente la Corte di appello, avendo in maniera motivata escluso l'applicabilità nella fattispecie degli artt. 598 e 393-bis cod. pen., si è limitata a rilevare l'assenza di dati idonei a giustificare una riduzione della pena inflitta dal giudice di primo grado, ritenendo il trattamento sanzionatorio comunque congruo rispetto ai parametri della gravità oggettiva del fatto, delle modalità della condotta e della intensità del dolo mostrato dall'imputato.
8. Segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.