L'Amministrazione non può modificare, integrare o sostituire durante il giudizio i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche della pretesa posti alla base dell'avviso di accertamento o di liquidazione e non può invocare a fondamento delle sue pretese ragioni diverse da quelle di cui all'atto impositivo.
La controversia trae origine da un avviso di rettifica e liquidazione notificato dall'Amministrazione finanziaria all'attuale ricorrente per l'imposta di successione. Nello specifico, quest'ultima aveva presentato la voluntary disclosure dalla quale era emerso un compendio ereditario sito all'estero per circa un miliardo di lire, dunque l'Agenzia delle Entrate aveva provveduto...
Svolgimento del processo
In data 1 dicembre 2015 la contribuente, nella qualità di erede, ha presentato istanza di collaborazione volontaria ai sensi della legge 168/2014 (voluntary disclosure) dichiarando l'esistenza di un compendio ereditario, sito nel Principato di Monaco e in Francia, per circa un miliardo di lire, non riportato nella dichiarazione di successione del 29 marzo 2010 e neppure nelle dichiarazioni integrative del 15 febbraio 2012 e dell'11 aprile 2013.
In data 6 ottobre 2016 l'Agenzia delle entrate notificava avviso di rettifica e liquidazione per l'imposta di successione: in detto avviso si comunicava di avere proceduto al controllo dei valori dichiarati nella dichiarazione di successione dell'11 aprile 2013 e di ritenerla una dichiarazione infedele sulla base di quanto emerso nell'istanza di voluntary disclosure.
La contribuente presentava osservazioni sollecitando l'esercizio dell'autotutela e l'Agenzia, con un provvedimento in autotutela del 29 novembre 2016, rideterminava la somma dovuta, escludendo le sanzioni, e deducendo le somme versate per la definizione della distanza di collaborazione volontaria, ma manteneva la pretesa principale specificando "di non poter accogliere la richiesta in autotutela in via principale in quanto si considera ad ogni modo dovuta l'imposta accertata con avviso di accertamento a seguito della presentazione dell'istanza di adesione, che deve considerarsi opportunamente, data la natura intrinseca e contenuto dichiarativo dell'istituto della voluntary disclosure, equivalente a una dichiarazione di successione, anche se la stessa non viene presentata secondo i dettami e i modelli previsti dalla normativa" (come trascritto a pag. 21 del ricorso).
La contribuente in data 2 dicembre 2016 proponeva ricorso avverso l'avviso di rettifica e liquidazione osservando che la voluntary disclosure è diretta soltanto a regolarizzare la posizione reddituale ed è cosa diversa dalla dichiarazione anche integrativa di successione e che pertanto non poteva ritenersi che ella con la predetta istanza avesse manifestato alcuna volontà di corrispondere il tributo. Di conseguenza, non potendosi equiparare la disclosure a una dichiarazione di successione integrativa, l'ufficio avrebbe dovuto accertare e rettificare la sua dichiarazione in entro il termine di due anni dal pagamento dell'imposta principale come previsto dall'articolo 27 comma 3 del D.lgs. 346/1990 (T.U. delle disposizioni concernenti l'imposta sulle successioni e donazioni).
Il ricorso della contribuente è stato respinto in primo grado, recependo le difese dell'ufficio e ritenendo che l'istanza di volontary disclosure deve essere considerata una dichiarazione integrativa nulla, in quanto non presentata con le modalità prescritte dall'articolo 27 e pertanto omessa; di conseguenza in caso di omissione della dichiarazione, anche integrativa, l'ufficio deve liquidare la maggiore imposta sui beni emersi da tale dichiarazione. La contribuente ha proposto appello, che è stato respinto, ritenendo che, ai sensi del combinato disposto degli artt. 27 e 35 del T.U. 346/ 1990, la dichiarazione di emersione costituisce comunque una dichiarazione sull'esistenza di beni esteri avente valore confessorio che impone di attivare il recupero dell'imposta da parte dell'ufficio ai sensi degli artt. 48 e 56 bis del T.U. e pertanto ha ritenuto infondata l'eccezione di decadenza. La Commissione regionale ha ritenuto inoltre infondata la eccezione di mutamento da parte dell'Agenzia, in corso di giudizio, delle ragioni della pretesa rispetto alle ragioni contenute nell'atto impugnato, osservando che si tratta semplicemente di una qualificazione giuridica e cioè il nomen iuris adottato con l'avviso impugnato non impedisce che la fattispecie sia ricondotta sotto diversa qualificazione giuridica.
Avverso la predetta sentenza propone ricorso alla contribuente affidandosi a quattro motivi.
L'Agenzia delle entrate si è costituita con controricorso.
La causa è stata trattata all'udienza camerale non partecipata del 26 maggio 2022.
Motivi della decisione
1.- Con il primo motivo del ricorso si lamenta ai sensi dell'art. 360 n.3, 4, 5, c.p.c. la violazione di legge e l'erroneità della sentenza per avere ritenuto ammissibile il mutamento del titolo della pretesa fiscale dell'ufficio, vincolata invece dagli elementi esposti nella motivazione dell'atto originario; la carenza di motivazione dell'atto impugnato, e la violazione dell'art. 3 della L. 241/1990, degli artt. 3 e 24 Cost. poiché essa contribuente aveva tempestivamente dedotto che l'atto era stato emesso oltre i termini di legge e di contro l'ufficio ne ha sostenuto in giudizio la legittimità sulla base di ragioni differenti. Deduce che l'ufficio avrebbe dovuto rispettare i termini per la rettifica delle dichiarazioni di successione a suo tempo liquidate e non considerare l'istanza di voluntary disclosure una nuova e ulteriore dichiarazione di successione; che ha errato il giudice d'appello ad accogliere detta tesi difensiva, che non faceva parte del thema decidendum originario.
2.- Con il secondo motivo del ricorso si lamenta, ai sensi dell'art 360 n.3 e 5 c.p.c. la violazione dell'art. 27 del D.lgs. 346/ 1990 per intervenuta decadenza dai termini. Con questo motivo la ricorrente ribadisce che la dichiarazione di adesione alla disclosure non costituisce una nuova dichiarazione di successione; e che comunque le è stata contestata la infedele dichiarazione rispetto a una dichiarazione del 2013, e al relativo pagamento dell'imposta, e quindi oltre i termini previsti dall'art. 27 cit. Ha errato pertanto la Commissione regionale a non considerare che l'avviso di rettifica e liquidazione era affetto da nullità insanabile in quanto emesso oltre i termini di decadenza dal potere di rettifica.
3.- Con il terzo motivo del ricorso si lamenta la erroneità della sentenza in relazione all'art 360 n. 4 e 5 c.p.c. e l'errata interpretazione dei fatti di causa. La ricorrente deduce che l'ultima dichiarazione integrativa è stata presentata in data 11 aprile 2013 e di non averne presentate altre sicché l'omesso inserimento nelle dichiarazioni presentate dei beni esteri integra la fattispecie di infedele dichiarazione di successione di cui al comma 3 dell'art. 27 del D.lgs. 346/1990; la vertenza in oggetto andava quindi inquadrata nella fattispecie di infedeltà della dichiarazione come peraltro esplicitato nello stesso avviso notificato dalla Agenzia.
4.- Con il quarto motivo del ricorso si lamenta la erroneità della sentenza in relazione all'art 360 n. 3 e 5 c.p.c. per errata attribuzione all'istanza di voluntary disclosure della qualifica di fatto nuovo che legittima l'applicazione del comma 6 dell'art. 28 del T.U.. La ricorrente deduce che è irrilevante il richiamo all'art. 48 (divieto di compiere atti per i beni per i quali non è stata presentata la dichiarazione di successione) e che la presentazione della istanza di voluntary disclosure non costituisce una dichiarazione di successione integrativa nè un fatto nuovo; peraltro le consistenze finanziarie denunciate erano nel patrimonio del de cuius ancor prima della presentazione dell'istanza di successione.
5.- I primi tre motivi possono esaminarsi congiuntamente e sono fondati nei termini di cui appresso.
I fatti di causa sono sostanzialmente pacifici.
La contribuente è erede di (omissis), il quale deteneva nel (omissis) e in (omissis) attività finanziarie che non sono state da lei inserite nella dichiarazione di successione originaria né nelle successive dichiarazioni integrative del 15 febbraio 2012 e dell'11 aprile 2013. La ricorrente deduce di avere pagato le imposte liquidate sulle predette dichiarazioni integrative ed in particolare, con riferimento alla dichiarazione integrativa dell'11 aprile 2013, di aver pagato l'imposta principale di euro 4.985,43 in data 12 giugno 2013, e a riprova di ciò indica il documento attestante il versamento depositato in uno al ricorso di primo grado.
L'erario è venuto a conoscenza dell'esistenza dei beni detenuti all'estero soltanto in data 1 dicembre 2015, quando l'odierna ricorrente ha presentato l'istanza di adesione alla procedura di collaborazione volontaria. La ricorrente ha quindi ricevuto in data 6 ottobre 2016 un avviso di rettifica e liquidazione (trascritto a pagina 5 del ricorso) ove l'Agenzia delle entrate comunica "di aver proceduto al controllo dei valori dichiarati per i beni e i diritti oggetto della dichiarazione di successione volume 9990 n. 1107 (dichiarazione integrativa) presentata il 11/04/2013 in morte di (omissis) deceduto il (omissis)”.
E' pertanto pacifico che la contestazione originaria riguardava l'ultima dichiarazione di successione integrativa, presentata l'11 aprile 2013 e che su di essa era basato l'avviso di rettifica e liquidazione. La tesi accolta dai giudici tributari di merito, a fronte della eccezione di decadenza proposta dalla contribuente, viene prospettata dalla Agenzia nel provvedimento di autotutela (trascritto a pag. 21 del ricorso) ove si legge "si ritiene di non poter accogliere la richiesta in autotutela in via principale in quanto si considera ad ogni modo dovuta l'imposta accertata con avviso di accertamento a seguito della presentazione dell'istanza di adesione, che deve considerarsi opportunamente, data la natura intrinseca e contenuto dichiarativo dell'istituto della voluntary disclosure, equivalente a una dichiarazione di successione, anche se la stessa non viene presentata secondo i dettami e i modelli previsti dalla normativa". In base a queste argomentazioni, l'Agenzia delle entrate ritiene possa superarsi l'eccezione di decadenza, che non decorrerebbe dal pagamento dell'imposta principale come stabilito dal comma terzo dell'art. 27 del D.lgs. 346/1990 ma dalla proposizione della nuova dichiarazione, (così qualificando l'istanza di voluntary disclosure) come stabilito dal comma 2 dello stesso art 27, pur se essa è da considerarsi nulla.
La contribuente ritiene che questa impostazione sia erronea nel merito, ed in ogni caso inammissibilmente proposta in quanto costituisce una integrazione dei motivi contenuti dell'avviso impugnato; di contro l'Agenzia eccepisce che l'eccezione relativa all'integrazione dei motivi di recupero in sede contenziosa era stato prospettato per la prima volta in appello e quindi costituirebbe un novum. Questa ultima eccezione è però infondata, poiché il ricorso della contribuente muove dal presupposto che l'atto costituisca rettifica della dichiarazione integrativa del 2013 ed in quanto tale tardivo; il giudice di primo grado lo qualifica diversamente e la contribuente di conseguenza ha proposto appello deducendo che l'Agenzia non poteva cambiare causa petendi in corso di giudizio e che il giudice non avrebbe dovuto recepire questa tesi. In definitiva, quindi, il motivo d'appello si pone come sviluppo della linea difensiva adottata in primo grado.
Nel merito, i rilievi della contribuente sono fondati.
Si deve premettere che il presente giudizio non riguarda la procedura di collaborazione volontaria in sé considerata, procedura che ai sensi dell'art. 1 della legge 186/2014 può essere utilizzata da coloro che intendono regolarizzare violazioni in materia di obblighi di dichiarazione ai fini delle imposte sui redditi e relative addizionali, delle imposte sostitutive delle imposte sui redditi, dell'imposta regionale sulle attività produttive e dell'imposta sul valore aggiunto, nonché le violazioni relative alla dichiarazione dei sostituti d'imposta.
La questione riguarda invece la rettifica di una dichiarazione di successione, sulla base delle notizie contenute nella istanza di voluntary disclosure e i relativi termini di decadenza, fermo restando che non risulta che la contribuente abbia presentato, prima o dopo l'adesione alla procedura prevista dalla legge 186/2014, una ulteriore formale dichiarazione di successione per i beni detenuti all'estero dal suo dante causa.
La procedura di regolarizzazione volontaria nulla prevede in tema di imposte di successioni e donazioni, con la conseguenza che laddove emergano violazioni in questo ambito, l'ufficio attiva le conseguenti attività di controllo, per le quali però sono previsti termini di decadenza, diversi a seconda che il contribuente presenti o meno una denuncia di successione integrativa relativa ai beni esteri. La presentazione dell'istanza di regolarizzazione non può infatti valere come dichiarazione di successione, poiché l'art. 28, comma 3, del D.lgs. 346/1990 richiede, a pena di nullità, che essa venga redatta su stampato fornito dall'ufficio.
È poi previsto dall'art. 48, comma 2, dello stesso D.lgs. che gli impiegati dello Stato "non possono compiere atti relativi a trasferimenti per causa di morte, se non è stata fornita la prova della presentazione, anche dopo il termine di cinque anni di cui all'art. 27, comma 4, della dichiarazione di successione o dell'intervenuto accertamento d'ufficio". Tuttavia l'omessa dichiarazione non osta a che gli uffici dell'Agenzia delle entrate processino una istanza di voluntary disclosure: nelle circolari esplicative non vi è specifica indicazione in tal senso, e comunque la istanza di disclosure non si può considerare un atto di trasferimento (per cui verrebbe in applicazione l'art 48), essendo volta, come sopra si diceva, solo a regolarizzare i profili tributari citati nell'art. 1 della legge 186/2014. In ordine ai poteri accertativi e di rettifica in tema di imposta di successione, l'art 27 del D.lgs. 346/1990 al comma secondo dispone che "L'imposta è liquidata dall'ufficio in base alla dichiarazione della successione, a norma dell'art. 33, ed è nuovamente liquidata, a norma dello stesso articolo, in caso di successiva presentazione di dichiarazione sostitutiva o integrativa di cui all'art. 28, comma 6. La liquidazione deve essere notificata, mediante avviso, entro il termine di decadenza di tre anni dalla data di presentazione della dichiarazione della successione o della dichiarazione sostitutiva o integrativa". Al successivo comma 3 dispone che "Successivamente l'ufficio, se ritiene che la dichiarazione, o la dichiarazione sostitutiva o integrativa, sia incompleta o infedele ai sensi dell'art. 32, commi 2 e 3, procede alla rettifica e alla liquidazione della maggiore imposta a norma dell'art. 34. La rettifica deve essere notificata, mediante avviso, entro il termine di decadenza di due anni dal pagamento dell'imposta principale. Infine, nel caso in cui la dichiarazione venga omessa (e tale si considera ai sensi dell'art 28, comma 8 del T.U. la dichiarazione nulla, perché non presentata sul modulo stampato fornito dall'ufficio) l'ufficio provvede all'accertamento e liquidazione secondo le modalità previste dall'art 35.
Nell'avviso notificato alla ricorrente ed oggetto di impugnazione (per come trascritto, senza contestazioni sulla esattezza della trascrizione) si opera una rettifica della dichiarazione integrativa dell' 11 aprile 2013, muovendo dal fatto storico della rivelazione di beni detenuti all'estero (quelli indicati nella voluntary disclosure) e contestando la "infedele dichiarazione di successione (in quanto priva di beni esteri)"... "senza aver presentato una dichiarazione di successione integrativa di quella incompleta".
Pertanto, pur se in detto avviso l'amministrazione finanziaria invoca il comma secondo dell'art. 27 cit., la fattispecie in esso descritta corrisponde a quella di cui al comma terzo della norma (rettifica dichiarazione infedele). L'avviso non contiene invece riferimento alla fattispecie di cui agli artt. 28 comma 8 e 35 del T.U. (dichiarazione da considerarsi omessa perché nulla).
Il provvedimento di autotutela contiene invero una diversa motivazione riguardo la pretesa (o meglio le ragioni per cui l' Agenzia pur eliminando le sanzioni mantiene la pretesa impositiva principale), ma è la stessa amministrazione ad escludere che si tratti di un atto costituente una nuova pretesa impositiva perché non lo considera un atto integrativo o sostitutivo dell'atto emanato, ma semplicemente una revoca parziale; del resto non è avverso questo provvedimento -che la stessa amministrazione espressamente dichiara non impugnabile- che la parte reagisce, bensì avverso l'avviso di liquidazione originario, notificato nell'ottobre 2016.
L'oggetto dell'odierno contendere pertanto è l'avviso di rettifica e liquidazione della dichiarazione di successione integrativa presentata in data 11 aprile 2013 ed è con riferimento alla sua motivazione alla sua causa petendi che deve valutarsi la tempestività e legittimità della azione accertativa. Inteso quale rettifica, ai sensi del comma 3 dell'art. 27 del T.U., della dichiarazione integrativa dell'11 aprile 2013, l'avviso è fuori termine perché notificato nell'ottobre 2016, a fronte di un pagamento effettuato -come dedotto in ricorso senza contestazioni sul punto-in data 12 giugno 2013. Né l'eccezione di decadenza può essere superata invocando in giudizio una diversa ragione della pretesa impositiva e diversamente qualificando l'atto impositivo, ovvero attribuendo alla dichiarazione della contribuente una valenza non regolarmente contestata.
L'ufficio non può infatti modificare, integrare o sostituire in corso di causa i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche della pretesa evidenziati nell'avviso di accertamento o di liquidazione e non può invocare a fondamento delle proprie pretese ragioni diverse da quelle di cui all'atto impositivo (Cass. n. 13163 del 16/05/2019).
La motivazione dell'avviso, infatti, assolve ad una pluralità di funzioni atteso che garantisce il diritto di difesa del contribuente, delimitando l'ambito delle ragioni deducibili dall'ufficio nella successiva fase processuale contenziosa, consente una corretta dialettica processuale, presupponendo l'onere di enunciare i motivi di ricorso, a pena di inammissibilità, e la presenza di leggibili argomentazioni dell'atto amministrativo, contrapposte a quelle fondanti l'impugnazione, e, infine, assicura, in ossequio al principio costituzionale di buona amministrazione, un'azione amministrativa efficiente e congrua alle finalità della legge, permettendo di comprendere la "ratio" della decisione adottata ( Cass. n. 22003 del 17/10/2014).
Pertanto, l'integrazione o la modificazione dell'originario avviso di accertamento determina una nuova pretesa rispetto a quella iniziale, da formalizzarsi, a garanzia del contribuente, con l'adozione di un nuovo atto impositivo che, sostituendosi al primo, indichi i nuovi elementi di fatto, di cui è sopravvenuta la conoscenza; di regola non necessitano di forme o motivazioni particolari le riduzioni della pretesa originaria, non integrante di per sé una nuova pretesa, salvo che le modificazioni apportate alla pretesa fiscale introducano elementi innovativi, idonei a modificare il fondamento del rapporto giuridico d'imposta circoscritto con il primo atto sostituito (Cass. n. 39808 del 14/12/2021)
L'Agenzia delle entrate, con l'atto di autotutela e con le difese che ha spiegato nel presente giudizio, ha sostanzialmente cambiato le ragioni della pretesa impositiva: non più una rettifica della dichiarazione dell'11 aprile 2013 bensì la liquidazione di imposta in ragione della dichiarazione di successione "anomala" contenuta - ad avviso dell'Agenzia e pur in assenza delle debite forme- nella voluntary disclosure stessa. Per esercitare la pretesa sulla base di questa nuova e diversa ragione, l'ufficio avrebbe dovuto emettere un nuovo atto impositivo, corredato della relativa motivazione.
Le ragioni poste a base dell'atto impositivo segnano infatti i confini del processo tributario, che è un giudizio di impugnazione dell'atto, essendo precluso all'ufficio finanziario di porre a base della propria pretesa ragioni diverse e modificare nel corso del giudizio la motivazione dell'atto stesso (Cass. n. 10585 del 13/05/2011)
Si evidenzia quindi l'errore del giudice d'appello, che ha ritenuto trattarsi di una semplice diversa qualificazione giuridica dei fatti portati al suo esame, senza tenere conto che all'esame del giudice tributario viene portato a un già un fatto, bensì un atto impositivo e la pretesa con esso esercitata, la cui motivazione e la relativa indicazione dei presupposti impositivi delimita, come sopra si è detto, l'ambito del giudizio tributario.
Ne consegue l'accoglimento per quanto di ragione dei primi tre motivi del ricorso, assorbito il quarto, la cassazione della sentenza impugnata e non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto può decidersi nel merito accogliendo l'originario ricorso della contribuente. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo, potendosi compensare le spese del doppio grado di merito.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e decidendo nel merito accoglie l'originario ricorso della contribuente.
Condanna l'Agenzia delle entrate al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 5.600,00 per compensi, euro 200,00 per esborsi non documentati, oltre alle spese forfettarie ed agli accessori di legge. Compensa le spese del doppio grado di merito