Nel caso in esame, il Tribunale aveva valorizzato, quale fattore ostativo all'ammissione al beneficio, il fatto che l'imputato, svolgendo una prestazione di lavoro di pubblica utilità, non avrebbe potuto pagare il debito tributario maturato nel corso degli anni di imposta in questione.
La Corte d'Appello di Milano confermava la sentenza di primo grado con la quale l'imputato era stato condannato perché, nelle vesti di legale rappresentante di una società, aveva omesso di presentare le dichiarazioni ai fini tributari, evadendo le imposte per gli anni 2010 e 2011, condannandolo alla pena ritenuta di giustizia e rigettando la sua richiesta di messa alla prova.
Contro...
Svolgimento del processo
La Corte di appello di Milano, con sentenza del 18 febbraio 2021, ha confermato la sentenza con la quale il Tribunale di Milano aveva dichiarato la penale responsabilità P.M. in ordine al reato di cui all'art. 5 del d lgs n. 74 del 2000 da lui commesso in qualità di legale rappresentante della S.M.U. Srl avendo omesso di presentare negli anni di imposta 2010 e 2011 la dichiarazione ai fini tributari, in tal modo evadendo le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, per importi, rispettivamente, pari, relativamente all'anno di imposta 2010, ad euro 69.824,00 per Irpef, ed ad euro 112.232,00 per Iva, e, quanto all'anno di imposta 2011, ad euro 162.492,00 per Irpef, ed ad euro 124.779,00 per Iva, e lo aveva condannato, dopo avere rigettato per mancanza dei necessari presupposti, la richiesta di messa alla prova, unificati reati contestati sotto il vincolo della continuazione, alla pena ritenuta di giustizia.
Avverso tale sentenza della Corte di merito ha interposto ricorso per cassazione la difesa del P., articolando tre motivi di impugnazione.
Il primo di essi ha ad oggetto il vizio di violazione di legge in materia di riconoscimento dell'elemento soggettivo dei reati contestati.
In sostanza, ritiene il ricorrente, che avendo la Corte di appello stigmatizzato la colpevole inerzia del ricorrente nel non aver controllato il corretto adempimento dei doveri fiscali da parte del consulente cui la impresa si era rivolta, peraltro soggetto i cui compiti erano assai più ampi che non la sola gestione fiscale della impresa essendone egli l'amministratore di fatto, essa ha, in sostanza, trattato il reato ascritto al P. come se si trattasse di un reato colposo, avendo del tutto pretermesso di verificare l'esistenza del dolo specifico che la norma precettiva, invece, prevede per esso.
Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente difesa ha lamentato la mancata dichiarazione di intervenuta prescrizione, la quale sarebbe maturata, ha rilevato la difesa dell'imputato, pur applicata alla fattispecie la novella contenuta nell'art. 17, comma 3-bis, del d lgs n. 74 del 2000.
Infine, il ricorrente ha lamentato il fatto che la Corte di appello non abbia accolto il motivo di impugnazione riguardante la mancata ammissione del P. alla messa alla prova, ai sensi dell'art. 168-bis cod. pen.
Avrebbe la Corte di appello, in primo luogo, errato nel ritenere che la richiesta di messa alla prova non fosse esperibile in ordine ai reati commessi dall'imputato; in via subordinata si è osservato da parte della ricorrente difesa che, in ogni caso, sarebbe viziata la motivazione in base alla quale è stata confermata la decisione del Tribunale di rigettare la richiesta di messa alla prova; sarebbe, infatti, irrilevante il dato segnalato dal Tribunale secondo il quale, considerate le condizioni di vita personale, familiare, sociale ed economica del P., oggetto di specifica valutazione da parte del Tribunale, questi non sarebbe in grado di riparare il danno da lui fatto con i reati commessi, riparazione peraltro, aveva aggiunto il Tribunale con il successivo avallo della Corte, da lui neppure simbolicamente tentata; sul punto, infatti, la ricorrente difesa ha osservato che la riparazione del danno non costituisce una condizione ineliminabile per l'accesso alla messa alla prova.
Con atto del 28 marzo 2022 la difesa del ricorrente ha fatto pervenire delle note in replica alle conclusioni scritte del Procuratore generale, insistendo per l'accoglimento del ricorso.
Motivi della decisione
Il ricorso, solo parzialmente fondato, deve essere, pertanto, accolto nei soli limiti di quanto di ragione.
Deve intanto rilevarsi che i motivi di impugnazione proposti dalla ricorrente difesa non hanno ad oggetto la materialità della condotta delittuosa attribuita al P., essendo stata contestata: con il primo motivo di doglianza la violazione di legge in cui sarebbe incorsa la Corte ambrosiana nel ritenere integrato nella fattispecie in capo al P. l'elemento soggettivo proprio dei reati contestati; con il secondo motivo l'intervenuta estinzione, per effetto della maturata prescrizione, degli stessi; infine con il terzo motivo l'erroneità della mancata ammissione dell'imputato alla messa alla prova.
Deve, pertanto, concludersi nel senso che non sia più in discussione il fatto che il P. abbia omesso - quanto agli anni di imposta di cui ai capi di imputazione - la presentazione delle opportune dichiarazioni fiscali, in tal modo sottraendosi al versamento delle relative imposte nella misura indicata in sede di libello accusatorio.
Ciò posto, quanto al primo motivo di impugnazione, avente ad oggetto la ritenuta assenza del dolo specifico, cioè la finalità di evasione delle imposte, nella condotta omissiva del P., il quale aveva affidato, in qualità di legale rappresentante della S.M.U. Srl, l'incarico di redazione e trasmissione delle dichiarazioni fiscali ad un commercialista, tale dott. P., il quale aveva negletto l'impegno assunto, si rileva che in caso di omessa presentazione della dichiarazione annuale dei redditi da parte del professionista a ciò incaricato, la prova del dolo specifico in capo al contribuente, nella specie il legale rappresentante della società contribuente, può desumersi anche dal comportamento successivo da questo tenuto, consistente nel mancato pagamento delle imposte dovute e non dichiarate, essendo questo comportamento dimostrativo della volontà preordinata di non presentare la dichiarazione (Corte di cassazione, Sezione III penale, 29 maggio 2020, n. 16469); si rileva, altresì, che nessun rilievo scriminante della posizione del legale rappresentante può avere la circostanza che tale commercialista svolgesse anche delle funzioni di amministrazione della società in questione, atteso che la indelegabilità da parte del legale rappresentante della società dell'attività di presentazione delle dichiarazioni dei redditi, costituisce un limite alla esclusione della responsabilità penale di tale soggetto in caso di omessa presentazione della dichiarazione fiscale (Corte di cassazione, Sezione III penale, 10 marzo 2020, n. 9417); infine, quanto alla circostanza - allegata dalla ricorrente difesa a sostegno della carenza dell'elemento soggettivo di evasione in capo all'imputato - che, ad esclusione del, invero di fondamentale rilievo, obbligo di versamento delle imposte dovute, quello ha adempiuto a tutte le restanti incombenze fiscali su di lui gravanti, ritiene il Collegio che si tratta di fattore che, a ben riflettere, aggrava, invece che alleviare, la posizione soggettiva del P., mettendo in evidenza il fatto che egli fosse ben consapevole della dovutezza da parte sua degli adempimenti fiscali e, pertanto, rendendo con chiarezza più marcata la sua contezza in ordine alla necessarietà dell'adempimento del principale fra gli obblighi fiscali, cioè quello di corrispondere con tempestività le imposte dovute.
Riguardo alla seconda eccezione contenuta nel ricorso introduttivo del presente giudizio, riguardante l'avvenuta maturazione dei termini prescrizionali dei reati contestati in data anteriore alla pronunzia della sentenza della Corte territoriale, confermatane, in linea astratta, la formale ammissibilità, posto che il mancato rilievo della intervenuta prescrizione da parte del giudice di appello, anche laddove la circostanza estintiva non sia stata dedotta in sede di gravame, costituirebbe un vizio di violazione di legge deducibile di fronte a questa Corte di cassazione ai sensi dell'art. 606, lettera b), cod. proc. pen. (in questo senso, per tutte: Corte di cassazione, Sezioni unite penale, 25 marzo 2016, n. 12602), rileva il Collegio che si tratta, comunque, di motivo di impugnazione manifestamente infondato.
Inspiegabilmente, infatti, il ricorrente, che pure riconosce la circostanza che, in considerazione dei due distinti dies commissorum delictorum, ad ambedue i reati in contestazione si applica il più lungo termine prescrizionale ricavabile a seguito della entrata in vigore del comma 1-bis dell'art. 17 del d lgs n. 74 del 2000, conclude osservando che per essi "il termine ordinario di prescrizione deve indicarsi in anni sei e, per effetto dell'intervenuta interruzione, deve aumentarsi ad anni sette e mesi sei", pretermettendo, in tal modo, platealmente gli effetti della citata disposizione che, invece, ha appena considerato applicabile alla fattispecie.
Riconducendo, invece, alla retta applicazione normativa il termine prescrizionale ordinario applicabile ai due reati in questione - tenuto conto del fatto che il citato comma 1-bis dell'art. 17 del d lgs n. 74 del 2000, riguardante le condotte poste in essere a decorrere dalla entrata in vigore della legge n. 114 del 2011, ha previsto la elevazione di un terzo dei termini prescrizionali previsti per i delitti di cui agli artt. da 2 a 10 del citato d lgs n. 74 del 2000 -
non è più, ordinariamente, di 6 anni ma di 8 anni e, in presenza, come nella fattispecie, di fattori interruttivi del termine medesimo, esso è, laddove non sussistano ragioni che ne giustifichino una più ampia dilatazione, esso è elevato sino a 10 anni e non, come contraddittoriamente indicato dal ricorrente, sino a 7 anni e 6 mesi.
Ove a tale termine decennale si aggiungano, come riconosciuto dallo stesso ricorrente, i periodi, pari nel loro complesso ad ulteriori 110 giorni, in cui il predetto termine prescrizionale è stato sospeso, si rileva che il reato di cui al capo a) della rubrica si sarebbe estinto per prescrizione solamente in data 18 aprile 2022, mentre il reato di cui al capo b) avrebbe visto maturata la sua prescrizione solo in data 19 aprile 2023.
Quindi, non solo nessun fenomeno estintivo si era già mostrato al momento della pronunzia della sentenza impugnata ma nessun fenomeno estintivo dei reati contestati è presente anche alla data odierna.
Le considerazioni che precedono dimostrano la manifesta infondatezza, e pertanto, la inammissibilità anche del secondo motivo di ricorso.
E', viceversa, fondato, il terzo ed ultimo motivo di impugnazione, con il quale il ricorrente, in via logicamente subordinata al mancato accoglimento degli altri due motivi di censura, si lagna, deducendone il vizio di violazione di legge e di difetto di motivazione, del fatto che la Corte territoriale, in ciò avallando la decisione assunta sul punto dal Tribunale di Milano, abbia disatteso il motivo di impugnazione avente ad oggetto la impugnazione della ordinanza in data 24 ottobre 2018, con la quale era stata rigettata dal giudice di primo grado la sua istanza di ammissione al beneficio della messa alla prova.
In particolare, il ricorrente si duole del fatto che la Corte di appello abbia considerato applicabili le previsioni contenute nel decreto legge n. 124 del 2019 alla presente fattispecie sia del fatto che abbia ritenuto, a loro volta, non applicabili le disposizioni di cui all'art. 168-bis cod. pen. alle ipotesi di violazione dell'art. 5 del d lgs n. 74 del 2000, laddove le stesse abbiano comportato un'evasione fiscale ammontante ad un importo superiore ad euro 200.000,00.
In via ulteriore la ricorrente difesa ha lamentato il fatto che i giudici del merito abbiano considerato condizione obbiettivamente ostativa all'ammissione al beneficio di cui sopra il fatto che il P. non abbia provveduto al pagamento del debito fiscale.
In tale modo compendiate le ragioni impugnatorie, osserva il Collegio, quanto ai primi rilievi formulati dal ricorrente, che effettivamente è fuori luogo nel caso ora in discussione il richiamo, pur operato dalla Corte ambrosiana, alle modifiche introdotte, per effetto della entrata in vigore della legge n. 157 del 2019, con la quale è stata disposta la conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge n. 124 del 2019, alla disciplina sanzionatoria ora prevista per le violazioni del tipo di quelle ora contestate al ricorrente, modifiche per effetto delle quali la disciplina in materia di messa alla prova non sarebbe applicabile, ratione poenae, ai reati ora in contestazione; siffatta modifica è, infatti, entrata in vigore in un momento ampiamente successivo alla commissione dei reati contestati al P. e, pertanto, essa, introducendo una /ex durior, non è applicabile alla fattispecie.
Esaminando, a questo punto, le ulteriori ragioni che hanno indotto la Corte territoriale a rigettare il motivo di gravame avente ad oggetto il rigetto della istanza di ammissione alla messa alla prova pronunziato dal Tribunale con l'ordinanza del 24 ottobre 2018, si rileva che le stesse attengono al ritenuto non automatismo della pronunzia di detta ordinanza, avendo il Tribunale accertato in concreto le condizioni di vita personale, familiare, sociale ed economica dell'imputato richiedente, sicchè il rigetto della predetta istanza si porrebbe in linea con la giurisprudenza di questa Corte che, in relazione alla legittimità di una siffatta pronunzia, esclude che la stessa possa essere pronunziata sulla sola base della automatica subordinazione della ammissione all'integrale risarcimento del danno cagionato con il reato in relazione al quale si chiede l'ammissione al beneficio.
Osserva, al riguardo, il Collegio che dall'esame della ordinanza pronunziata dal Tribunale di Milano in data 24 ottobre 2018, e sostanzialmente confermata, per effetto del rigetto del motivo di gravame che la riguardava, dalla Corte territoriale, emerge che il giudice di primo grado ha respinto la istanza di messa alla prova sulla base, per un verso, della linea difensiva sviluppata dalla difesa del ricorrente, ritenuta non tale da condurre alla individuazione di un fattore oggettivo causale cui riportare le condotte delittuose poste in essere dall'imputato estraneo alla sua sfera di dominio (e quindi, sembrerebbe, non tale da giustificare sotto il profilo della rilevanza penale la sua condotta omissiva) ed in considerazione, per altro verso, del fatto che l'imputato fosse fin dall'epoca della sua costituzione amministratore unico della società beneficiaria della evasione fiscale e che in tale veste lo stesso aveva provveduto alla soddisfazione, a seguito di liquidazione, dei creditori sociali ad eccezione dei crediti dell'Erario di cui egli non aveva tenuto conto poichè, per quanto si legge testualmente nella ordinanza impugnata, ne era "venuto a conoscenza soltanto a seguito degli accertamenti tributari ma di cui ha beneficiato in epoca anteriore agli stessi"; ha, pertanto, concluso il Tribunale che, in assenza di una offerta risarcitoria, non riteneva integrati i presupposti per l'ammissibilità al beneficio della messa alla prova.
Questa essendo la, non sempre chiarissima, motivazione addotta dal giudice di primo grado a fondamento del rigetto della istanza in questione, la Corte del gravame ha chiosato che, non essendo stato tale rigetto frutto di automatismo, esso era legittimo.
Ritiene questa Corte la erroneità in diritto dell'affermazione operata dalla Corte ambrosiana e la inadeguatezza motivazionale della sentenza in tal modo redatta.
In disparte la circostanza che le ragioni fondanti il rigetto della istanza appaiono essere costituite dal fatto che, ad una prima disamina da esso svolta, la posizione processuale del P. sia apparsa al Tribunale meneghino piuttosto compromessa, fattore questo all'evidenza irrilevante ai fini che ora interessano, posto che, in linea di principio, l’ammissione al beneficio della messa alla prova non è certamente richiesto dall'imputato quale confidi intimamente in un esito per lui favorevole del giudizio e l'ammissione ad esso non è ovviamente subordinato ad una delibazione di fondatezza della linea difensiva dallo stesso articolata - laddove non si voglia giungere all'assurdo che possa beneficiare della messa alla prova (il contenuto delle cui prescrizioni ha, sia pure in misura più blanda rispetto alla sanzione penale, una valenza afflittiva) solamente l'imputato che aveva ragionevoli probabilità di essere assolto nel merito - si osserva che, per il resto, il Tribunale, confortato in tale impostazione dalla Corte di merito, ha valorizzato, come fattore ostativo all'ammissione al beneficio, il fatto che il P., anche svolgendo una prestazione di lavoro di pubblica utilità, non avrebbe potuto pagare il debito tributario maturato negli anni di imposta in questione.
Ritiene la Corte che, in tal modo, i giudici del merito hanno, in sostanza, subordinato la possibilità di essere ammessi al più volte citato beneficio o all'avvenuto risarcimento del danno cagionato per effetto del reato contestato o, comunque, allo svolgimento di un'attività di pubblica utilità il cui prodotto costituisca un valore pari all'importo del danno cagionato.
Tale impostazione, di tipo meccanicisticamente retributivo, è priva di fondamento normativo e razionale.
Osserva, infatti, il Collegio che fra le condizioni necessarie ai fini della ammissione alla messa alla prova il risarcimento del danno cagionato dal reato è indicato solamente con la espressione "ove possibile", evidenziandosi, con tale espressione non la inammissibilità della istanza laddove, per fattori diversi, ivi compresa la incapienza dell'istante rispetto alla entità del danno cagionato, il risarcimento non sia concretamente praticabile, ma, al contrario, pur essendo auspicabile tale risarcimento, la sua non assunzione a livello di condizione ostativa ove non realizzabile.
In tale senso, infatti, si è espressa anche la giurisprudenza di questa Corte, con espressioni cui pare del tutto opportuno dare piena continuità, laddove ha chiarito che la valutazione dell'adeguatezza del programma presentato dall'imputato (attività questa che nel caso in esame non risulta che né Tribunale né la Corte territoriale abbiano in alcun modo compiuto, avendo pregiudizialmente esaminato il profilo dell'avvenuta formulazione di un'offerta di risarcimento del danno ovvero della idoneità a consentire il risarcimento del danno della attività prestata nel periodo di svolgimento del lavoro di pubblica utilità) va operata sulla base degli elementi evocati dall'art. 133 cod. pen., in relazione non soltanto all'idoneità a favorire il reinserimento sociale del prevenuto, ma anche all'effettiva corrispondenza alle condizioni di vita dello stesso, avuto riguardo alla previsione di un risarcimento del danno corrispondente, ove possibile, al pregiudizio arrecato alla vittima o che, comunque, sia espressione - in un'ottica che non sia esclusivamente retributiva ma tenda a favorire la riabilitazione, bonis operibus, del prevenuto - della sua disponibilità ad assicurare la prestazione, ai fini ripristinatori, dello sforzo massimo da lui sostenibile alla luce delle sue condizioni economiche, che possono essere verificate dal giudice ex art. 464-bis, comma 5, cod. proc. pen. (Corte di cassazione, Sezione II penale, 30 luglio 2019, n. 34878).
Non avendo i giudici del merito compiuto una siffatta verifica e ritenendo, pertanto, questa Corte di cassazione che la decisione impugnata si presenti viziata sia sotto il profilo della completezza motivazionale sia sotto quello della violazione di legge, avendo la Corte di appello valorizzato, onde confermare la sentenza di fronte ad essa impugnata, profili legislativamente non rilevanti ai fini della accoglibilità o meno della istanza di messa alla prova a suo tempo presentata dal P., la sentenza impugnata, ferma ed oramai definitivamente accertata sotto il profilo storico la piena attribuibilità all'imputato delle condotte delittuose di cui al capo di imputazione a lui contestato, deve essere annullata con rinvio - limitatamente alla pronunzia con la quale la Corte di appello ha illegittimamente confermato l'ordinanza con cui il primo giudice aveva respinto la richiesta di ammissione al beneficio in discorso per ritenuto difetto dei presupposti - ad altra Sezione della Corte di appello di Milano affinchè, in tale sede, il giudice del gravame si pronunci nuovamente, in applicazione del principio di diritto dianzi enunziato, sulla sussistenza o meno delle condizioni per l'eventuale accoglimento della richiesta stessa, non sussistendo alcuna delle condizioni che avrebbero potuto, secondo i termini degli artt. 604 e 623 cod. proc. pen. determinare la trasmissione degli atti al primo giudice e non a quello della sentenza impugnata (Corte di cassazione, Sezione II penale, 13 gennaio 2022, n. 995).
Nei limiti di cui sopra, pertanto, il ricorso di P.M. deve essere accolto, essendo, peraltro, inammissibili restanti motivi di impugnazione.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla messa alla prova, con rinvio per nuovo giudizio su tale punto ad altra Sezione della Corte di appello di Milano.
Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.