Irrilevante l'assenza temporanea dell'amministratore dalla copisteria ove si è verificato il fatto illecito, poiché egli avrebbe dovuto adottare le opportune cautele volte a garantire, anche in sua assenza, la possibilità di impedire che i propri soci o dipendenti violassero il precetto.
La Corte d'Appello riformava parzialmente la sentenza di primo grado, riconoscendo l'attenuante di cui all'
Svolgimento del processo
1. Con sentenza 1.07.2021, la Corte d'appello de l'Aquila, in parziale riforma della sentenza 20.04.2018 del tribunale della stessa città, appellata da A.C. e dalla p.c. L.P., ha riconosciuto l'attenuante di cui all'art. 171-ter, co. 3, I. 633 del 1941, rideterminando la pena in 2 mesi e gg. 20 di reclusione ed euro 1400 di multa, condannando l'imputato al risarcimento danni da liquidarsi in separato giudizio, oltre alla rifusione in favore della medesima p.c. delle spese di patrocinio di entrambi i gradi, e confermando nel resto l'appellata sentenza che lo aveva ritenuto responsabile del reato di abusiva riproduzione mediante fotocopie di un'opera letteraria scritta dal prof. D.M. ed edita dalla A. edizioni snc, in relazione a fatti contestati come commessi in data 9.02.2016.
2. Avverso la sentenza impugnata nel presente procedimento, il predetto propone ricorso per cassazione tramite il proprio difensore di fiducia, deducendo due motivi di seguito sommariamente indicati.
2.1. Deduce, con il primo motivo di ricorso, il vizio di motivazione in relazione all'analisi di alcuni specifici motivi di doglianza.
In sintesi, premesso che con l'atto di appello era stata contestata l'attribuzione della responsabilità al reo, in quanto assente nella copisteria al momento della commissione del fatto da parte di terzi, in particolare di una donna mai identificata, di cui non era certo neppure fosse una dipendente della copisteria gestita dall'imputato o di una socia e l.r. della società che gestisce la copisteria in questione (sicché il ricorrente non poteva definirsi come gestore ma semplice socio/amministratore unitamente ad altri, che peraltro non aveva mai autorizzato nessuno a riprodurre copie di libri, né essendo illecita l'esistenza di un e-book di tale volume perché prevista dalla legge), secondo il ricorrente, tali elementi costituivano dati idonei ad escludere la sua responsabilità, non essendo state peraltro rinvenute né copie fotostatiche del libro in copisteria ed essendo emerso invece che l'unica copia fotostatica fosse stata quella eseguita al momento dei fatti contestati, ciò che denotava estemporaneità ed occasionalità del fatto e non un modus operandi collaudato.
Tanto premesso, si censura la motivazione della sentenza impugnata ritenendola apparente rispetto alle specifiche doglianze mosse nell'atto di appello (in particolare: a) ove la sentenza afferma che il ricorrente fosse stato il titolare della copisteria, la stessa non avrebbe motivato sulla doglianza secondo cui la copisteria era una s.n.c. di cui tutti i soci hanno la rappresentanza ed i poteri gestori, come risulta dalla visura camerale, ove emerge anche la presenza di altra socia amministratrice, ciò che rappresentava anche una grave lacuna dell'Accusa, che aveva inspiegabilmente ritenuto di individuare come responsabile il solo ricorrente, pur a fronte dell'esistenza di altra amministratrice della società, a fronte peraltro della prova che al momento del fatto il ricorrente fosse stato assente e che ai fatti era presente per la copisteria una donna; quanto sopra, secondo la difesa, renderebbe evidente la lacuna motivazionale, non essendo chiare le ragioni per le quali il fatto andava attribuito sotto il profilo soggettivo al ricorrente; b) in secondo luogo, nella parte in cui la sentenza avrebbe desunto un fatto inesistente agli atti, ossia che il volume in questione fosse presente nel PC aziendale, in quanto precedentemente riprodotto in modo indebito mediante scannerizzazione, senza però tener conto della doglianza difensiva secondo cui la presenza dell'opera letteraria nel PC fosse lecita perché si trattava della versione informatica, c.d. e-book, circostanza quest'ultima pretermessa dalla sentenza).
2.2. Deduce, con il secondo motivo di ricorso, il vizio di violazione di legge in relazione all'art. 521, c.p.p., attesa l'assenza di correlazione tra fatto contestato nell'imputazione e fatto per cui è intervenuta la condanna da parte della Corte d'appello.
In sintesi, richiamata la deduzione difensiva svolta nell'atto di appello secondo cui nella copisteria non erano presenti fotocopie del libro e che l'unica cosa presente nel PC era la versione informatica e non una copia scannerizzata del volume, perfettamente lecita, il ricorrente censura che la Corte d'appello nulla aveva dedotto nello specifico, limitandosi ad affermare che non sarebbe stata dirimente la circostanza del mancato rinvenimento della copie cartacea, del volume nel negozio, essendo sufficienti ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 171-ter, co. 1, lett. b), I. 633 del 1941, gli elementi costituiti dalla detenzione nel PC aziendale di un testo pubblicato, e tutelato dunque del diritto d'autore, indebitamente riprodotto mediante scannerizzazione e detenuto per essere poi indebitamente venduto in copie cartacee mediante stampa da effettuarsi al momento su richiesta di chi ne avesse fatto richiesta.
Tanto premesso, rileva il ricorrente tuttavia che nell'imputazione egli sarebbe stato chiamato a rispondere non dell'illecita detenzione abusiva, seppure presunta, sul PC aziendale, ma solo dell'abusiva riproduzione con fotocopia dell'opera letteraria e per la successiva illecita vendita a terzi. Il ricorrente sostiene di essersi limitato a difendersi dall'accusa della successiva commercializzazione e diffusione dell'opera asseritamente duplicata o riprodotta in precedenza abusiva mente, condotta che rappresenta un antefatto rispetto alla commercializzazione, che costituisce a sua volta la concreta realizzazione del fine perseguito dal reo con la duplicazione o la riproduzione dell'opera. L'intervenuta condanna per la presunta abusiva duplicazione a mezzo scannerizzazione e successiva detenzione sul PC aziendale, dunque, avrebbe determinato un mutamento radicale del fatto contestato, sia sotto il profilo materiale che psicologico, con conseguente violazione dell'art. 521, c.p.p.
3. Il Procuratore Generale presso questa Corte, con requisitoria scritta datata 16.03.2022, depositata telematicamente presso la cancelleria di questa Sezione, ha chiesto il rigetto del ricorso.
In particolare, quanto al primo motivo, rileva il PG che con accertamento di fatto adeguatamente motivato e privo di vizi di manifesta illogicità e pertanto insuscettibile di essere sottoposto al sindacato di legittimità, la Corte di appello ha ritenuto inattendibile la tesi difensiva in punto di sussistenza dell'elemento oggettivo, riferendo "diversi indici fattuali, la cui inferenza era concludente nel senso della responsabilità penale dell'imputato. Comunque essa era desumibile dalla riferibilità del computer aziendale, ove era allocato il testo indebitamente riprodotto e comunque ritenuto per la titolarità comunque rappresentata dall'imputato per l'azienda interessata, come da documenti in atti. In punto di fatto riportava che: a) l'opera letteraria era stata interamente riprodotta nel computer aziendale ed era evidentemente destinata alla riproduzione, a fini commerciali, al pubblico che ne avesse fatto richiesta; b) l'imputato era il titolare dell'attività di copisteria, così detenendo per la commercializzazione la copia dell'intero testo, così ritenendosi non bastevole per escludere la condotta il mancato rinvenimento di copia cartacea. Difatti la condotta era ravvisabile nella scannerizzazione del testo, aduso per la riproduzione e vendita su richiesta, così ledendo il diritto di autore. La sentenza dei Giudici di merito, rileva il PG, correttamente ha ritenuto che l'abusiva riproduzione in un esercizio aperto al pubblico, come la copisteria destinata alla diffusione ed alla vendita di copie di manoscritti o quanto altro, a favore di clienti, realizzasse gli elementi costitutivi della fattispecie criminosa attribuita. Al cospetto di tale ricostruzione, il ricorrente contesta la decisione impugnata prospettando, come è reso esplicito dal motivo di ricorso qui scrutinato,, una diversa interpretazione delle prove, pronosticando, ai fini dell'accertamento del dolo, una ricostruzione della vicenda diversa da quella delineata dalla sentenza impugnata e, quindi, sollecita una sostanziale revisione del giudizio di merito, incompatibile con il controllo di legittimità, il quale ha fisiologicamente per oggetto la verifica della struttura logica della sentenza e non può, quindi, estendersi all'esame e alla valutazione degli elementi di fatto acquisiti alla causa, riservati alla competenza del giudice di merito, rispetto al quale la Corte di cassazione non ha alcun potere di sostituzione per la ricerca di una diversa ricostruzione dei fatti in vista di una decisione alternativa. Sul punto, ricorda il PG la consolidata giurisprudenza di questa Corte sul vizio di motivazione, ritenendo, pertanto, che, al cospetto di una congrua motivazione, priva di vizi logici, il motivo di ricorso deve ritenersi manifestamente infondato e, in quanto diretto a sollecitare una rivalutazione delle prove, non consentito. Del resto, anche il richiamo alla occasionalità della condotta del primo motivo è improprio.
Come improprio è per il PG il riferimento alla violazione dell'art. 521 c.p.p.
Non vi è fatto diverso, ma un fatto specificato e rientrante nella condotta materialmente contestata del reato. Priva di pregio è la doglianza in relazione alla carenza di motivazione apodittica o carente. Nel contempo la difesa ha proposto una diversa "disamina dei fatti", con valutazioni di merito, proposte a dispetto della denuncia di vizi motivazionali, che peraltro sono stati indicati cumulativamente ("mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione"), in contrasto con il principio più volte enunciato dalla Corte di legittimità, secondo il quale i vizi della motivazione si pongono «in rapporto di alternatività, ovvero di reciproca esclusione, posto che - all'evidenza -·la motivazione, se manca, non può essere, al tempo stesso, né contraddittoria, né manifestamente illogica e, per converso, la motivazione viziata non è motivazione mancante» (così Sez. 2, n. 38676 del 24/05/2019, Onofri, Rv. 277518; nello stesso senso cfr. Sez. 1, n. 39122 del 22/09/2015, Rugiano, Rv. 264535; Sez. 2, n. 19712 del 06/02/2015, Alata, Rv. 263541; Sez. 2, n. 31811 del 08/05/2012, Sardo, Rv. 254329; da ultimo v. Sez. U, n. 24591 del 16/07/2020, Filardo, Rv. 280027, in motivazione). Né, infine, per il PG può ritenersi apodittica la motivazione che non è avulsa dal contesto oggetto di contestazione.
4. La difesa della parte civile ha depositato conclusioni scritte datate 11.04.2022, replicando puntualmente ai motivi di ricorso proposti dalla difesa.
5. infine con atto del 7.04.2022, la difesa del ricorrente ha fatto pervenire le proprie conclusioni e, in replica alla requisitoria del PG, ha insistito nell'accoglimento del ricorso.
Motivi della decisione
1. Il ricorso, trattato ai sensi dell'art. 23 co. 8 del DL n. 137 /2020, è inammissibile.
2. Quanto al primo motivo, coglie nel segno l'obiezione della difesa di parte civile che rileva come il motivo è prima di tutto inammissibile perché attiene ad una vicenda storica che avrebbe dovuto, semmai, essere articolata nel primo giudizio ed ivi provata.
Ed invero, come del resto dà atto la Corte d'appello nella motivazione della sentenza impugnata, la difesa nei gradi di merito aveva richiesto l'assoluzione per non aver commesso il fatto in quanto sarebbe stata una ragazza, non la socia su cui invece si concentra l'attenzione in ricorso, a fare le fotocopie, nonché l'assoluzione perché. il fatto non costituisce reato, sostenendo che era stato l'editore del volume ad inviare una sua dipendente in copisteria chiedendo la fotocopia dell'opera, con conseguente applicazione della disciplina dell'agente provocatore, che avrebbe reso non punibile la ragazza ex art. 50, c.p.
Nel presente giudizio di' legittimità, in effetti, la produzione documentale della visura è, come eccepisce la difesa di parte civile, "a dir poco tardiva", ma l'eccezione tutta, attenendo ad una lettura 'storica' dei fatti, esula dai limiti propri del giudizio stesso. In ogni caso, come ben rileva la difesa della parte civile, il motivo è palesemente infondato perché il ricorrente, che non indica neppure una pronunzia a sostegno della propria tesi, ha omesso di considerare che l'univoca giurisprudenza sul tema ritiene che tutti i soggetti costituenti una società di persone possono essere chiamate a rispondere - oltre che degli illeciti civili ed amministrativi - anche di quelli penali, a meno che non via sia la figura di un amministratore o di una persona delegata a specifiche funzioni gestionali tale da ricondurre eventuali accertate responsabilità esclusivamente a quella, perché "nel caso in cui vi sia la nomina di un amministratore, costui assume la intera gestione della società (cui sono estranei, salvo deroghe inserite nell'atto costitutivo, gli altri soci) e risponde delle relative responsabilità penali. Se tale nomina manca, la condotta illecita commissiva va attribuita al singolo socio che l'ha posta in essere (in conformità al dettato dell'art. 27 Cast.), mentre quella omissiva è imputabile anche agli altri soci che sono venuti meno ai doveri connessi alla comune conduzione aziendale (Sez. 3, n. 6684 del 20/04/1999 - dep. 28/05/1999, Rv. 213991).
2.1. Nel caso de quo A.C. - cui la società in nome collettivo risulta formalmente intestata - non può declinare positivamente la propria responsabilità sia perché tutti i soci risultano amministratori della società, sia perché risponde penalmente per l'omesso controllo di una vicenda illecita posta in essere all'interno dei locali della società, da una dipendente o socia della società stessa, comunque una preposta, che ha venduto la copia foto-riprodotta di un testo contenuto nel computer aziendale - della" F.P. di A. &: c. snc ", con sede in L'Aquila (omissis) - avendone ricevuto un corrispettivo utilizzato dalla stessa azienda come documentato dallo scontrino fiscale.
È quindi condivisibile l'assunto della difesa di parte civile secondo cui, dopo il tentativo esperito dall'imputato in altra fase di giudizio di affermare di non conoscere il soggetto che ha commesso l'illecito, il nuovo tentativo sulla falsariga del primo, ma con motivazioni differenti, non hai pregio, in quanto inammissibile e manifestamente infondato per le ragioni dianzi evidenziate.
2.2. Da ultimo, sotto il profilo dell'elemento psicologico, è sufficiente ricordare - premesso che deve rilevarsi la differenza tra "fine di profitto", contenuto nell'originaria versione della norma in esame, e "fine di lucro", introdotto nel testo con la l. n. 248 del 2000 - come, nondimeno, essa non ha incidenza, dal momento che l'abusiva riproduzione è avvenuta in un esercizio aperto al pubblico, qual è la copisteria, a favore di clienti, per cui lo scopo di un guadagno economico era insito nella operazione commerciale (in senso conforme, da ultimo, c:fr. Cass. pen. Sez. 1111, n. 2000 del 15 novembre 2019 - dep. 20 gennaio 2020, Canzian, non massimata; Id., Sez. III, 8 marzo 2012, n. 13956; Cass., Sez. III, 11 maggio 2010, Garneri, in Riv. trim. dir. pen. ec ., 2010, 979, secondo cui l'abusiva riproduzione di opere letterarie tutelate dal diritto d'autore integra il reato previsto dall'art. 171- ter, comma 1, lett. b), I. n. 633 del 1941, solo nel caso di uso non personale ed in presenza del fine di profitto, configurandosi, in difetto, l'illecito amministrativo contemplato dall'art. 68 della citata legge), non rilevando l'assenza del ricorrente dalla copisteria al momento del fatto, attesa la responsabilità sul medesimo gravante per l'omesso controllo di una vicenda illecita posta in essere all'interno dei locali della società, da una dipendente o socia della società stessa, comunque una preposta (del resto, dalla stessa visura camerale della società risulta nella sezione "conferimenti e prestazioni" che «i soci sono tenuti ad esercitare in modo diretto e continuo la loro vigilanza ed a prestare la loro attività nei locali e nei luoghi ove la società esercita o eserciterà la sua attività», né risulta che vi fosse stata un'espressa delega ad uno dei soci, o ad altro soggetto appositamente individuato, di tale obbligo di vigilanza, che pertanto anche il ricorrente era tenuto ad esercitare, derivandone, in difetto, la sua responsabilità non potendo egli qualificarsi come soggetto estraneo al reato).
2.3. La condotta punita dal reato in esame, infatti, non può mai trovare valida giustificazione, nemmeno se il fatto derivi dalla temporanea assenza dell'amministratore - l.r. dal luogo di lavoro, e la responsabilità non ha carattere oggettivo, bensì carattere personale o per fatto proprio del soggetto, cui il precetto e diretto: infatti, il titolare dell'esercizio di copisteria che voglia o debba allontanarsi dall'esercizio, ben può ciò fare soltanto dopo avere preso le opportune cautele, atte ad assicurare, anche durante la sua assenza, la possibilità di impedire che i propri soci o dipendenti violino il precetto in parola, dando apposito incarico ad un soggetto di fiducia, sia esso uno dei soci o un dipendente.
3. Quanto al secondo motivo, infine, è sufficiente a qualificarlo in termini di inammissibilità la mera considerazione per la quale è pacifico nella giurisprudenza di questa Corte il principio per cui la violazione del principio di necessaria correlazione fra accusa e sentenza dà luogo ad una nullità non rientrante fra quelle assolute ed insanabili, ma a regime intermedio, sicché tale vizio non può essere dedotto per la prima volta in sede di legittimità ove esso non sia stato denunciato nei motivi di appello (tra le tante: Sez. 5, n. 44008 del '.8/09/2005 - dep. 02/12/2005, Rv. 232805 - 01).
E ciò è quanto avvenuto nel caso in esame, non risultando dalla sentenza impugnata che detto vizio fosse stato dedotto con i motivi di appello.
4. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento della somma, ritenuta adeguata, di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
5. Segue, infine, la liquidazione delle spese del grado in favore della parte civile costituita, liquidate come da dispositivo., in applicazione dei criteri di cui al D.M. 55/2014.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile che liquida in complessivi euro 3.510,00, oltre accessori di legge.