La Corte di Cassazione specifica a quali condizioni lo status detentivo può considerarsi causa di forza maggiore tale da giustificare l'inadempimento agli obblighi di assistenza familiare.
Il Giudice di seconde cure riformava parzialmente la sentenza di primo grado con la quale l'imputato era stato condannato per il reato di cui all'
Svolgimento del processo
1. Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Trieste, in parziale riforma della sentenza di condanna resa dal Tribunale di Trieste nei confronti di M.B. il 3 aprile 2017, rideterminava la pena in misura di sette mesi di reclusione ed euro 1.500,00 di multa ( pena base mesi 3 di reclusione ed euro 500,00 di multa; aumentati per la recidiva a mesi sei di reclusione ed euro 1000,00 di multa; ulteriormente aumentata nella misura suindicata a titolo di continuazione), confermando nel resto l'impugnata decisione, con condanna dell'imputato al pagamento delle spese relative al grado.
La responsabilità dell'imputato è stata ritenuta in relazione al reato di cui all'art. 570, commi primo e secondo, cod. pen., per essersi egli sottratto agli obblighi di assistenza inerenti alla responsabilità genitoriale nei confronti della figlia minore C.B., non corrispondendo alla madre di lei, L.C., l'importo di 200,00 euro mensili, maggiorato della metà delle spese straordinarie documentate e concordate, stabilito dal Tribunale per i minorenni di Trieste adito in sede civile a titolo di contributo al mantenimento della predetta minore.
2. Con il proposto ricorso, M.B., a mezzo del difensore avv. M.G., articola seguenti motivi, sintetizzati nei limiti strettamente necessari alla motivazione, ai sensi dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1 Con il primo motivo deduce violazione di legge in relazione all'art. 570, comma primo, cod. pen. e carenza assoluta di motivazione.
Le sentenze di merito sviluppano percorsi argomentativi esclusivamente incentrati sul mancato versamento del contributo al mantenimento della minore, mentre alcun riferimento emerge alla violazione degli obblighi di assistenza morale inerenti alla responsabilità genitoriale, sicché non si giustifica l'aumento di pena applicato dalla Corte territoriale a titolo di continuazione.
Del resto, B. ha assolto agli obblighi di assistenza attenendosi scrupolosamente alle prescrizioni restrittive imposte dal Tribunale per i minorenni, che ha dettato un regime di visita in modalità protetta all'esito della denuncia per atti persecutori sporta nei suoi confronti dalla madre della minore. Egli ha seguito - si deduce - il programmato percorso di sostegno alla genitorialità fino al momento in cui, nel mese di marzo 2014, gli incontri sono stati sospesi ad iniziativa dei servizi sociali incaricati, anche in ragione delle problematiche correlate alla tenerissima età della minore, ed ha lamentato l'assenza di ripristino del diritto di visita, pur all'esito del proscioglimento dal reato di stalking.
2.2. Con il secondo motivo la difesa lamenta violazione di legge in relazione all'art. 570, comma secondo, cod. pen. e carenza di motivazione.
Si assume non essere dimostrato che l'imputato avesse la capacità economica di adempiere e che si sia volontariamente sottratto alle relative obbligazioni, non avendo la sentenza impugnata tenuto conto della sottoposizione di B. a misura cautelare custodiale presso la casa circondariale di Trieste, dal luglio 2011 al dicembre 2011, e, a seguire, agli arresti presso il domicilio, fino al 6 settembre 2012, e neppure della circostanza che, a far data dal 30 aprile 2013, egli ha dismesso la ditta individuale di artigiano di cui era titolare, a causa della forte contrazione di domanda che ha interessato il comparto dell'edilizia, in cui aveva sempre operato.
Quanto ai prelievi di danaro dal libretto di deposito intestato al ricorrente, valorizzati dai giudici di merito a riprova di una sua perdurante capacità reddituale, la difesa deduce che tali operazioni si concentrano nel periodo in cui egli era ristretto in custodia cautelare e che non sono, all'evidenza, allo stesso riferibili.
Inoltre, durante il periodo cui si riferisce l'addebito, egli ha vissuto presso la propria anziana madre, titolare di pensione minima, che si è attivata per la richiesta di sussidi presso il Comune di Trieste, così come per parte sua, egli ha più volte avanzato istanza di riduzione dell'importo mensile da corrispondere alla figlia, proprio in ragione dello stato di perdurante inattività lavorativa.
2.3. Con il terzo motivo, strettamente correlato al primo, la difesa lamenta l'illegittima applicazione della continuazione in presenza cli una decisione di condanna che fa riferimento al solo reato di cui all'articolo 570, comma secondo, cod. pen., fattispecie la cui natura unitaria, ancorché permanente, non ne consente la scomposizione in una pluralità di condotte criminose omogenee.
3. Con requisitoria scritta, il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale V.S., ha concluso chiedendo l'annullamento della sentenza limitatamente alla condanna per il reato di cui all'art. 570, comma primo, cod. pen., con conseguente rideterminazione della pena inflitta.
4. Il procedimento è stato trattato nell'odierna udienza con il rito cartolare di cui all'art. 23, commi 8 e 9, del d. l. 8 ottobre 2020, n. 137, convertito dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, i cui effetti sono stati prorogati, da ultimo, dal d.l. 30 dicembre 2021, n. 228, convertito con modificazioni dalla legge 25 febbraio 2022, n. 15.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è fondato nei limiti che qui di seguito si espongono.
2. Il primo ed il terzo motivo di ricorso possono essere trattati congiuntamente perché strettamente connessi.
Essi sono parzialmente fondati.
Come dedotto dal ricorrente, la sentenza impugnata è incentrata sulla condotta di mancato adempimento dell'obbligo di mantenimento e sui suoi presupposti di rilevanza penale, costituiti dallo stato di bisogno - presunto per legge - della minore e specularmente, sulla capacità di adempiere dell'obbligato. La condanna ha dunque ad oggetto la violazione di cui all'art. 570, comma secondo, n.2, cod. pen.,
In relazione alla ritenuta sottrazione agli obblighi di assistenza, espressivi di una condotta contraria all'ordine ed alla morale delle famiglie ex art. 570, comma primo, cod. pen. - pur se oggetto della contestazione - le sentenze di merito sono del tutto silenti, non enucleando i relativi presupposti fattuali e non indicando gli elementi di struttura, oggettivi e soggettivi, di tale fattispecie incriminatrice.
Deve al riguardo evidenziarsi che l'art. 570 cod. pen. è norma a più fattispecie, che sono del tutto distinte perché relative a fatti eterogenei nel loro sostrato fattuale ed altresì nella considerazione sociale.
Sul piano ricostruttivo, l'una riconducibile al paradigma normativo di cui al primo comma, inerisce alla violazione dei doveri di assistenza morale, che sono proiezione tipica dei doveri di cura che innervano la genitorialità (evocati, dalla prospettiva del figlio, dall'art. 315-bis cod. civ.) e preordinati allo sviluppo armonico della personalità del minore; l'altra, posta a presidio dei bisogni più strettamente materiali della persona, si sostanzia nella mancata somministrazione delle provvidenze economiche necessarie al loro soddisfacimento.
Non vi è, dunque, tra i reati detti, stante la loro autonomia concettuale, relazione di implicazione, per cui possa dirsi che la mancata somministrazione dei mezzi di sussistenza presupponga necessariamente la violazione dei doveri di assistenza morale, così come non ricorrono i presupposti della progressione criminosa, non potendosi affermare che l'una condotta costituisca sempre la naturale evoluzione dell'altra. Essi possono semmai concorrere, ove ricorrano gli elementi costitutivi, oggettivi e soggettivi di entrambi, circostanza che tuttavia, nella vicenda in scrutinio, va esclusa con riferimento al reato di cui al comma primo.
Di tale orientamento è espressione la recente Sez. 6, n. 13741 del 04/02/2021, A. Rv. 280943, la quale ha ribadito, in linea cli continuità con un assai risalente indirizzo, che le ipotesi di reato in comparazione non sono in rapporto di progressione criminosa, avendo ad oggetto fatti non sovrapponibili nella loro storicità, tali da richiedere, sul piano processuale, l'apprestamento di strategie difensive diversificate (con la conseguenza che, nella fattispecie la Corte ha annullato la sentenza di condanna emessa per violazione degli obblighi di assistenza morale del padre nei confronti del figlio, ritenendo che quest'ultima condotta costituisse un fatto nuovo rispetto alla sola contestazione di aver fatto mancare i mezzi di sussistenza).
Sotto altro profilo, le censure difensive, peraltro meramente accennate, in ordine alla incompatibilità logica del reato di cui al comma secondo dell'art. 570 cod. pen, con la continuazione c.d. interna, in quanto reato di natura permanente, sono in questa sede non ammissibili per difetto devolutivo, siccome mai prospettate in appello (e, peraltro, non si confrontano con la sentenza impugnata, che tale vincolo di continuazione non ha ritenuto).
Da tutto quanto precede discende che l'aumento della pena inflitto nella sentenza impugnata in ragione della continuazione con la violazione di cui al comma primo dell'art. 570 cod. pen., si appalesa illegittimo e deve essere eliminato dal calcolo perché sine titulo.
3. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile.
La difesa svolge censure in fatto lì dove contesta i presupposti in ragione dei quali la Corte di appello ha escluso una situazione di inesigibilità dell'adempimento, anche con riferimento al (peraltro breve) segmento temporale in cui l'imputato è rimasto in vinculis, a fronte del protrarsi, per circa sette anni, della assoluta mancanza di contribuzione (quali la carenza di patologie. che abbiano inficiato la capacità lavorativa da parte di B. l'irrilevanza del periodo di detenzione anche domiciliare, non risultando che egli si sia attivato al fine di svolgere alcuna autorità di lavoro o, almeno, per conseguire un qualche sostegno pubblico; la residua capacità economica, attestata dalle giacenze presenti sul libretto di deposito a lui intestato; l'inverosimiglianza della protratta inattività della ditta individuale). Tali presupposti la difesa sconfessa o parcellizza, senza valutarli in un'ottica complessiva, in definitiva sollecitando un diverso apprezzamento delle risultanze processuali; operazione, questa, non consentita in questa sede, essendo insegnamento costante della Corte di cassazione che al giudice di legittimità è preclusa sia la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, sia l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, che si ritengano maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (ex plurimis, Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, dep. 2021, F., Rv. 280601; Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482; Sez. 2, n. 31978 del 14/06/2006, Bencivenga, Rv. 234910). Tali elementi, valorizzati dalla Corte di appello per ritenere la capacità economica del ricorrente, convergono, senza alcuna distonia sul piano logico, verso un'univocità indicativa, in applicazione del consolidato indirizzo per il quale l'incapacità economica dell'obbligato, intesa come impossibilità di far fronte agli adempimenti sanzionati dall'art. 570 cod. pen., deve essere assoluta e deve altresì integrare una situazione di persistente, oggettiva ed incolpevole indisponibilità di introiti, non potendo ritenersi dimostrata sulla base della mera documentazione dello stato formale di disoccupazione dell'obbligato, ovvero in caso di suo rifiuto di svolgere attività lavorativa (ex multis, Sez. 6, n. 49979 del 09/10/2019, G., Rv. 277626)
Con specifico riferimento allo stato detentivo, la giurisprudenza si è oramai assestata nel senso che tale status non può considerarsi ex se causa di forza maggiore giustificativa dell'inadempimento, e può assumere valenza scriminante purché ricorrano alcune condizioni, ossia: 1) il periodo di detenzione coincida con quello dei mancati versamenti; 2) l'obbligato non abbia percepito comunque dei redditi; 3) lo stesso si sia attivato per procurarsi legittimamente dei proventi presentando all'amministrazione penitenziaria la domanda per essere ammesso al lavoro all'interno o all'esterno del luogo di detenzione. (v. Sez. 6, n. 2381 del 15/12/2017 Ud., dep. 2018, L., Rv. 272024, in cui la Corte ha precisato che solo se tale richiesta non è accolta, non potrà essere addebitata all'obbligato la mancata percezione di guadagni durante il periodo di detenzione).
Il concetto che sottende questa impostazione è che la responsabilità per l'omessa prestazione non è esclusa dall'indisponibilità dei mezzi necessari, quando questa sia dovuta, anche parzialmente, a colpa dell'obbligato (Sez. 6, n. 41697 del 15/09/2016, B., Rv. 268301).
Più di recente, questa Corte di legittimità ha precisato i limiti di rilevanza dello stato detentivo, sotto il profilo dell'elemento psicologico della fattispecie, assumendo che possa dar luogo a mancanza del dolo l'elemento soggettivo del reato, ma a condizione che l'imputato abbia dato prova di aver fatto quanto possibile per fruire, in regime di restrizione, di fonti di reddito lavorativo, presentando domanda di lavoro (di recente sul tema, Sez. 6, n. 13144 del 01/03/2022, R., Rv. 283055, in fattispecie in cui la Corte ha ritenuto sussistente il dolo, non avendo l'imputato presentato domanda di autorizzazione al lavoro ed avendo la disponibilità di fatto di un cespite immobiliare, pur formalmente intestato ad una società estera, di cui non era stata neppure tentata la vendita).
Nel caso che occupa, la disponibilità di giacenze sul libretto di deposito del B. - a prescindere dal dato, allegato dalla difesa, che altri le abbia movimentate quando egli era in vinculis - è elemento che correttamente i giudici di merito, alla luce delle coordinate ermeneutiche sopra tratteggiate, hanno ritenuto idoneo ad escludere in radice tanto la dedotta inesigibilità economica delle prestazioni, quanto l'assenza del dolo della condotta.
La sentenza fa anche buon governo del principio, pure invocato dal ricorrente, in forza del quale, ove l'imputato alleghi di non aver potuto adempiere in conseguenza dello stato di detenzione, è onere del pubblico ministero provare l'insussistenza dell'impossibilità incolpevole di prestare i mezzi di sussistenza, in quanto le regole dell'accertamento probatorio impongono all'accusa di dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, il fatto oggetto della imputazione e la sua attribuibilità soggettiva (Sez. 6, n. 4116 del 02/07/2019, dep. 2020, P., Rv. 278112, in relazione a fattispecie in cui la Corte ha confermato la sentenza di assoluzione di un imputato, che era stato detenuto per l'intero periodo dell'inadempimento e aveva aiutato economicamente la figlia minore sia pur saltuariamente, rilevando che l'accusa non aveva provato che la sua incapacità economica non fosse assoluta). Ciò perché l'esistenza di tali giacenze economiche, di alcune migliaia di euro, mai sconfessata dal ricorrente, può ritenersi incontroversa; così come non è controvertibile che B. non abbia fatto domanda di autorizzazione allo svolgimento di attività lavorativa, avendo anzi egli riferito di avere cancellato dall'albo la propria ditta individuale di artigiano, per sottrarsi ad una congiuntura economica ritenuta poco favorevole.
4. In parziale accoglimento del ricorso, va dunque rideterminata la pena nella misura di mesi sei di reclusione ed euro mille di multa, previa eliminazione dell'aumento disposto a titolo di continuazione.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata con riferimento al delitto di cui all'art. 570, comma 1, cod. pen. perché il fatto non sussiste. Rigetta nel resto il ricorso rideterminando la pena per il residuo reato in mesi sei di reclusione ed euro mille di multa.