Un monito al Legislatore da parte della Consulta per porre rimedio all'ingiustificata disparità di trattamento rispetto alle misure di prevenzione, per le quali, in base alla normativa vigente, il giudice, al momento dell'adozione, ha il potere di escludere l'applicazione delle decadenze e dei divieti che ne discendono in presenza di uno stato di bisogno dell'interessato.
La vicenda trae origine dall'informazione antimafia interdittiva emessa dalla prefettura nei confronti del titolare di un'impresa individuale che trovava fondamento nei precedenti penali e nelle parentele del marito della ricorrente, il quale era imputato e detenuto per reati di mafia. Una volta sospesa in via cautelare l'efficacia del provvedimento, il TAR Calabria...
Svolgimento del processo
1.– Con ordinanza dell’11 dicembre 2020, iscritta al n. 73 del registro ordinanze 2021, il Tribunale amministrativo regionale per la Calabria, sezione staccata di Reggio Calabria, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, secondo comma (recte: primo comma), 4 e 24 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 92 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136).
2.– Il giudice a quo è stato investito di un ricorso proposto da M. S., in qualità di titolare di una impresa individuale nei cui confronti, in data 27 febbraio 2020, la prefettura aveva emesso informazione antimafia interdittiva. Il provvedimento prefettizio, del quale veniva chiesto l’annullamento, trovava la propria giustificazione nei precedenti penali e nelle parentele del marito della ricorrente, imputato e detenuto per reati di mafia e accusato di essere al vertice di una cosca. M. S. era inoltre stata socia di un’impresa amministrata dal marito, operante nel medesimo settore della sua attività economica. Infine, rilevante ai fini dell’adozione dell’informazione antimafia era risultato il contesto parentale della ricorrente.
Sospesa in via cautelare l’efficacia del provvedimento impugnato, il TAR Calabria respingeva, con sentenza non definitiva, tutti gli altri motivi di ricorso e, condividendo l’eccezione di illegittimità costituzionale relativa all’art. 92 cod. antimafia, sollevava, con separata ordinanza, le odierne questioni di legittimità costituzionale.
Il rimettente sottolinea che in relazione ai soggetti attinti, con provvedimento definitivo, da una delle misure di prevenzione previste dal Libro I, Titolo I, Capo II, l’art. 67, comma 5, cod. antimafia stabilisce che «[p]er le licenze ed autorizzazioni di polizia, ad eccezione di quelle relative alle armi, munizioni ed esplosivi, e per gli altri provvedimenti di cui al comma 1 le decadenze e i divieti previsti dal presente articolo possono essere esclusi dal giudice nel caso in cui per effetto degli stessi verrebbero a mancare i mezzi di sostentamento all'interessato e alla famiglia». Lamenta, invece, che analogo potere non sia previsto in capo al prefetto dall’art. 92 cod. antimafia con riferimento ai soggetti investiti da un’informazione antimafia.
3.– In punto di rilevanza, l’ordinanza di rimessione dà conto della circostanza che l’attività aziendale, in virtù di quanto esposto dalla ricorrente, costituirebbe «l’unica fonte di reddito della propria famiglia», della quale fanno parte anche quattro figli conviventi, tre dei quali minori. Inoltre, la chiusura dell’esercizio commerciale condurrebbe al licenziamento di otto dipendenti.
Il vigente quadro normativo imporrebbe tuttavia di respingere il ricorso anche in riferimento a tale doglianza, mentre una pronuncia di accoglimento di questa Corte determinerebbe l’annullamento dell’impugnato provvedimento, in quanto adottato senza che l’autorità prefettizia ne abbia valutato gli effetti sulle capacità di sostentamento della ricorrente e dei suoi familiari.
Ancora, la disposizione, per come formulata, non lascerebbe spazi per una sua lettura costituzionalmente orientata.
4.– In ordine alla non manifesta infondatezza, il rimettente illustra anzitutto la censura con la quale prospetta una violazione del «principio di uguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 comma 2 della Costituzione». Premessa la «natura “cautelare e preventiva” delle interdittive antimafia» (viene citata la sentenza del Consiglio di Stato, adunanza plenaria, 6 aprile 2018, n. 3) e premesso che le misure di prevenzione condividono con le prime la finalità di assicurare un’anticipata difesa della legalità, producendo le medesime conseguenze interdittive, la scelta del legislatore di non attribuire al prefetto il potere di apprezzare l’incidenza di tali conseguenze sui mezzi di sostentamento dell’interessato e della sua famiglia concretizzerebbe una irragionevole disparità di trattamento.
Sottolinea il rimettente come, con la sentenza n. 57 del 2020, questa Corte avrebbe già ritenuto tale differenza di regime meritevole di una «rimeditazione da parte del legislatore», non avendo potuto farne oggetto di specifica pronuncia solo perché la censura non era stata dedotta in modo autonomo.
La temporaneità dell’informazione antimafia, fissata dal codice in dodici mesi (art. 86, comma 2), non ridurrebbe le ragioni di attrito con la Costituzione, trattandosi di un periodo di tempo «ampiamente sufficiente a pregiudicare in modo definitivo qualsiasi attività di impresa». Né eliderebbe la dedotta disparità di trattamento la circostanza che, in forza dell’art. 34-bis, comma 6, cod. antimafia, l’impresa colpita dal provvedimento interdittivo possa chiedere al tribunale competente per le misure di prevenzione l’applicazione del controllo giudiziario. L’accesso all’istituto è infatti subordinato all’impugnazione dell’informazione ed è eventuale, dipendendo dalla valutazione dell’autorità giudiziaria. Il controllo giudiziario, inoltre, si limita a sospendere, senza eliminarli, gli effetti dell’interdittiva, non potendo peraltro travolgere quelli dalla stessa prodotti medio tempore (viene citata la sentenza del Consiglio di Stato, sezione quinta, 31 maggio 2018, n. 3268).
5.– Sarebbe altresì violato l’art. 4 Cost. Premette il rimettente che l’informazione antimafia inibisce sia i rapporti con la pubblica amministrazione sia le attività private sottoposte a regime autorizzatorio, anche intraprese sulla base di una segnalazione certificata di inizio attività (viene citata la sentenza del Consiglio di Stato, sezione terza, 20 gennaio 2020, n. 452). Ne deriverebbe, pertanto, un sacrificio del diritto al lavoro; un diritto tutelato per lo stesso detenuto (è citata l’ordinanza di questa Corte n. 532 del 2002), e che dovrebbe a maggior ragione essere salvaguardato nei confronti di chi sia stato colpito da una misura preventiva, finalizzata ad evitare un evento ritenuto possibile ed eventuale, in forza di una valutazione svolta sulla base della regola del «più probabile che non». Una valutazione nel cui ambito, conclude il giudice a quo, la disposizione censurata impedisce in ogni caso di tenere in conto l’evenienza che il provvedimento «depauperi i mezzi di sostentamento che chi ne è colpito trae dal proprio lavoro».
6.– Infine, l’art. 92 cod. antimafia lederebbe l’art. 24 Cost. Il rimettente premette come, in realtà, la disciplina sull’informazione antimafia non escluderebbe totalmente il contraddittorio (art. 93, comma 7, cod. antimafia). Si tratterebbe, tuttavia, solo di una «interlocuzione eventuale» tra il prefetto e i soggetti interessati. Dunque, stante la pervasività del provvedimento – che induce una parziale incapacità giuridica del soggetto e gli impedisce di ottenere qualsiasi erogazione da parte della pubblica amministrazione (è citata, fra le altre, la sentenza del Consiglio di Stato, sezione terza, 4 marzo 2019, n. 1500) – precludere al destinatario «di detto provvedimento la possibilità di sottoporre all’autorità prefettizia le possibili conseguenze di esso, in termini di depauperamento dei mezzi di sostentamento suoi e della sua famiglia sembra integrare la violazione anche dell’art. 24 della Costituzione».
Vero che, argomenta il rimettente, secondo la giurisprudenza costituzionale, il diritto di difesa non si estende nel suo pieno contenuto ai procedimenti contenziosi amministrativi, ma ciò, sottolinea il giudice a quo, non significa che esso non possa manifestare riflessi in altri ambiti, proprio per la sua connessione con i diritti inviolabili della persona (è citata la sentenza di questa Corte n. 128 del 1995).
7.– Con atto depositato il 21 giugno 2021 si è costituita in giudizio M. S., in proprio e quale titolare dell’impresa individuale parte del giudizio a quo.
A suo dire, la necessità di contrastare la criminalità organizzata di stampo mafioso non giustificherebbe la creazione di «indigenti» «unicamente “colpevoli”» di avere rapporti con soggetti indiziati ai sensi della disciplina del codice antimafia, come si ricava, sia dall’art. 85 cod. antimafia – che estende le verifiche ai familiari conviventi – sia dall’interpretazione emersa nella giurisprudenza amministrativa.
Inoltre, pure a fronte dell’ampia discrezionalità spettante al prefetto, tale da non soddisfare nemmeno il requisito della «previsione legale» indicato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza 23 febbraio 2017, de Tommaso contro Italia, il privato non avrebbe strumenti partecipativi nel procedimento di formazione della documentazione antimafia, vedendosi unilateralmente attinto da un provvedimento più severo di un sequestro di prevenzione, che, invece, consente di tenere in vita l’azienda.
Ciò premesso, l’omessa previsione del potere di inibire gli effetti interdittivi dell’informazione antimafia, quando capaci di comprimere i mezzi di sostentamento dell’interessato, produrrebbe una vistosa disparità di trattamento rispetto ai destinatari di una misura di prevenzione. Peraltro, mentre decadenze e divieti, in quest’ultimo caso, si producono con la garanzia del contraddittorio e al ricorrere di un provvedimento definitivo dell’autorità giudiziaria – potendo essere provvisoriamente disposti nel corso del procedimento solo se sussistono motivi di particolare gravità – nel caso dell’informazione antimafia quei medesimi effetti scaturiscono immediatamente da un provvedimento dell’autorità amministrativa, basato unicamente sul «sospetto circa il possibile pericolo di infiltrazione mafiosa nell’azienda».
In conclusione, la parte chiede che la disposizione censurata sia dichiarata costituzionalmente illegittima per violazione degli artt. 3, 4 e 24 Cost., nonché degli artt. 5 e 6 della Convenzione per la salvaguardia del diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dell’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, firmato a Parigi il 20 marzo 1952 e degli artt. 15, 16, 17, 41 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.
8.– È intervenuto in giudizio, con atto depositato il 23 giugno 2021, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale siano dichiarate inammissibili e comunque non fondate in riferimento a tutti i parametri evocati.
8.1.– L’interveniente segnala come, con decreto del 22 dicembre 2020, successivo all’ordinanza di rimessione, il Tribunale di Reggio Calabria, sezione misure di prevenzione, abbia disposto, ai sensi dell’art. 16 cod. antimafia, il sequestro dell’impresa individuale interessata dall’informazione antimafia oggetto di impugnazione, nonché la sospensione degli effetti di tale ultimo provvedimento in forza dell’art. 35-bis, comma 3, cod. antimafia.
Le questioni di legittimità costituzionale sollevate dovrebbero pertanto essere dichiarate inammissibili per difetto di rilevanza, poiché l’incidenza sui mezzi di sostentamento della ricorrente nel giudizio principale costituirebbe l’effetto non già della mancata previsione, nel tessuto normativo, della possibilità di escludere gli effetti dell’informazione antimafia, nel frattempo sospesa, ma dell’avvenuto sequestro disposto dall’autorità giudiziaria.
8.2.– Le censure sarebbero comunque non fondate. Quanto alla dedotta violazione dell’art. 3, secondo comma, Cost., la difesa erariale sostiene che gli artt. 67 e 92 disciplinerebbero «istituti ontologicamente diversi».
L’art. 67 riguarda, infatti, un procedimento incardinato presso l’autorità giudiziaria, culminante con l’adozione di un provvedimento definitivo. Proprio nella definitività dell’applicazione della misura di prevenzione disposta dal giudice («sebbene suscettibile di impugnazione») troverebbe giustificazione il potere, a quest’ultimo assegnato, di valutare l’impatto della misura sulle condizioni economiche dell’interessato.
L’art. 92 cod. antimafia disciplina, invece, un istituto di diversa conformazione, con carattere amministrativo e provvisorio. Come sarebbe stato chiarito da questa Corte con la sentenza n. 57 del 2020, l’impossibilità di esercitare in sede amministrativa i poteri previsti all’art. 67, comma 5, cod. antimafia, «in parte trova una compensazione nella temporaneità dell’informazione antimafia (ciò che valorizza ulteriormente l’importanza del riesame periodico cui sono chiamate le autorità prefettizie)» (sul carattere temporaneo dell’informazione antimafia viene inoltre richiamata la sentenza del Consiglio di Stato, sezione terza, 23 febbraio 2021, n. 1579).
Ancora, le misure di prevenzione rinvengono il proprio fondamento nella valutazione di pericolosità sociale del reo e di probabilità che commetta reati. Pertanto, «sovente seguono una condanna penale» e per questo «svolgono anche una funzione rieducativa e di prevenzione speciale». L’informazione antimafia presuppone, invece, una valutazione di carattere prodromico circa possibili infiltrazioni mafiose. Il provvedimento tutelerebbe l’ordine pubblico economico, il principio di libera concorrenza e del buon andamento della pubblica amministrazione. Esigenze rispetto alle quali la libertà di iniziativa economica privata non potrebbe che essere recessiva.
Occorrerebbe poi considerare che l’art. 32, comma 10, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, nella legge 11 agosto 2014, n. 114, consente al prefetto di adottare le misure ivi indicate nel caso in cui sussista l’urgente necessità di assicurare il completamento dell’esecuzione del contratto o la sua prosecuzione, «al fine di garantire la continuità di funzioni e servizi indifferibili per la tutela di diritti fondamentali, nonché per la salvaguardia dei livelli occupazionali». Ancora, non sarebbe senza importanza il fatto che gli effetti dell’informazione antimafia – come avvenuto nel caso di specie – possano essere sospesi in sede di impugnazione giurisdizionale e che, a seguito della medesima impugnazione, l’impresa possa richiedere di accedere al controllo giudiziario, istituto dagli effetti meno pervasivi dell’amministrazione giudiziaria (art. 34-bis cod. antimafia).
Sottolinea poi la difesa erariale come improprio sarebbe in ogni caso un intervento di questa Corte di pura e semplice estensione del disposto di cui all’art. 67, comma 5, cod. antimafia al procedimento per il rilascio dell’informazione antimafia, posto che si tratta di provvedimento cautelare da adottarsi entro termini rigidamente contenuti, che non consentono al prefetto di compiere gli accertamenti necessari a valutare l’impatto della misura sulle condizioni economiche dell’interessato. Occorrerebbe invece, a tal fine, che fosse quest’ultimo a poter documentare il potenziale venir meno dei mezzi di sostentamento. Dunque, la tutela dell’esigenza in esame potrebbe essere conseguita con una pluralità di soluzioni diverse, rimesse, come ebbe a dire già questa Corte, ad una «rimeditazione da parte del legislatore». A titolo esemplificativo, potrebbe trattarsi di una specifica tutela in sede di ricorso giurisdizionale innanzi al giudice amministrativo nell’ambito del potere di sospensione cautelare, o innanzi al tribunale competente per le misure di prevenzione.
8.3.– Anche la questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento all’art. 4 Cost. sarebbe non fondata, poiché la disposizione costituzionale tutelerebbe il diritto al lavoro «dal punto di vista del lavoratore e non del datore di lavoro/imprenditore».
8.4.– Nemmeno vi sarebbe, infine, violazione dell’art. 24 Cost. Anzitutto, la censura sarebbe incongruente rispetto alla questione principale prospettata nell’ordinanza di rimessione, perché l’assenza del potere del prefetto di escludere gli effetti dell’informazione rende priva di rilievo la circostanza che, allo stato, la disciplina del codice antimafia preveda solo un contraddittorio eventuale. Semmai, potrebbe essere proprio l’accoglimento della censura relativa all’art. 3 Cost. a far emergere un simile profilo di incoerenza del regime procedimentale.
Ad ogni modo, come ammesso dallo stesso giudice a quo, secondo la giurisprudenza costituzionale, il diritto di difesa non copre ogni procedimento contenzioso di natura amministrativa. Peraltro, la Corte di Giustizia, con ordinanza del 28 maggio 2020, causa C-17/20, ha ritenuto irricevibile la questione pregiudiziale sollevata dal TAR Puglia proprio in merito alla mancata previsione, nel codice antimafia, di un contraddittorio endoprocedimentale.
9.– La parte ha depositato memoria in vista dell’udienza.
Contestando l’eccezione di inammissibilità prospettata dall’Avvocatura generale, segnala che pende giudizio, innanzi al Tribunale per le misure di prevenzione di Reggio Calabria, avverso il decreto di sequestro dell’azienda subito dalla ricorrente nel giudizio a quo e che, in ogni caso, l’art. 18 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale impone a questa Corte di proseguire il giudizio.
Nel merito, dopo essersi soffermata sulla natura delle misure interdittive, che dovrebbero essere ritenute soggette alle garanzie penalistiche alla luce dei «“criteri Engel”», la parte insiste nell’osservare che al destinatario di una informazione antimafia non potrebbero comunque essere negate condizioni di vita accettabili e dovrebbe essere assicurata la tutela dei bisogni primari. Aggiunge, peraltro, che, secondo la giurisprudenza amministrativa, il decorso dei dodici mesi non determina la perdita di efficacia del provvedimento, imponendo solo al prefetto di procedere ad una rivalutazione della vicenda complessiva (è citata la sentenza del Consiglio di Stato, sezione terza, 13 dicembre 2021, n. 8309).
In riferimento alla dedotta violazione dell’art. 4 Cost., la parte sottolinea come tale disposizione non tuteli solo il lavoro dipendente ma anche l’attività professionale e di impresa.
Infine, quanto alla censura riferita all’art. 24 Cost., la parte segnala le novità introdotte con il decreto-legge 6 novembre 2021, n. 152 recante «Disposizioni urgenti per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e per la prevenzione delle infiltrazioni mafiose», convertito, con modificazioni, nella legge 29 dicembre 2021, n. 233, che, intervenendo sull’art. 92, comma 2-bis, cod. antimafia, «in parziale adesione alla questione di legittimità costituzionale», ha introdotto un contraddittorio necessario. Aggiunge la parte che «[l]a questione di costituzionalità residua, e deve estendersi, in via consequenziale [..] alle disposizioni in ultimo richiamate nella parte in cui non prevedono […] una eccezione ai divieti previsti dall’art. 67 d.lgs. 159/2011 nel caso in cui, per effetto della misura interdittiva, vengano a mancare i mezzi di sostentamento all’interessato e alla famiglia».
10.– Il movimento Nuova Italia Unita ha depositato un’opinione scritta, che non è stata tuttavia ammessa poiché non forniva «elementi utili alla conoscenza e alla valutazione del caso, anche in ragione della sua complessità» (art. 4-ter, comma 3, delle Norme integrative, vigente ratione temporis).
Motivi della decisione
1.– Il Tribunale amministrativo regionale per la Calabria, sezione staccata di Reggio Calabria, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, secondo comma (recte: primo comma), 4 e 24 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 92 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), nella parte in cui non prevede il potere del prefetto di escludere le decadenze e i divieti stabiliti dal comma 5 dell’art. 67 del medesimo decreto legislativo, quando valuti che, in conseguenza degli stessi, verrebbero a mancare i mezzi di sostentamento all’interessato e alla sua famiglia.
È bene premettere che, al ricorrere di taluni presupposti, il codice antimafia stabilisce il prodursi di rilevanti effetti interdittivi, che incidono in profondità sulle attività economiche ed imprenditoriali dei destinatari. Si tratta di divieti e decadenze che precludono la possibilità di ottenere o mantenere erogazioni pubbliche, contratti pubblici, provvedimenti amministrativi funzionali ad esercitare attività imprenditoriali (licenze, autorizzazioni, concessioni, iscrizioni in elenchi e registri, eccetera). Il puntuale elenco dei provvedimenti che non possono essere ottenuti o mantenuti è contenuto nell’art. 67 cod. antimafia.
Per quanto qui soprattutto rileva, le interdizioni in parola discendono, sia dalla applicazione, con provvedimento definitivo del giudice, di una delle misure di prevenzione personali previste dal Libro I, Titolo I, Capo II cod. antimafia (art. 67, comma 1), sia dalla adozione, da parte del prefetto, di una informazione antimafia (artt. 91 e seguenti cod. antimafia), provvedimento quest’ultimo che può basarsi sulla constatazione della mera sussistenza di una delle cause di decadenza previste proprio dall’art. 67 cod. antimafia o dalla attestazione di «eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa» (art. 84, comma 3, cod. antimafia).
Tuttavia – ed è questa la censura avanzata dal rimettente – solo quando le decadenze e i divieti discendono da una misura di prevenzione è data facoltà al giudice di escluderne l’applicazione, per tutelare l’eventuale stato di bisogno dell’interessato. Il prefetto, chiamato a rilasciare informazione antimafia secondo le modalità prescritte dall’art. 92 cod. antimafia, oggetto dell’odierno giudizio di costituzionalità, non ha invece il potere di valutare l’impatto dell’informazione interdittiva sulle condizioni economiche del destinatario e, se del caso, di escluderne gli effetti.
Il giudice a quo premette che le misure interdittive antimafia hanno «natura “cautelare e preventiva”», e condividono con le misure di prevenzione la finalità di assicurare un’anticipata difesa della legalità, perseguendo il medesimo interesse pubblico e producendo le medesime conseguenze. Da questa comune natura, deduce che realizzerebbe una irragionevole disparità di trattamento la scelta del legislatore di non attribuire all’autorità prefettizia (avendola attribuita invece al giudice delle misure di prevenzione) il potere di apprezzare l’incidenza di tali conseguenze sui mezzi di sostentamento dell’interessato e della propria famiglia.
Il contrasto con il principio di uguaglianza, a suo avviso, non sarebbe ridotto dalla temporaneità degli effetti dell’informazione antimafia, stabilita in dodici mesi, giacché si tratterebbe di un periodo di tempo comunque idoneo a «pregiudicare in modo definitivo qualsiasi attività di impresa».
Allo stesso modo, ad avviso del rimettente, non eliminerebbe il vizio riscontrato la facoltà per l’impresa di accedere, tramite richiesta rivolta al tribunale competente per le misure di prevenzione, al controllo giudiziario (art. 34-bis, comma 6, cod. antimafia), istituto che consente all’impresa stessa di proseguire la propria attività, nel rispetto di una serie di obblighi e con la previsione di un amministratore giudiziario, in funzione di vigilanza, chiamato a riferire periodicamente al giudice delegato e al pubblico ministero. L’istanza di ammissione al controllo giudiziario, rimessa all’apprezzamento del giudice della prevenzione, deve infatti essere preceduta dalla impugnazione, innanzi al giudice amministrativo, dell’informazione interdittiva: quest’ultima, pertanto, inizia comunque a produrre i suoi effetti e, sempre ad avviso del rimettente, la stessa ammissione al controllo giudiziario sospende ma non elimina, né elide retroattivamente, tali effetti.
Sarebbe violato, altresì, l’art. 4 Cost.
Infatti, sostiene il rimettente, l’informazione antimafia inibisce, sia i rapporti con la pubblica amministrazione, sia le attività private sottoposte a regime autorizzatorio. Proprio la pervasività della misura determinerebbe un sacrificio del diritto al lavoro, tutelato persino in capo a un detenuto a seguito di condanna (è citata l’ordinanza di questa Corte n. 532 del 2002) e invece non salvaguardato in capo a colui che – come accade nei casi di interdittiva – sia oggetto di una misura volta a prevenire un evento anche solo potenziale, in forza di una valutazione condotta sulla base della regola del «più probabile che non». Valutazione nel cui ambito, conclude il giudice a quo, non può comunque essere tenuta in conto l’evenienza che il provvedimento «depauperi i mezzi di sostentamento che chi ne è colpito trae dal proprio lavoro».
Da ultimo, il giudice rimettente lamenta la violazione anche dell’art. 24 Cost., poiché la disposizione censurata non consentirebbe all’interessato di prospettare al prefetto le conseguenze che l’inflizione dell’interdittiva determinerebbe a suo carico.
La disciplina vigente, riconosce il giudice a quo, non impedisce del tutto il contraddittorio, ma l’art. 93, comma 7, cod. antimafia lo prevede come mera eventualità. In ogni caso, sottolinea il rimettente, nulla è detto circa la possibilità del destinatario di un provvedimento tanto invasivo «di sottoporre all’autorità prefettizia le possibili conseguenze di esso, in termini di depauperamento dei mezzi di sostentamento suoi e della sua famiglia»: e ciò, appunto, integrerebbe la violazione dell’art. 24 Cost.
Il rimettente, infine, è consapevole che, secondo la giurisprudenza costituzionale, il diritto di difesa non si estende oltre la sfera della giurisdizione, ma questo non significherebbe, a suo avviso, che l’art. 24 Cost. non possa manifestare riflessi in altri ambiti, proprio per la sua connessione con i diritti inviolabili della persona (cita in questo senso la sentenza di questa Corte n. 128 del 1995).
2.– Devono essere preliminarmente dichiarate inammissibili le deduzioni svolte dalla difesa della parte costituita in giudizio, volte a estendere il thema decidendum, come fissato nell’ordinanza di rimessione. Ciò riguarda, in particolare, le censure che prospettano la lesione di parametri diversi rispetto a quelli evocati dal giudice a quo, ovvero gli artt. 5 e 6 della Convenzione per la salvaguardia del diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, l’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, firmato a Parigi il 20 marzo 1952 e gli artt. 15, 16, 17, 41 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.
Per costante giurisprudenza costituzionale, «l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale è limitato alle disposizioni e ai parametri indicati nelle ordinanze di rimessione. Pertanto, non possono essere presi in considerazione “ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti, sia che siano stati eccepiti ma non fatti propri dal giudice a quo, sia che siano diretti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto delle stesse ordinanze”» (sentenza n. 186 del 2020; nello stesso senso, ex plurimis, sentenze n. 149 e n. 91 del 2022, n. 252, n. 239 e n. 237 del 2021).
3.– Sempre in via preliminare, deve essere esaminata l’eccezione di inammissibilità avanzata dal Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto in giudizio per mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, che allega come il Tribunale di Reggio Calabria, sezione misure di prevenzione, abbia disposto il sequestro dell’impresa individuale della ricorrente, con annesso patrimonio aziendale, con decreto adottato il 22 dicembre 2020, quindi in data successiva a quella dell’ordinanza di rimessione.
L’Avvocatura dello Stato sostiene che la sopravvenienza di tale provvedimento giudiziario rispetto all’ordinanza di rimessione comporterebbe, per difetto di rilevanza, l’inammissibilità delle questioni sollevate. Il sequestro sospende, infatti, ai sensi dell’art. 35-bis, comma 3, cod. antimafia, «gli effetti della pregressa documentazione antimafia interdittiva», al fine di consentire la temporanea prosecuzione dell’attività di impresa. Di conseguenza, il venir meno dei mezzi di sostentamento in capo all’interessata e alla sua famiglia deriverebbe, secondo la difesa erariale, non già dalla omessa previsione della facoltà del prefetto di escludere le conseguenze interdittive proprie dell’informazione antimafia, ma dall’intervenuto sequestro aziendale.
L’eccezione deve essere rigettata.
Per costante giurisprudenza costituzionale, «una volta iniziato in seguito ad ordinanza di rinvio del giudice rimettente, il giudizio di legittimità costituzionale non è suscettibile di essere influenzato dalle eventuali successive vicende di fatto che concernono il rapporto dedotto nel processo che lo ha occasionato». Infatti, «[l]a rilevanza della questione va […] valutata alla luce delle circostanze di fatto sussistenti al momento dell’ordinanza di rimessione e non a quelle sopravvenute, anche ove tali ultime siano tali da incidere sulla persistente attualità dell’interesse ad agire nel giudizio principale (sentenza n. 42 del 2011), permanendo la necessità di sottoporre allo scrutinio di costituzionalità una norma che, come nel caso di specie, abbia comunque prodotto effetti sulle posizioni soggettive dei destinatari» (sentenza n. 150 del 2018; nello stesso senso, ex plurimis, sentenze n. 33, n. 30, n. 22 e n. 7 del 2022, n. 127 del 2021, n. 270 e n. 85 del 2020).
Ciò vale anche a prescindere da quel che allega, nella memoria depositata in vista dell’udienza, la parte, la quale sottolinea di conservare un interesse alla declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 92 cod. antimafia, poiché il provvedimento interdittivo, che comunque aveva iniziato a dispiegare i propri effetti, potrebbe produrne ancora, essendo stati questi ultimi solo sospesi a seguito del provvedimento di sequestro, avverso il quale pende giudizio.
4.– Ancora in via preliminare, va valutata l’incidenza di una significativa modifica legislativa – recata dal decreto-legge 6 novembre 2021, n. 152 recante « Disposizioni urgenti per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e per la prevenzione delle infiltrazioni mafiose», convertito, con modificazioni, nella legge 29 dicembre 2021, n. 233 – che, successivamente all’ordinanza di rimessione, ha interessato l’art. 92 cod. antimafia, cioè la disposizione oggetto delle odierne questioni di legittimità costituzionale.
Il novellato art. 92, comma 2-bis, cod. antimafia prevede ora una forma di contraddittorio necessario tra il prefetto e coloro nei cui confronti stia per essere emessa una informazione antimafia. Il prefetto è infatti tenuto, sempre che non ricorrano «particolari esigenze di celerità del procedimento», a dare tempestiva comunicazione all’interessato, «indicando gli elementi sintomatici dei tentativi di infiltrazione mafiosa». L’interessato può presentare osservazioni scritte, eventualmente corredate da documenti, nonché richiedere di essere ascoltato.
La disposizione prevede, inoltre, che non possono formare oggetto della comunicazione informazioni il cui disvelamento rischi di pregiudicare procedimenti amministrativi o attività processuali in corso, oppure l’esito di altri accertamenti finalizzati a prevenire infiltrazioni mafiose.
Al termine di questa fase in contraddittorio, secondo quanto dispone l’art. 92, comma 2-ter, cod. antimafia, il prefetto potrà rilasciare una informazione liberatoria oppure una informazione interdittiva, oppure ancora – laddove gli elementi sintomatici dei tentativi di infiltrazione mafiosa «siano riconducibili a situazioni di agevolazione occasionale» – disporre l’applicazione delle nuove misure amministrative di prevenzione collaborativa, di cui all’art. 94-bis cod. antimafia, a sua volta inserito dalla novella legislativa ora in esame.
Tale ultima disposizione, al comma 1, prevede che, al sussistere della condizione ricordata (la cosiddetta «agevolazione occasionale»), il prefetto possa prescrivere, per un periodo non inferiore a sei mesi e non superiore a dodici, una o più misure di prevenzione collaborativa.
In tal caso, può essere richiesto all’impresa di adottare misure organizzative finalizzate a rimuovere e prevenire le cause di agevolazione occasionale, di comunicare al gruppo interforze costituito presso la stessa prefettura gli atti di disposizione, di acquisto o pagamento e gli incarichi conferiti di valore non inferiore a una determinata soglia di valore, di utilizzare a tal fine un conto corrente apposito. Può essere inoltre previsto l’obbligo di comunicare i contratti di associazione in partecipazione stipulati e, per le società di capitali o di persone, i finanziamenti erogati dai soci o terzi. Il prefetto può anche decidere, ai sensi del successivo comma 2, di nominare uno o più esperti con funzioni di supporto per l’attuazione delle misure disposte.
Di rilievo è pure la nuova previsione del comma 4 dell’art. 94-bis, ai cui sensi, alla scadenza del termine di durata delle misure, il prefetto, «ove accerti, sulla base delle analisi formulate dal gruppo interforze, il venir meno dell’agevolazione occasionale e l’assenza di altri tentativi di infiltrazione mafiosa, rilascia un’informazione antimafia liberatoria».
In definitiva, il decreto-legge n. 152 del 2021, come convertito, ha introdotto la possibilità, per l’impresa sospettata di agevolazione mafiosa solo occasionale, di evitare l’informazione e i suoi effetti interdittivi, e di continuare ad operare, sia pur risultando sottoposta a vigilanza e assumendo l’impegno di adoperarsi per una bonifica, sì da superare gli elementi di “compromissione” riscontrati.
Queste misure di prevenzione, da adottarsi in via amministrativa dal prefetto, risultano per certi profili simili a quelle che l’autorità giudiziaria può disporre con il controllo giudiziario di cui all’art. 34-bis cod. antimafia. La significativa innovazione recata dalla riforma, con il nuovo strumento di cui all’art. 94-bis, consiste proprio nella possibilità di anticipare alla fase amministrativa quelle misure di bonifica dell’impresa (cosiddette di self cleaning) ricomprese nell’ambito dell’istituto del controllo giudiziario, e disposte, appunto, in sede giurisdizionale.
Ebbene, per quanto si tratti di novità di sicuro rilievo, né la previsione che ha introdotto il contraddittorio necessario, né quella che consente le misure amministrative preventive di collaborazione, possono trovare applicazione, ratione temporis, nel giudizio principale, quest’ultimo avendo ad oggetto una informazione antimafia adottata nella vigenza delle precedenti regole. Sicché, non è prospettabile la restituzione degli atti al giudice a quo, affinché proceda ad una nuova valutazione dei requisiti di rilevanza e non manifesta infondatezza delle sollevate questioni (da ultimo, sentenze n. 91, n. 54 e n. 27 del 2022).
Il dubbio, che potrebbe astrattamente porsi con riferimento all’applicabilità delle nuove misure preventive di collaborazione ad un’impresa già attinta da informazione antimafia, è eliminato in radice dalla norma transitoria di cui all’art. 49, comma 2, del decreto-legge n. 152 del 2021, come convertito, ove si prevede che l’art. 94-bis cod. antimafia si applichi «anche ai procedimenti amministrativi per i quali, alla data di entrata in vigore del presente decreto, è stato effettuato l’accesso alla banca dati nazionale unica della documentazione antimafia e non è stata ancora rilasciata l’informazione antimafia».
Nel presente caso, l’informazione antimafia è stata già adottata, sicché il prefetto non avrebbe modo di ricorrere alle nuove misure collaborative.
È, inoltre, del tutto ipotetica e solo eventuale la possibilità che, una volta decorso il periodo di validità dell’informazione antimafia subita dall’impresa ricorrente, il prefetto, chiamato a riconsiderare le circostanze di fatto, possa, a questo punto, applicare le nuove misure collaborative (ove, ovviamente, ritenga che l’agevolazione sia solo occasionale). Analogamente, è a dirsi della possibilità che – nel corso della rinnovata valutazione, condotta al fine di verificare se sussistano elementi diversi rispetto a quelli che avevano portato alla prima informazione – l’interessato abbia accesso al contraddittorio con il prefetto, ai sensi del nuovo art. 92-bis cod. antimafia.
Le innovazioni legislative in parola, peraltro, non si muovono nella direzione proposta dal rimettente (sentenza n. 125 del 2018), non contenendo alcun riferimento alle esigenze che ispirano l’art. 67, comma 5, cod. antimafia (norma assunta a tertium comparationis nell’ordinanza di rimessione), cioè la tutela di bisogni primari di sostentamento economico della persona attinta da una misura di prevenzione e della sua famiglia. Al contrario, la novella in esame, e specificamente quella concernente le misure amministrative di prevenzione collaborativa, pur essendo indirizzata a consentire l’eventuale prosecuzione delle attività imprenditoriali, è prevalentemente guidata da esigenze di tutela della sicurezza pubblica: giacché il presupposto per la sua applicazione, analogamente a quanto previsto per l’applicazione del controllo giudiziario ai sensi dell’art. 34-bis cod. antimafia, è il carattere solo occasionale dell’agevolazione cui sono riconducibili i tentativi di infiltrazione mafiosa, non già la condizione di bisogno delle persone interessate (tanto che la parte costituita ha significativamente chiesto che le questioni di legittimità costituzionale siano estese alla nuova disciplina).
5.– Passando al merito, è bene chiarire che il nucleo delle censure articolate dal rimettente ruota intorno all’asserita violazione dell’art. 3, primo comma, Cost., mentre il richiamo operato ai parametri di cui agli artt. 4 e 24 Cost. assume un ruolo puramente ancillare rispetto alla doglianza principale. Quanto a quest’ultima, l’ordinanza di rimessione coglie un aspetto realmente critico della disciplina, in ordine al quale questa stessa Corte, nella sentenza n. 57 del 2020, ha auspicato «una rimeditazione da parte del legislatore».
Non è, del resto, implausibile il confronto che il giudice rimettente propone tra la differente disciplina dei poteri attribuiti al giudice delle misure di prevenzione, e quelli conferiti al prefetto nell’ambito dell’informazione antimafia. Ben vero che si tratta di contesti normativi non del tutto sovrapponibili: da una parte, una misura di prevenzione, adottata con provvedimento definitivo di un giudice che, nell’ambito di un giudizio, ha accertato la pericolosità sociale della persona; dall’altra, una misura amministrativa, caratterizzata dalla massima anticipazione della soglia di prevenzione, adottata nei confronti di un’impresa che si sospetta intrattenere (o che, secondo la giurisprudenza amministrativa, addirittura si teme possa intrattenere) rapporti con la criminalità organizzata.
Tali elementi di differenziazione non possono tuttavia considerarsi a tal punto significativi da richiedere necessariamente un diverso regime giuridico quanto ad una esigenza di primario rilievo, quale è, nell’un caso e nell’altro, la garanzia di sostentamento del soggetto colpito dall’una e dall’altra misura, e della sua famiglia.
Va anzitutto osservato che in entrambi i casi si è in presenza di misure anticipatorie in funzione di difesa della legalità.
Quanto all’informazione antimafia, ciò è argomentato, sia dalla giurisprudenza amministrativa – che esclude in materia logiche sanzionatorie e ragiona di un provvedimento con natura «cautelare e preventiva» (Consiglio di Stato, adunanza plenaria, sentenza 6 aprile 2018, n. 3 e, tra le più recenti, sezione terza, sentenza 4 gennaio 2022, n. 21) – sia dalla stessa giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 118 del 2022, n. 178 del 2021 e n. 57 del 2020).
Quanto alle misure di prevenzione personali, questa Corte ha avuto modo di chiarire che, pur fondate su elementi tali da far ritenere la sussistenza di pregresse attività criminose, esse non manifestano carattere sanzionatorio-punitivo ed hanno «chiara finalità preventiva», essendo intese a ridurre il rischio che il soggetto, limitato nella sua libertà di movimento e sottoposto a vigilanza in base alle prescrizioni indicate all’art. 8 cod. antimafia, commetta ulteriori reati. Si tratta, insomma, di strumenti deputati al «controllo, per il futuro, della pericolosità sociale del soggetto interessato: non già [alla] punizione per ciò che questi ha compiuto nel passato» (sentenza n. 24 del 2019).
Alle limitazioni e agli strumenti di vigilanza imposti dal decreto che abbia in via definitiva applicato la misura di prevenzione (quelli che delineano il contenuto tipico della misura), l’art. 67 cod. antimafia aggiunge ulteriori effetti pregiudizievoli, «gravemente “inabilitanti”» (sentenza n. 93 del 2010), il cui obiettivo è di contrastare l’attività economica dei soggetti colpiti «tramite, in particolare, il reimpiego del danaro proveniente da attività criminosa» (sentenza n. 510 del 2000).
Si tratta dei medesimi effetti (e, invero, potenzialmente degli unici effetti, a differenza di quel che accade per le misure di prevenzione, da cui ne derivano altri, diversi) che conseguono all’informazione antimafia. Come già detto, tale ultimo provvedimento, infatti, può basarsi, sia sulla sussistenza di una delle cause di decadenza previste dall’art. 67 cod. antimafia (dunque, in ipotesi, proprio su una misura di prevenzione applicata con provvedimento definitivo), sia sulla sussistenza «di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa» (art. 84, comma 3, cod. antimafia), desumibili da una serie di elementi indicati negli artt. 84, comma 4, e 91, comma 6, cod. antimafia. Il provvedimento potrebbe essere assunto in presenza di situazioni non necessariamente già vagliate dalla magistratura, e da cui non sono dunque già scaturite ulteriori conseguenze a carico dei soggetti interessati.
La ratio dell’informazione antimafia, in funzione di «massima anticipazione della soglia di prevenzione» (tra le più recenti, Consiglio di Stato, sezione prima, sentenza 18 giugno 2021, n. 1060), è del resto quella di apprestare la «salvaguardia dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della Pubblica Amministrazione» (in questo senso la già citata sentenza del Consiglio di Stato, adunanza plenaria, n. 3 del 2018, e la sentenza della sezione terza, 3 maggio 2016, n. 1743).
In tale contesto, tuttavia, solo nei confronti del soggetto attinto da misura di prevenzione e non in riferimento a quello colpito da interdittiva gli interessi di rilievo pubblicistico in tal modo perseguiti sono destinati a cedere il passo all’insopprimibile esigenza di non mettere a rischio la possibilità del soggetto di sostentare sé stesso e la propria famiglia.
Vien così da rilevare che proprio nell’ambito di un procedimento finalizzato al rilascio dell’informazione interdittiva – fondato sulla rilevazione di elementi di pericolo non necessariamente già passati al vaglio della magistratura, e relativo ad attività economiche operanti spesso in un’area contigua, o addirittura solo potenzialmente contigua, alla criminalità organizzata – il legislatore dovrebbe, a fortiori, consentire la valutazione dell’effetto prodotto dalle interdizioni sul sostentamento dei soggetti interessati.
La limitata durata temporale dell’interdittiva, prevista dall’art. 86, comma 2, cod. antimafia, non parrebbe, d’altra parte, elemento sufficiente a giustificare la deteriore disciplina riservata a coloro che siano raggiunti da tale provvedimento (analogamente, già sentenza n. 57 del 2020).
Non erra, a tal proposito, il rimettente quando osserva che dodici mesi di interruzione dell’attività imprenditoriale potrebbero determinare conseguenze irrimediabili sulla sua sopravvivenza.
Ancora, non appare misura idonea a scongiurare un contrasto con il principio di uguaglianza l’applicazione del controllo giudiziario (e, dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 152 del 2021, come convertito, delle richiamate misure di prevenzione amministrativa collaborativa, comunque non applicabili, ratione temporis, al caso di specie), che pure risponde all’apprezzabile finalità di contemperare le esigenze di difesa sociale e di tutela della concorrenza con l’interesse alla continuità aziendale. Infatti, non diversamente da quanto è stato ultimamente previsto ai fini dell’applicazione delle misure di prevenzione amministrativa collaborativa, anche per poter accedere al controllo giudiziario non assume rilievo decisivo la condizione economica dell’interessato, quanto il grado di pericolosità dell’infiltrazione mafiosa, ovvero la «bonificabilità», in termini prognostici, dell’impresa (Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenze 13 maggio-15 giugno 2021, n. 23330 e sezione seconda penale, 28 gennaio-5 marzo 2021, n. 9122).
6.– Alla luce di tali considerazioni, non è dubbio che l’ordinanza di rimessione sottolinei correttamente l’esistenza di una ingiustificata disparità di trattamento, che necessita di un rimedio.
A questo scopo, tuttavia, e allo stato, non appare strumento idoneo la pronuncia di accoglimento delineata nell’ordinanza di rimessione, che chiede di trasporre, nella disciplina relativa alla informazione interdittiva, la deroga attualmente prevista dall’art. 67, comma 5, cod. antimafia con riferimento alle sole misure di prevenzione personali.
6.1.– In primo luogo, occorre considerare che, secondo la prospettazione del rimettente, una pronuncia di tal fatta avrebbe l’effetto di attribuire all’autorità prefettizia, nell’ambito del procedimento che conduce al rilascio dell’informazione antimafia, un potere valutativo – quello finalizzato a verificare se, per effetto delle decadenze e dei divieti di cui all’art. 67 cod. antimafia, vengano meno i mezzi di sostentamento all’interessato e alla sua famiglia – che attualmente il codice affida, invece, all’apprezzamento dell’autorità giudiziaria, nel contesto del procedimento e delle garanzie proprie di un giudizio.
Non solo si tratterebbe, quindi, di estendere la disciplina derogatoria in questione dal settore delle misure di prevenzione a quello dell’informazione antimafia, ma, altresì, di attribuirne l’applicazione ad un’autorità diversa, trasferendola dall’autorità giudiziaria a quella amministrativa.
Da questo punto di vista, è richiesta una pronuncia connotata da un «cospicuo tasso di manipolatività» (sentenze n. 80 e n. 21 del 2020, n. 219 del 2019 e n. 23 del 2016; in termini, ordinanze n. 126 del 2019 e n. 12 del 2017), che determinerebbe l’innesto, nel sistema vigente, di un istituto inedito, e che presupporrebbe, oltretutto, l’attribuzione all’autorità prefettizia di nuovi, specifici poteri istruttori, allo stato inesistenti.
6.2.– In secondo luogo, l’informazione antimafia, sebbene comporti accertamenti su persone fisiche (indicate all’art. 85 cod. antimafia), mira a verificare la sussistenza di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare l’attività di «società o imprese» (art. 84, comma 3, cod. antimafia) cui tali soggetti siano collegati. Il provvedimento in questione riguarda, dunque, gli operatori economici, che siano persone giuridiche o imprese individuali, come recentemente sottolineato dallo stesso rimettente (TAR Calabria, sentenze 10 maggio 2022, n. 781 e 3 gennaio 2022, n. 2).
Il caso da cui originano le presenti questioni di legittimità costituzionale concerne specificamente una impresa individuale e, benché ciò non sia del tutto esplicitato nell’ordinanza di rimessione, le censure sollevate dal rimettente risultano ritagliate su tale specifica situazione. Del resto, proprio per effetto del rapporto di sostanziale immedesimazione che nella fattispecie in esame sussiste tra imprenditore e impresa, stride con il principio di uguaglianza la circostanza che il prefetto non possa valutare, come invece può fare il giudice nei confronti del soggetto prevenuto, l’incidenza degli effetti interdittivi sulle capacità di sostentamento dell’«interessato» e della sua «famiglia».
In definitiva, è particolarmente in ipotesi di questo genere, appunto di sostanziale sovrapposizione fra persona e attività economica, che emerge la disparità di trattamento lamentata dal giudice a quo.
Tuttavia, a ben vedere, anche una pronuncia di illegittimità costituzionale che ritagli il dispositivo di accoglimento sulla specifica situazione del giudizio a quo presenterebbe delicate implicazioni. Dovrebbe invero essere frutto di scelta discrezionale, come tale anch’essa spettante al legislatore, riservare, nell’ambito dell’informazione interdittiva, alla sola peculiare fattispecie dell’impresa individuale l’applicabilità di una deroga quale quella prevista dall’art. 67, comma 5, cod. antimafia, oppure, eventualmente, ampliarne i destinatari, coinvolgendo ulteriori soggetti economici (ad esempio le società di persone, o addirittura anche quelle di capitali), risultando altresì necessario precisare, in tali ultime ipotesi, quale o quali soggetti, collegati all’impresa, dovrebbero essere oggetto di considerazione.
6.3.– In terzo luogo, vi è da considerare che le misure di prevenzione personali hanno, come accennato, un proprio e tradizionale contenuto tipico – delineato all’art. 8 cod. antimafia – cui i divieti e le preclusioni elencati all’art. 67 cod. antimafia si aggiungono in via accessoria. Invece, le misure interdittive antimafia (laddove non si basino a loro volta su provvedimenti dell’autorità giudiziaria, già produttivi di conseguenze autonome) esauriscono i propri effetti pregiudizievoli proprio nei divieti e nelle decadenze di ordine economico previste dal medesimo articolo, sicché l’eventuale inibizione in toto della loro applicazione, sia pur in nome di fondamentali esigenze quali quelle rappresentate dal giudice a quo, significherebbe privarle di oggetto e, perciò, di qualunque utilità, frustrando gli obbiettivi cui esse mirano.
Per scongiurare un simile paradossale effetto, bisognerebbe almeno ritenere che l’art. 67, comma 5, cod. antimafia non richiede di escludere “in blocco” tutte le decadenze e i divieti in esso richiamati, ma solo quelli essenziali a dare continuità all’attività economica da cui il soggetto, e la sua famiglia, traggano alimento. Interpretazione, peraltro, non del tutto piana, non impedita dalla lettera della disposizione in questione, e tuttavia nemmeno facilitata dall’inesistenza di una significativa giurisprudenza in materia: ciò che, insieme al richiesto trasferimento del potere valutativo in merito dal giudice al prefetto, accentua ulteriormente il carattere manipolativo della pronuncia prospettata dal rimettente, che, anche da questo punto di vista, chiama in causa scelte spettanti alla discrezionalità legislativa.
6.4.– Infine, appartiene allo stesso modo alla discrezionalità legislativa decidere se e come utilizzare allo scopo invocato dal giudice a quo, innovandoli ulteriormente, alcuni utili strumenti, quali il controllo giudiziario o le misure amministrative di prevenzione collaborativa (già di recente oggetto di modifiche), al fine di meglio contemperare l’interesse pubblico alla sicurezza e la generale libertà del mercato, da una parte, e il diritto della persona a veder garantiti i propri mezzi di sostentamento, dall’altra: inserendo esplicitamente, tra le valutazioni che tali misure consentono, la possibilità di decidere selettive deroghe agli effetti interdittivi e alle decadenze di cui all’art. 67 cod. antimafia, proprio in vista di assicurare alle persone coinvolte i necessari mezzi di sostentamento economico.
7.– In definitiva, come si vede, non può essere una pronuncia di questa Corte, allo stato, a farsi carico – allo scopo di sanare l’accertato vulnus al principio di uguaglianza – dei complessi profili fin qui segnalati.
Per queste ragioni, le questioni di legittimità costituzionale devono essere dichiarate inammissibili.
Pure, deve trovare soddisfazione in tempi rapidi la necessità di accordare tutela alle esigenze di sostentamento dei soggetti che subiscono, insieme alle loro famiglie, a causa delle inibizioni all’attività economica, gli effetti dell’informazione interdittiva.
Del resto, a fortiori in contesti interessati da reali o potenziali infiltrazioni criminali, la possibilità di trarre sostentamento da attività economiche che potrebbero risultare legali e “sane” (ovvero essere rese tali anche perché opportunamente “controllate”) costituisce non solo oggetto di un diritto individuale costituzionalmente tutelato, ma anche interesse pubblico essenziale, proprio in nome della difesa della legalità e della necessaria sottrazione di spazi di intervento e di influenza alla criminalità organizzata.
Si è già ricordato che nella sentenza n. 57 del 2020 questa Corte aveva sottolineato come l’omessa previsione, in capo al prefetto, della possibilità di esercitare, adottando l’informazione interdittiva, i poteri attribuiti al giudice dall’art. 67, comma 5, cod. antimafia, nel caso di adozione delle misure di prevenzione, «merita[sse] indubbiamente una rimeditazione da parte del legislatore».
Questa rimeditazione, tuttavia, non risulta finora avvenuta.
Per tale ragione, in considerazione del rilievo dei diritti costituzionali interessati dalle odierne questioni, questa Corte non può conclusivamente esimersi dal segnalare che un ulteriore protrarsi dell’inerzia legislativa non sarebbe tollerabile (analogamente, sentenza n. 22 del 2022) e la indurrebbe, ove nuovamente investita, a provvedere direttamente, nonostante le difficoltà qui descritte.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 92 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136), sollevate, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 4 e 24 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per la Calabria, sezione staccata di Reggio Calabria, con l’ordinanza indicata in epigrafe.