Non integra il delitto di diffamazione la pubblicazione di una notizia su un giornale online se rispetta i presupposti del diritto di cronaca, ossia che essa sia vera, che incontri un interesse pubblico e che sia trattata con adeguata terzietà.
La Corte d'Appello di Palermo riteneva l'imputato responsabile del delitto di diffamazione per aver offeso la reputazione personale e professionale di un giornalista dandogli del «giornalista tossico» sul proprio profilo Facebook. L'imputato ricorre in Cassazione lamentando il mancato riconoscimento in suo favore della causa di...
Svolgimento del processo / Motivi della decisione
1. Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Palermo, in parziale riforma della sentenza con cui il tribunale di Agrigento, in data 28.6.2019, aveva condannato (omissis) alla pena ritenuta di giustizia e al risarcimento dei danni derivanti da reato in favore della costituita parte civile, in relazione al delitto di cui agli artt. 595, co. 3, c.p., commesso in danno di (omissis), riconosceva in favore dell'imputato i benefici della sospensione condizionale della pena inflitta e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, ai sensi dell'art. 175, c.p., confermando nel resto la sentenza impugnata.
Il (omissis) in particolare, è stato ritenuto responsabile del delitto innanzi indicato, per avere offeso la reputazione personale e professionale del giornalista (omissis) (omissis), inserendo sul proprio profilo utente del socia/ network Facebook un messaggio nel quale il (omissis) veniva indicato come "giornalista tossico", impegnato in un'attività estorsiva, finalizzata a ottenere dal (omissis) il versamento di una somma di denaro, per non pubblicare una notizia, che lo riguardava.
2. Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiede l'annullamento, ha proposto tempestivo ricorso per cassazione l'imputato, lamentando: 1) violazione di legge e vizio di motivazione, in punto di mancato riconoscimento in favore del ricorrente della causa di non punibilità di cui all'art. 599, co. 2, c.p.p., con riferimento alla pubblicazione sul periodico on fine " " di un articolo, ritenuto dall'imputato avente a sua volta natura diffamatoria, in cui si riportava il contenuto di un post pubblicato dal fratello del (omissis) sul proprio profilo Facebook in cui quest'ultimo accusava l'imputato di incompetenza professionale per non averlo difeso adeguatamente in un processo penale; 2) violazione di legge, in ordine alla mancata dimostrazione dell'esistenza di un danno morale subìto dal (omissis) danno che, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità in materia civile, deve sempre essere provato.
3. Con conclusioni scritte dell'8.4.2022, pervenute a mezzo di posta elettronica certificata, il difensore di fiducia della parte civile, avv. S.I., chiede che il ricorso venga dichiarato inammissibile o rigettato, con condanna dell'imputato al pagamento delle spese sostenute nel grado, come da nota allegata.
4. Il ricorso va dichiarato inammissibile, ai sensi del combinato disposto degli artt. 581, co. 1, lett. d), 591, co. 1, lett. c), c.p.p., disposizioni di carattere generale in materia di impugnazioni, pertanto applicabili al giudizio di legittimità, in quanto fondato su motivi che, riproponendo acriticamente le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame (con la cui motivazione sul punto la ricorrente non si confronta), devono considerarsi non specifici, ed anzi, meramente apparenti, in quanto non assolvono la funzione tipica di critica puntuale avverso la sentenza oggetto di ricorso.
La mancanza di specificità del motivo, infatti, deve essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate della decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato, senza cadere nel vizio di mancanza di specificità, conducente, a norma dell'art. 591, co. 1, lett. c), c.p.p., all'inammissibilità (cfr., ex plurimis, Cass., sez. 4, 18.9.1997 - 13.1.1998, n. 256, rv. 210157; Cass., sez. 5, 27.1.2005 - 25.3.2005, n. 11933, rv. 231708; Cass., sez.5V, 12.12.1996, n. 3608, rv. 207389; Cass., Sez. 2, n. 42046 del 17/07/2019, rv. 277710).
4.1. Ed invero non può non condividersi il limpido percorso argomentativo seguito dalla corte territoriale nell'escludere la sussistenza della invocata causa di non punibilità.
Al riguardo è sufficiente osservare come, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, in tema di diffamazione, la causa di non punibilità della provocazione di cui all'art. 599, comma 2, c.p., sussiste, non solo quando il fatto ingiusto altrui integra gli estremi di un illecito codificato, ma anche quando consiste nella lesione di regole di civile convivenza, purché apprezzabile alla stregua di un giudizio oggettivo, con conseguente esclusione della rilevanza della mera percezione negativa che di detta violazione abbia avuto l'agente (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. 5, n. 21133 del 09/03/2018, Rv. 273131; Cass., Sez. 5, Sentenza n. 25421 del 18/03/2014, Rv. 259882).
Appare, pertanto, assolutamente ovvio come non possa costituire "fatto ingiusto", rispetto alle offese indirizzate al soggetto passivo del reato, la condotta posta in essere dalla vittima della diffamazione, che costituisca esercizio di un diritto riconosciuto dall'ordinamento giuridico, come, ad esempio, il diritto di critica politica ovvero possa trovare astrattamente giustificazione in disposizioni normative (cfr. Cass., Sez. 5, n. 27922 del 22/02/2018, Rv. 273229; Cass., Sez. 5, n. 4943 del 20/01/2021, Rv. 280333).
Orbene la corte territoriale ha fatto buon governo di tali principi, ritenendo che rientrasse nell'esercizio del diritto di cronaca la condotta della persona offesa (omissis) consistente nell'aver riprodotto "sul giornale on line ''(omissis)" il testo integrale di un post divulgato da (omissis) (fratello del ricorrente) "sulla propria pagina Facebook, già ampiamente diffuso e oggetto di discussione nella comunità locale, con il quale accusava il fratello di averlo malamente difeso nel processo penale che lo vedeva imputato di furto dinanzi al tribunale di Como di guisa che, in modo paradossale, sosteneva che la pena inflittagli avrebbe dovuto essere espiata piuttosto dall'odierno imputato" (cfr. pp. 7-8 della sentenza della corte di appello).
Al riguardo si osserva che i caratteri salienti del diritto di cronaca, come ricostruiti dalla elaborazione della giurisprudenza di legittimità, non sono mutati nel corso del tempo.
Il diritto di cronaca giornalistica, invero, costituisce un aspetto essenziale del diritto di libertà di manifestazione del pensiero riconosciuto dall'art. 21 della Costituzione e può, pertanto, essere esercitato anche quando ne derivi una lesione all'altrui reputazione, atteggiandosi a causa di giustificazione ai sensi dell'art. 51, c.p.; tale diritto, però, non è assoluto ed i suoi limiti, in aderenza proprio alle finalità sociali che persegue, vanno ravvisati: a) nella necessità che l'esposizione della notizia sia obiettiva e serena, nel senso che non si tratti di una incivile denigrazione dell'altrui personalità; b) nella necessità che esista un pubblico interesse alla conoscenza dei fatti; C) nella necessità che la notizia pubblicata sia vera, o almeno sia stata seriamente accertata (cfr. Cass., Sez. 5, Sentenza n. 7776 del 26/05/1983, Rv. 160375).
L'esercizio del diritto di cronaca ha, pertanto, efficacia scriminante riguardo al fatto diffamatorio a condizione che la notizia divulgata, oltre che socialmente rilevante e descritta con continenza espressiva, sia vera, il che implica che sia riportata in modo completo (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. 5, n. 44024 del 04/11/2010, Rv. 249126).
Tale scriminante è certamente configurabile qualora la notizia pubblicata sia vera anche indipendentemente dalla verità del fatto che ne costituisce oggetto, purché la notizia stessa sia di interesse pubblico, anche in relazione ai soggetti coinvolti e sia presentata oggettivamente come tale e non come verità del fatto narrato (cfr. Cass. Sez. 5, n. 11897 del 14/01/2010, Rv. 246355).
Proprio il fondamento costituzionale del diritto di cronaca implica che tale diritto, per essere esercitato, non richieda necessariamente la qualifica di giornalista professionista da parte di chi riporta una notizia, utilizzando gli strumenti di manifestazione del pensiero messi a disposizione dalle tecniche di comunicazione, essendo sufficiente che la notizia stessa si inserisca e sia percepibile da terzi all'interno di un circuito narrativo.
Correttamente, pertanto, la corte territoriale ha ritenuto la descritta condotta del inquadrabile nell'ambito dell'esercizio del diritto di cronaca, rilevando: 1) l'incontestata verità della notizia riportata sul citato giornale on fine, che riportava fedelmente il contenuto del post inserito nella propria bacheca Facebook dal fratello dell'imputato; 2) l'assoluto rispetto del canone della continenza, posto che il messaggio di (omissis) era stato riportato tra virgolette, "per far comprendere la sua diretta riferibilità all'autore materiale e senza alcun commento e/o notazione personale di condivisione del suo contenuto e delle specifiche espressioni adoperate"; 3) l'interesse pubblico alla diffusione della notizia, "in considerazione della notorietà dell'imputato, affermato avvocato del Foro agrigentino ed esponente politico locale", al quale era stata anche offerta la possibilità di replicare (cfr. pp. 7-8 della sentenza oggetto di ricorso).
4.2. Anche con riferimento al secondo motivo di ricorso non può non rilevarsi la completezza del percorso argomentativo seguito dalla corte territoriale in completa aderenza ai principi affermati in subiecta materia dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui in tema di risarcimento del danno, la liquidazione dei danni morali, attesa la loro natura, non può che avvenire in via equitativa, dovendosi ritenere assolto l'obbligo motivazionale mediante l'indicazione dei fatti materiali tenuti in considerazione e del percorso logico posto a base della decisione, senza che sia necessario indicare analiticamente in base a quali calcoli è stato determinato l'ammontare del risarcimento (cfr., Cass., Sez. 6, n. 48086 del 12/09/2018, Rv. 274229; Cass., Sez. 4, n. 18099 del 01/04/2015, Rv. 263450).
Principi specificamente ribaditi proprio con riferimento al delitto ex art. 595, c.p. laddove si è evidenziato che è legittimo il ricorso al notorio ed alle presunzioni nella prova del danno, nella specie derivante da lesione alla reputazione a mezzo di programma televisivo, considerato che, in base all"'id quod plerumque accidit", si può presumere, che tale lesione abbia arrecato alla persona offesa una sofferenza morale meritevole di ristoro; inoltre, l'automatismo del relativo nesso causale è, in tal caso, di tale evidenza da far sì che il relativo onere di allegazione possa ritenersi soddisfatto attraverso il richiamo (anche per "relationem" rispetto all'imputazione contestata) al contenuto e alle modalità di diffusione delle affermazioni lesive (cfr. Cass., Sez. 5, n. 6481 del 28/10/2011, Rv. 251944).
A tali principi, come si è detto, si è puntualmente attenuta la corte territoriale, che ha ancorato la misura della liquidazione del danno morale determinata dal primo giudice nella misura di cinquemila euro, condividendola, a una pluralità di indici, rappresentati in particolare dalla intrinseca gravità delle offese arrecate al (omissis) e all'ampia diffusione delle stesse nella comunità locale (cfr. p. 12).
5. Alla dichiarazione di inammissibilità, segue la condanna del ricorrente, ai sensi dell'art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro 3000,00 a favore della cassa delle ammende, tenuto conto della circostanza che l'evidente inammissibilità dei motivi di impugnazione, non consente di ritenere quest'ultimo immune da colpa nella determinazione delle evidenziate ragioni di inammissibilità (cfr. Corte Costituzionale, n. 186 del 13.6.2000), nonché atta rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile, ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla corte di appello di Palermo con separato decreto di pagamento, ai sensi degli artt. 82 e 83, D.P.R. 115/2002, disponendo il pagamento in favore dello Stato.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. Condanna, inoltre, l'imputato, alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile, ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla corte di appello di Palermo con separato decreto di pagamento, ai sensi degli artt. 82 e 83, D.P.R. 115/2002, disponendo il pagamento in favore dello Stato.