Le Sezioni Unite chiariscono che le sanzioni disciplinari contenute nel Codice deontologico forense hanno natura amministrativa sicché, con riferimento alla disciplina della prescrizione, non trova applicazione lo “jus superveniens” ove più favorevole all'incolpato.
Il Consiglio Nazionale Forense accoglieva parzialmente il ricorso proposto dall'avvocato contro la decisione del CDD di Bologna, irrogando nei suoi confronti la sanzione dell'avvertimento in luogo della censura. Nello specifico, il procedimento disciplinare a carico della professionista era stato avviato poiché ella aveva assistito due coniugi in sede di divorzio per poi...
Svolgimento del processo
Il Consiglio Nazionale Forense (in seguito, C.N.F.), con sentenza n. 245/2021, depositata il 29/12/2021 e notificata il 31/1/2022, in accoglimento parziale del ricorso proposto dall’Avvocato A.P., avverso decisione del Consiglio Distrettuale di Disciplina di Bologna (in seguito, C.D.D.) n. 59/2017, depositata l’11/11/2017, notificata il 5/12/2017, ha irrogato al professionista la sanzione dell’avvertimento, anziché quella della censura.
Il procedimento disciplinare a carico dell’avvocato P., a seguito di due esposti del 2012 della signora M.R.P., veniva avviato, con delibera del 22/4/2016, dal C.D.D. sul seguente capo di incolpazione: «violazione degli artt.9,10,11 e 68 n. 4 del Nuovo Codice deontologico (art.51 del Codice deontologico previgente), in quanto, nonostante avesse assistito i coniugi M.R.P. e P.C. in sede di separazione consensuale e divorzio, ha accettato, in una successiva controversia di natura familiare, l’incarico professionale nell’interesse del sig. P.C. svolgendo attività difensionale in favore del medesimo nei confronti della ex moglie signora M.R.P.».
Dalla sentenza del C.N.F. risulta che, completata l’istruttoria, era emerso che l’avvocato P., dopo avere assistito i coniugi P. e C. nei giudizi di separazione e divorzio (quest’ultimo conclusosi nel 2009), a seguito di contrasti insorti tra gli ex coniugi in relazione al rispetto degli accordi raggiunti in sede di divorzio, aveva fornito al solo sig. C., che si era rivolto a lei (mentre la sig.ra P. si era munita di altro legale, l’Avv.to B.), non soltanto documentazione, ma una vera e propria assistenza tecnica, benché limitata alla fase stragiudiziale; ciò malgrado - come rilevato dal C.D.D. - l’obbligo di astensione, previsto, tanto dal previgente art.51 quanto dall’art.68 del nuovo Codice deontologico (con l’aggiunta dell’avverbio «sempre»), «per l’avvocato che abbia assistito congiuntamente i coniugi in controversie familiari, dal prestare assistenza ad uno dei due nelle controversie successive».
Il C.N.F., in relazione ai due motivi di impugnazione, con i quali si contestava, in via principale, la sussistenza di elementi di rilevanza disciplinare nella condotta del professionista (avendo la P. dedotto di essere intervenuta, in una corrispondenza con l’Avv.to B., al solo fine «di chiarire i conteggi posti a base delle richieste di pagamento, per favorire un accordo e per aiutare il sig. C., all’epoca affetto da gravi problemi di salute», senza utilizzazione di documenti o informazioni assunti in ragione del vecchio mandato), ha, preliminarmente, respinto l’eccezione di prescrizione, sollevata in udienza dal difensore costituito, «vista l’interruzione provocata dalla citazione a giudizio dell’incolpata», notificatale l’11/4/2017 (pag. 2 della sentenza). Nel merito, ha rilevato che la condotta addebitata aveva rilevanza disciplinare, ma tenue, «come peraltro valutato dal C.D.D.» nella decisione impugnata, atteso che «l’intervento dell’incolpata si era limitato alla fase stragiudiziale e non aveva provocato alcuna lesione degli interessi dell’esponente». Pertanto, considerato anche che la condotta risaliva ai primi mesi dell’anno 2012, nella vigenza del precedente Codice deontologico, con conseguente operatività del principio del favor rei, doveva applicarsi, in accoglimento della richiesta subordinata della ricorrente, la minore sanzione dell’avvertimento.
Avverso la suddetta pronuncia, l’avvocato A.P. propone ricorso per cassazione, notificato il 1° marzo 2022, affidato a quattro motivi, nei confronti del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bologna (che non ha svolto difese) e del P.G. presso la Corte di Cassazione.
La ricorrente ha presentato istanza di discussione orale.
Il PG ha depositato requisitoria scritta, concludendo per il rigetto del ricorso.
Motivi della decisione
1. La ricorrente lamenta: a) con il primo motivo, la motivazione apparente o omessa della decisione impugnata per non avere il C.N.F., pur ritenendo applicabile alla condotta addebitata alla ricorrente l’art.51, comma 2, del Codice deontologico forense vigente ratione temporis, anziché l’art.68, comma 4, del nuovo codice deontologico (come erroneamente ritenuto dal C.D.D.), svolto alcuna concreta disamina degli elementi documentali sui quali si era concretizzata la condotta contestata, vale a dire gli atti integranti attività difensiva stragiudiziale o, quantomeno, o assistenza tecnica da parte di essa avv. P., a favore del sig. C.; b) con il secondo motivo, l’erronea applicazione alla fattispecie dell’art.51 codice deontologico forense vigente ratione temporis, non essendo emerso dagli atti processuali alcun atto imputabile alla P. «volto a ravvisare la formalizzazione di una posizione conflittuale per conto del C. nei confronti della P.», avendo la stessa solo dato riscontro ad una comunicazione dell’avv. B., legale della P., al fine di chiarire le reciproche posizioni delle parti alla luce delle condizioni di carattere patrimoniale concordate in sede di divorzio consensuale; c) con il terzo motivo, l’omessa motivazione in relazione al rigetto della eccezione, formulata, in via subordinata, in sede di impugnazione, di prescrizione dell’azione disciplinare, formulata dalla difesa, per decorso del termine massimo di sette anni e mezzo dal fatto contestato, risalente al 2012; d) con il quarto motivo, l’erronea applicazione dell’art.56 della l.247/2012, in punto di prescrizione dell’azione disciplinare, per decorso del termine massimo di sette anni e mezzo dal fatto contestato, risalente al 2012, applicabile rispetto al termine quinquennale per effetto dell’atto interruttivo (citazione in giudizio dell’incolpata).
2. Queste Sezioni Unite sono ferme nel ritenere che le decisioni del Consiglio Nazionale Forense in materia disciplinare sono impugnabili dinanzi alle Sezioni Unite Corte di Cassazione, ai sensi del R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 56, comma 3, soltanto per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge, nonchè, ai sensi dell'art. 111 Cost., per vizio di motivazione, con la conseguenza che, salva l'ipotesi di sviamento di potere, in cui il potere disciplinare sia usato per un fine diverso rispetto a quello per il quale è stato conferito, l'accertamento del fatto e l'apprezzamento della sua gravità ai fini della concreta individuazione della condotta costituente illecito disciplinare e della valutazione dell'adeguatezza della sanzione irrogata non può essere oggetto del controllo di legittimità, se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza ( cfr. Cass., S.U., n. 20344/2018, Cass., S.U., n. 24647/2016).
3. Tanto premesso, le prime due censure sono infondate.
La ricorrente assume che la sentenza del C.N.F. avrebbe omesso di specificare, almeno sommariamente, le ragioni e l’iter logico della decisione, non essendo individuati gli elementi concretizzanti la violazione, sia pure tenue, della norma deontologica.
Ora, la sentenza impugnata, rinviando per relationem anche alla motivazione del C.D.D., ha confermato, sulla base della valutazione delle risultanze probatorie acquisite, il giudizio del Consiglio territoriale di disciplina circa il disvalore deontologico, sia pure tenue senza effettiva lesione di interessi, della condotta dell'incolpata: per avere costei tenuto, nello svolgimento della propria attività professionale, una condotta contraria al dovere di astensione, avendo, attraverso uno scambio di corrispondenza, offerto al proprio originario assistito, P.C., in virtù di una delega congiunta con il coniuge di questi, M.R.P., una sostanziale attività di assistenza stragiudiziale, nella fase esecutiva degli accordi raggiunti in precedenza.
Questa Corte a Sezioni Unite, con la sentenza n. 8057/2014, ha già chiarito che « ai fini della configurabilità dell'illecito di assunzione di incarichi contro una parte già assistita – nella specie si trattava dell’art.51 del precedente codice deontologico forese - , non importa stabilire se sussista o meno la prova del conferimento formale del mandato o dell'assolvimento di un'attività di consulenza, quanto piuttosto se l'avvocato abbia svolto un'attività di assistenza, anche soltanto formale».
La complessiva argomentazione in fatto posta a sostegno della decisione esclude, dunque, la ricorrenza del vizio denunciato, posto che, secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte (cfr., fra molte, Cass. n. 22232/2016), «la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perchè affetta da "error in procedendo", quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all'interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture».
Le critiche articolate dalla difesa della ricorrente, sotto l'apparente deduzione del vizio di violazione e falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, degradano in realtà verso l'inammissibile richiesta a questa Corte di una rivalutazione dei fatti storici da cui è originata l'azione e la condanna disciplinare (cfr. Cass., Sez. Un. n. 33373/2019).
Nel caso in esame, la sentenza impugnata risulta adeguatamente e ragionevolmente motivata tanto con riferimento alla sussunzione della condotta posta in essere nell’illecito disciplinare per il quale è stata riconosciuta la responsabilità, sia pure tenue, quanto con riguardo alla sanzione in concreto irrogata, l’avvertimento, con la conseguenza che la stessa rimane immune da censura.
4. Anche le restanti censure sono infondate.
Il C.N.F. ha respinto l’eccezione di prescrizione, sollevata in udienza dal difensore costituito (che deduceva, per quanto anche esposto in ricorso, essere trascorso il termine massimo di sette anni e mezzo dal fatto contestato, risalente all’anno 212), «vista l’interruzione provocata dalla citazione a giudizio dell’incolpata», notificatale l’11/4/2017 (pag. 2 della sentenza).
Anzitutto non è ravvisabile, per le ragioni esposte al precedente paragrafo, il vizio di motivazione apparente.
Peraltro, la ricorrente, che invoca l’applicazione dell’art.56 della legge 247/2012, si limita, del tutto genericamente, a dedurre che «il termine quinquennale a partire da ciascun atto interruttivo non sia facilmente coordinabile con la residua disciplina della prescrizione», senza quindi effettivamente confrontarsi con la decisione impugnata che ha dato rilievo all’interruzione del decorso del termine prescrizionale conseguente alla notifica alla stessa della citazione a giudizio, nell’aprile 2017.
In ogni caso, in punto di ritenuta operatività del regime giuridico della prescrizione introdotto dalla riforma forense del 2012, rispetto ad un fatto posto in essere nel 2012, la censura è infondata.
Questa Corte ha affermato che «in tema di illecito disciplinare degli avvocati, il regime più favorevole di prescrizione introdotto dall'art.56 della l. n. 247 del 2012, il quale prevede un termine massimo di prescrizione dell'azione disciplinare di sette anni e sei mesi, non trova applicazione con riguardo agli illeciti commessi prima della sua entrata in vigore; ciò in quanto le sanzioni disciplinari contenute nel codice deontologico forense hanno natura amministrativa sicché, per un verso, con riferimento alla disciplina della prescrizione, non trova applicazione lo "jus superveniens", ove più favorevole all'incolpato, restando limitata l'operatività del principio di retroattività della "lex mitior" alla fattispecie incriminatrice e alla pena, mentre, per altro verso, il momento di riferimento per l'individuazione del regime della prescrizione applicabile, nel caso di illecito punibile solo in sede disciplinare, rimane quello della commissione del fatto e non quello della incolpazione» (Cass. 20383/2021; Cass. 12902/2021; Cass. 23476/2020).
Quindi la disciplina risultante dall'art. 56 della I. 247/12 oggi vigente, comportante un termine massimo di sette anni e sei mesi oltre il quale l'azione disciplinare si prescrive, non opera retroattivamente, cioè con riguardo ad illeciti disciplinari realizzati prima della sua entrata in vigore (2 febbraio 2013). Nelle richiamate motivazioni si è chiarito, tra l’altro, che l’art.65 l.247/2012, nello stabilire che «le norme contenute nel codice deontologico si applicano anche ai procedimenti disciplinari in corso al momento della sua entrata in vigore, se piu` favorevoli per l'incolpato», esclude che possa darsi applicazione retroattiva piu` favorevole al regime della prescrizione, previsto per legge ed avente ad oggetto illeciti di natura amministrativa, e che il momento di riferimento per l'individuazione del regime della prescrizione dell'azione disciplinare da applicare, dunque, rimane (nel caso, qui ricorrente, di illecito punibile solo in sede disciplinare) quello della commissione del fatto, e non quello della incolpazione.
Era quindi applicabile il regime estintivo di cui all'art. 51 R.D. n. 1578 del 1933 (vigente nel 2012, anno di commissione dell'illecito), non gia` quello, seppure piu` favorevole, di cui all'art. 56 L.247/12 cit. (vigente al momento dell'incolpazione, nel 2016-2017) e il termine prescrizionale cosi` correttamente individuato (di cinque anni, pero` soggetto a varie interruzioni, tra cui quella per citazione a giudizio) non era spirato.
5. Per quanto sopra esposto, va respinto il ricorso.
Non v’è luogo a provvedere sulle spese processuali, non avendo l’intimato svolto attivita` difensiva.
P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso.
Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall'art. 1, comma 17, della I. n. 228 del 2012, da` atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello stabilito per il ricorso, se dovuto.