Al datore di lavoro è consentito un ampio esercizio dello ius variandi, fermo restando che il trasferimento dell'avvocato dall'ufficio legale ad altra direzione non deve determinare uno svuotamento pressoché integrale di competenze.
Svolgimento del processo
1. la controversia concerne il trasferimento dell'avv. (omissis) , dipendente del Comune di (omissis) , dalle funzioni di avvocato dell'ente a quelle di funzionario di altri servizi, dapprima presso la Direzione Urbanistica, poi presso la Direzione Patrimonio e infine in corso di giudizio alla Direzione Economico Finanziaria-Tributi, all'interno della medesima area D di inquadramento;
la Corte d'Appello di Lecce, sez. distaccata di Taranto, ha ritenuto, riformando la sentenza di primo grado del Tribunale di Taranto con cui la domanda era stata rigettata, che il profilo professionale dell'avvocato interno avesse preminenza su quello del generico dipendente pubblico e che dunque, stante l'evidente differenza esistente tra attività forense ed attività legale, oltre che per la diversità del ruolo di avvocato rispetto a quello di tutti gli altri funzionari, un siffatto trasferimento non potesse essere ritenuto comunque legittimo;
essa ha poi aggiunto che il trasferimento, per quanto non connotato da intenti vessatori, era anche privo di ragioni giustificatrici, in quanto le esigenze giuridico-legali dei diversi uffici di adibizione, in particolare presso la direzione urbanistico-edilizia erano infrequenti e di scarsa rilevanza, per concluderne che il comportamento datoriale era da ritenere caratterizzato da «illegittimità dovuta all'assegnazione a mansioni diverse da quelle di competenza che proprio in ragione della loro diversità hanno prodotto una depressione del bagaglio professionale del (omissis) »;
la Corte di merito ha quindi riconosciuto il diritto al risarcimento del danno per perdita di professionalità in misura del 50 % delle retribuzioni per il periodo fino al giugno 2014;
il Comune di (omissis) ha proposto ricorso per cassazione sulla base di tre motivi, poi illustrati da memoria e resistiti da controricorso del (omissis) contenente anche due motivi di ricorso incidentale;
Motivi della decisione
1. il primo motivo di ricorso afferma la violazione e falsa applicazione dell'art. 52 del d., lgs. 165/2001, nonché dell'art. 2103 c.c., richiamando i principi di fungibilità delle mansioni nell'ambito del pubblico impiego privatizzato ed il principio di Cass., S.U., 24 aprile 1990, n. 3455, secondo cui l'inserimento di un avvocato nell'ufficio legale di un ente pubblico, consentito dalla legge professionale, comporta la sottoposizione alla disciplina proprio del lavoro alle dipendenze della P.A., anche per quanto riguarda le mansioni del dipendente, sicché, è consentito al datore di lavoro l'assegnazione del dipendente a compiti che, pur non esplicandosi in atti di professione legale, siano inerenti al campo giuridico, salvaguardando il suo patrimonio professionale e rispettando la sua collocazione nell'ambito della gerarchia dell'ente;
2. il primo motivo del ricorso incidentale afferma invece la nullità della costituzione in giudizio del Comune di (omissis) nel procedimento di primo grado, con violazione e\o falsa applicazione degli artt. 182 e 291 c.p.c. in ragione della violazione e\o falsa applicazione dell'art. 22 dello Statuto del Comune di (omissis) ;
il ricorrente incidentale fa rilevare come, a norma dell'art. 22 dello
Statuto del Comune di (omissis) , co. 3, il Sindaco può esprimere
valutazioni di opportunità a promuovere o resistere alle liti nei giudizi che coinvolgono interessi generali dell'ente, mentre «in ogni altro procedimento la rappresentanza processuale dell'Ente è conferita al Dirigente pro tempore degli AA.LL, il quale, acquisito il parere del Dirigente della Direzione che ha curato l’attività amministrativa sfociata in controversia, provvede a sottoscrivere il mandato previa adozione degli atti amministrativi presupposti»;
su tale base normativa il (omissis) adduce che il Dirigente degli Affari Generali non avrebbe potuto, come ha fatto, rilasciare la procura alle liti per il giudizio di primo grado, che era dunque da considerare nulla, così come, conseguentemente, nulla era la costituzione in giudizio dell'ente;
la Corte d'Appello, rispetto a tale profilo, ha rilevato come, la Direzione Affari Legali fosse stata soppressa e fosse «confluita» nella Direzione Affari Generali e Istituzionali;
il (omissis) replica evidenziando come una modificazione statutaria potesse essere attuata solo dall'organo consiliare del Comune, ai sensi dell'art. 6, co. 4 e 42, co. 2 lett. a) del d. lgs. 267/2000, sicché non era possibile che con la soppressione della Direzione degli Affari Legali la competenza spettasse alla Direzione Affari Generali;
3. il suesposto motivo di ricorso incidentale è infondato;
la Corte territoriale muove da una considerazione di fatto, ovverosia l'essere la Direzione Affari Legali «confluita» nella Direzione Affari Generali, sulla quale il motivo incidentale non muove osservazione;
su tale premessa, è evidente che la confluenza di una Direzione in un'altra non può che avere l'effetto, in assenza di dati contrari che non risultano, di traslare nella seconda le competenze già del primo ufficio;
non vi è dunque ragione né per ritenere che l'attribuzione della competenza a decidere sulle liti non sia transitata in capo alla Direzione AA.GG., né che ciò abbia comportato una modifica statutaria, semplicemente determinandosi l'adeguamento della previsione all’evoluzione della titolarità di quei poteri manifestatisi all'interno dell'ente;
4. il primo motivo del ricorso principale è invece fondato;
oggetto del contendere è la legittimità delle nuove mansioni attribuite al ricorrente sotto il profilo del rispetto della professionalità dello stesso;
4.1 l'assunto della Corte territoriale secondo cui in casi come quello di specie «il profilo professionale dell'avvocato» avrebbe «preminenza su quello del dipendente pubblico» è incoerente con l'assetto consolidato della giurisprudenza di questa S.C., da cui non vi è ragione per discostarsi, secondo cui «qualora un avvocato o procuratore venga inserito nell'ufficio legale di un ente pubblico, con costituzione di rapporto di lavoro subordinato, come consentito dall'art. 3 quarto comma lett. b del R.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578 (convertito in legge 22 gennaio 1934 n. 36 e modificato dalla legge 23 novembre 1939 n. 1949), in deroga alla regola generale dell'incompatibilità della professione forense con impieghi retribuiti, la disciplina di tale rapporto trova prevalente applicazione, anche per quanto riguarda le disposizioni dettate dall'art. 2103 cod. civ. (nel testo introdotto dall'art. 13 della legge 20 maggio 1970 n. 300), in tema di mansioni del dipendente. Pertanto, mentre deve escludersi che a detto avvocato o procuratore possa essere affidato il mero disbrigo di pratiche amministrative, si deve ritenere consentito al datore di lavoro, nell'esercizio dello "ius variandi", di assegnarlo ad altri compiti, ove questi, pur non esplicandosi in atti di professione legale, siano inerenti al campo giuridico, salvaguardino il suo patrimonio professionale e rispettino la sua collocazione nell'ambito della gerarchia dell'ente»;
l'arresto risale già a Cass., S.U., 24 aprile 1990, n. 3455, ma esso è stato poi ripreso, in un contesto diverso, allorquando si è affermato che «una volta ammessa, per univoco dettato della legge e nei limiti da essa definiti, la possibilità dell'espletamento della professione forense nell'ambito di un rapporto di lavoro subordinato, è la disciplina giuridica di quest'ultimo - la quale può trovare la sua fonte nei regolamenti interni dell'ente e nella contrattazione collettiva - che stabilisce i rispettivi diritti ed obblighi delle parti. Sono dunque le regole del rapporto di lavoro subordinato, che vincola il professionista all'ente datore di lavoro, quelle che necessariamente connotano un'attività svolta in tale regime, e ciò con le relative garanzie per il prestatore» (Cass. 29 marzo 2007, n. 7731);
4.2 è ben vero che le pronunce hanno riguardato vicende proprie di un ente economico, la prima, e di una s.p.a. di gestione di trasporti pubblici, la seconda, ma non vi è ragione per non applicare i medesimi principi in ambito di lavoro pubblico privatizzato presso enti pubblici non economici, rispetto ai quali, anzi, l'art. 52 d. lgs. 165/2001 e la regola di equivalenza formale da esso espressa (Cass. 16 luglio 2018, n. 18817; Cass. 26 marzo 2014, n. 7106; Cass. 5 agosto 2010, n. 18283), segna ancor di più un allontanamento da un assetto incline al mantenimento della professionalità nella sua manifestazione concreta, valorizzando, a tutela della massima flessibilità dell'impiego pubblico ed a favore dell'efficienza della P.A., la sola equiparazione formale, con una più tangibile liberalizzazione dello ius variandi, tra l'altro in un ambito in cui la contrattazione collettiva afferma che «tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria, in quanto professionalmente equivalenti, sono esigibili» (art. 3 C.C.N.L. 31.3.1999);
4.3 d'altra parte, i richiami del controricorrente al Regolamento interno
ed al CCNL fanno riferimento ai connotati di autonomia e di prerogative economiche degli addetti all'Avvocatura degli Enti ma non interferiscono con lo ius variandi datoriale;
analogamente, il fatto che l'art. 23 dell'Ordinamento Professionale Forense, di cui alla L. 247/2012, affermi che «è garantita l'autonomia e l'indipendenza di giudizio intellettuale e tecnica dell'avvocato», sta a delineare il regime di svolgimento della prestazione forense, fino a quando l'esercizio di essa perduri, ma non può avere rilievo, a meno di spostamenti ritorsivi di cui non è qui menzione, rispetto all'esercizio della facoltà datoriale di mutare le mansioni da assegnare;
4.4 inoltre, l'esercizio dello ius variandi, sotto il profilo delle diverse mansioni attribuite, appartiene ad un'ampia discrezionalità del datore di lavoro pubblico, insuscettibile, una volta rispettoso delle regole di esercizio e quindi della classificazione riveniente dalla contrattazione collettiva, di controllo nel merito della scelta assunta;
analogamente inadeguato, a fronte di concrete regole di disciplina di tale facoltà datoriale, è il richiamo a profili integrativi di buona fede da cui non può dipendere - tanto più in un contesto in cui si sono esclusi intenti vessatori - la valutazione di legittimità del comportamento datoriale;
non può dunque avallarsi l'assunto della Corte territoriale secondo cui a fondare l'illegittimità del comportamento starebbe l'insussistenza delle ragioni addotte dall'ente in ordine all'implementazione dell'organico della Direzione Urbanistica con competenze giuridiche, per il fatto che le esigenze di natura legale erano infrequenti e di qualità non particolarmente significativa, perché ciò attinge al merito della scelta datoriale - la cui inopportunità non crea certo diritti risarcitori in capo al dipendente - e non alla sua legittimità;
il ragionamento da svolgere è semmai un altro, e consiste nel valutare se i compiti ivi attribuiti, quali effettivamente svolti dal ricorrente, abbiano costituito, per quantità e qualità concreta, uno svuotamento totale di mansioni, quest'ultimo mai legittimo, ma da apprezzare in concreto, senza che valga la distinzione operata dalla Corte di merito tra attività forense ed attività legale e valutando non profili di astratta coerenza tra ragioni del trasferimento ed esigenze degli uffici, quanto il verificarsi o meno di una effettiva e dimensionalmente significativa deprivazione professionale (Cass. 8 aprile 2022, n. 11499; Cass. 21 maggio 1999, n. 11835);
5. tutto ciò consente anche di delineare il seguente principio: «qualora un avvocato o procuratore venga inserito nell'ufficio legale di un ente pubblico non economico, con costituzione di rapporto di lavoro subordinato, come consentito dall'art. 3 quarto comma lett. b del R.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578 (convertito in legge 22 gennaio 1934 n. 36 e modificato dalla legge 23 novembre 1939 n. 1949), in deroga alla regola generale dell'incompatibilità della professione forense con impieghi retribuiti, la disciplina di tale rapporto trova prevalente applicazione, anche per quanto riguarda le disposizioni dell'art. 52 d. lgs. 165/2001, sicché si deve ritenere consentito al datore di lavoro, nel rispetto delle classificazioni e delle altre eventuali regole di cui alla contrattazione collettiva, un ampio esercizio dello ius variandi e quindi di assegnazione ad altri compiti, nei limiti in cui, in concreto, così operando non si realizzi una sottrazione pressoché integrale delle funzioni da svolgere, vietata anche nell'ambito del pubblico impiego o un intenzionale comportamento vessatorio, causativo di danni»;
6. l'argomentare rende infine evidente l'infondatezza delle eccezioni di inammissibilità formulate con il controricorso;
non può infatti dirsi che le critiche mosse contengano profili nuovi, muovendosi esse sulla base della censura all'assunto sull'intangibilità delle mansioni di avvocato svolta dalla Corte territoriale;
neppure può dirsi che il motivo si addentri in una critica ad apprezzamenti fattuali decisivi operati dalla Corte d'Appello, in quanto, come si è detto, il controllo svolto nella sentenza di appello del rapporto tra motivazione addotta dal datore di lavoro e mansioni da svolgere presso gli uffici di destinazione è da ritenere giuridicamente non corretto, in quanto l'operazione da svolgere è altra e consiste nella verifica in concreto sul verificarsi di un pressoché integrale svuotamento di mansioni;
7. ciò comporta l'accoglimento del motivo ed il rinvio alla medesima Corte d'Appello, in diversa composizione, la quale dovrà riesaminare il merito e quindi, escluso che di per sé la perdita delle funzioni defensionali e/o giudiziali sia in sé decisiva, valutare se su altre basi il legale, inquadrato in categoria D, abbia subito o meno, per effetto delle nuove attribuzioni presso altri uffici, uno svuotamento di mansioni, con lesione giuridicamente indebita alla professionalità;
ne restano assorbiti sia i restanti motivi del ricorso principale (riguardanti il quantum e le spese) e del ricorso incidentale (riguardanti anch'essi il riconoscimento e la liquidazione del danno);
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo del ricorso principale e rigetta il primo motivo del ricorso incidentale, assorbiti tutti gli altri motivi, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia