La Cassazione afferma che la sussistenza di un contratto simulato non può fondarsi solo sulla mancata denuncia del rapporto di lavoro al centro per l'impiego.
La Corte d'Appello di Milano confermava la pronuncia del GIP con la quale l'imputato era stato ritenuto responsabile del delitto di cui all'
Svolgimento del processo
1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte d'appello di Milano confermava quella del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Lecco appellata dall'imputato A.R.P..
P. è imputato del delitto di cui all'art. 22, comma 12, d. lgs. 286 del 1998 per avere occupato alle dipendenze della P.A.G. s.r.l., di cui era legale rappresentante, un lavoratore straniero privo del permesso di soggiorno. L'imputazione faceva menzione anche di un secondo lavoratore straniero, ma il Giudice di primo grado aveva assolto l'imputato per insussistenza del fatto, essendo emerso che si trattava di dipendente di altra società.
La Corte territoriale rigettava il motivo di appello con cui la difesa denunciava la mancata lettura della sentenza di primo grado (motivo non riproposto); riteneva che, contrariamente a quanto sostenuto dall'appellante, B. fosse stato assunto come lavoratore subordinato fin dal mese di settembre 2019 e non a partire dal luglio 2020, dopo avere acquisito la cittadinanza italiana. L'attività lavorativa si svolgeva presso i locali aziendali, il dipendente utilizzava strumenti di proprietà del datore di lavoro e rispondeva a ordini e disposizioni dello stesso, mentre il lavoratore non aveva una propria attività imprenditoriale. Tre dipendenti della P.A.G. s.r.l. avevano riferito dell'attività lavorativa di B. e anche le dichiarazioni rese dal ·lavoratori agli ispettori del lavoro confermavano il rapporto di subordinazione, nonostante lo stesso fosse pagato con ritenuta d'acconto.
L'imputato conosceva la condizione di B. - cittadino straniero privo di permesso di soggiorno - e proprio per questo motivo aveva omesso di stipulare un rapporto di lavoro subordinato e di presentare le relative richieste e documentazioni al centro per l'impiego competente.
La Corte rigettava anche il motivo di appello con cui veniva chiesta la rideterminazione della pena e la concessione delle attenuanti generiche.
2. Ricorrono per cassazione i difensori di A.R.P., deducendo violazione dell'art. 2094 cod. civ.
La Corte territoriale, per ritenere sussistente un rapporto di lavoro subordinato, aveva indicato degli indici "sussidiari", di per sé non bastevoli per la definizione del rapporto. La Corte avrebbe dovuto soffermarsi su due caratteri tipici del rapporto di lavoro subordinato: l'eterodirezione e la dipendenza; per esservi subordinazione occorre che la prestazione lavorativa sia svolta in un contesto organizzativo/produttivo altrui e in vista di un risultato di cui il titolare dell'organizzazione è immediatamente legittimato ad appropriarsi. Si tratta di caratteristiche che devono sussistere congiuntamente. La mancata valutazione di questi elementi fondamentali rendeva la condanna emessa in presenza di un ragionevole dubbio sulla colpevolezza, atteso che la difesa aveva prospettato una tesi la cui plausibilità non era stata esclusa dalla motivazione.
In un secondo motivo il ricorrente deduce manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla valutazione delle risultanze processuali.
Era stato documentato dalla difesa che B., giunto in Italia il (omissis), sarebbe dovuto partire per la Spagna il (omissis) ma era rimasto bloccato per l'emergenza COVID per tutto il mese di aprile; egli alloggiava momentaneamente presso i locali dell'azienda in mancanza di alloggio alternativo, con la sua fidanzata. Usava il proprio personal computer.
La Corte territoriale non aveva tenuto conto che B., in precedenza, era partito dall'Italia nel mese di dicembre 2019, ritornando in Italia solo nel febbraio 2020, proseguendo, in questo periodo, il rapporto di collaborazione con l'impresa dell'imputato, usando mezzi propri e una propria organizzazione aziendale.
Non vi era, inoltre, alcuna regolarità nella retribuzione, avendo emesso B. quattro fatture a fronte di otto mesi di lavoro. Non si era affatto di fronte a lavoro subordinato camuffato.
In un terzo motivo il ricorrente deduce analogo vizio con riferimento all'elemento soggettivo del reato.
Il dolo richiesto dalla norma incriminatrice non esiste né in presenza di errore sul fatto, né in presenza di errore di diritto che ricade sul fatto: per ritenere sussistente l'elemento soggettivo, era necessario verificare se in capo all'imputato sussistesse la volontà e la rappresentazione di costituire un rapporto di lavoro di tipo subordinato. Si deve tenere presente, d'altro canto, che in sede civilistica i giudici del lavoro definiscono la natura del rapporto ex post: ma ciò non è consentito in sede penale.
Il giudice penale deve accertare quale rapporto di lavoro sia voluto dalle parti e, eventualmente, l'esistenza di un contratto simulato. Inoltre, avrebbe dovuto essere provata la conoscenza da parte del datore di lavoro della mancanza del permesso di soggiorno del dipendente.
Il ricorrente censura la motivazione sul punto, osservando che la mancata denuncia del rapporto di lavoro al centro per l'impiego non prova affatto l'esistenza di un contratto simulato.
Viene menzionata anche la normativa emergenziale che prorogava i permessi di soggiorno rilasciati in quel periodo e che poteva avere fatto sorgere dubbi sulla consapevolezza da parte di P. della posizione irregolare del lavoratore in Italia. Un errore colposo comporterebbe l'esclusione del dolo.
In un quarto motivo il ricorrente deduce mancanza di motivazione sugli atti contenuti nel fascicolo processuale specificamente indicati nei motivi di gravame.
La difesa aveva dimostrato che B. aveva chiesto la cittadinanza italiana il (omissis) e ciò faceva venire meno l'irregolarità della sua posizione sul territorio nazionale.
La Corte territoriale aveva omesso ogni valutazione sul documento.
In un quinto motivo il ricorrente deduce vizio di motivazione con riferimento alla misura della pena e al diniego delle attenuanti generiche.
3. Il Sostituto Procuratore generale, S.P., nella requisitoria scritta conclude per il rigetto del ricorso.
4. Il difensore del ricorrente ha depositato memoria di replica alla requisitoria del Procuratore generale.
Motivi della decisione
Il ricorso è fondato e impone l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata.
1. Il terzo motivo di ricorso, relativo alla sussistenza dell'elemento soggettivo del reato, appare fondato.
L'art. 22, comma 12, d. lgs. 286 del 1998 contempla un delitto e richiede, quindi, il dolo (come è noto, fino al 2008 il reato aveva, invece, la natura di contravvenzione): richiede, quindi la coscienza e volontà di instaurare un rapporto di lavoro subordinato con un soggetto che si conosce essere privo del permesso di soggiorno.
Ne consegue che, se le parti hanno concluso un accordo di collaborazione e consulenza, la norma richiede la prova che tale accordo sia simulato e nasconda consapevolmente un rapporto di lavoro subordinato; che, quindi, le fatture emesse dal collaboratore siano, in realtà, "buste paga", ovvero che le somme in esse indicate non corrispondano alla retribuzione effettivamente corrisposta "in nero" sulla base di criteri differenti.
Ebbene: proprio con riferimento all'elemento soggettivo del reato, non convince la motivazione della sentenza impugnata che richiama la giurisprudenza lavoristica per qualificare il rapporto intercorso come subordinato: in effetti, il fatto che B. avrebbe potuto far valere davanti al giudice del lavoro una posizione di lavoratore subordinato, così da ottenere i relativi vantaggi, non è un dato sufficiente per affermare che le parti avessero concluso un accordo simulato, che voleva nascondere un diverso rapporto.
Inoltre il ragionamento della sentenza in punto di elemento soggettivo del reato appare "circolare": per provare la consapevolezza della natura del rapporto di lavoro e della irregolarità della presenza del lavoratore sul territorio dello Stato, la Corte osserva che la stessa si desume dalla mancata denuncia al centro per l'impiego ("Tali obblighi non sono stati adempiuti proprio alla luce del fatto che l'imputato ha intenzionalmente omesso di stipulare con B. un contratto di lavoro subordinato, nonostante la sussistenza del vincolo di subordinazione. Pertanto, l'elemento soggettivo deve ritenersi provato").
In realtà, la mancata denuncia al centro per l'impiego può essere invece la conseguenza della convinzione che il rapporto di lavoro non fosse di carattere subordinato e che la presenza di B. in Italia fosse regolare.
2. La motivazione, inoltre, non sembra valutare alcune circostanze di fatto che - tenuto conto della brevità del rapporto intercorso tra la società dell'imputato e B. - sembrano significative e, comunque, avrebbero dovuto essere approfondite.
In primo luogo, la sentenza dà per provato che B. fosse pagato "ogni mese" (come dallo stesso dichiarato agli Ispettori del lavoro): ma le fatture emesse da B. sono quattro a fronte di otto mesi di lavoro (tutte saldate con bonifico bancario).
In secondo luogo, non sembra irrilevante la valutazione dell'assenza di B. dall'Italia per più di un mese (12/12/2019 -27/1/2020), periodo durante il quale lo stesso aveva continuato a lavorare per la società dell'imputato: periodo sicuramente anomalo per un rapporto di lavoro dipendente (e non menzionato, ad esempio, dalla dipendente R., secondo cui B. lavorava al suo fianco da circa sei mesi tutti i giorni).
Sempre restando al tema della permanenza in Italia, non è stata valutata la prospettazione difensiva secondo cui B., quando era tornato in Italia, aveva già progettato la nuova partenza per la Spagna, resa impossibile dal dilagare del COVID.
Con riferimento, poi, alla conoscenza da parte dell'imputato della mancanza del permesso di soggiorno di B., la Corte sembra non avere affrontato il tema della permanenza obbligata in Italia, che poteva farla ritenere legittima, nonché la circostanza che, nel marzo del 2020, B. aveva chiesto la cittadinanza italiana.
3. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata con rinvio alla Corte di appello di Milano per un nuovo giudizio che approfondirà gli aspetti fin qui esposti. I restanti motivi restano assorbiti.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello di Milano.