Nel caso di specie, l'avvocato era stato condannato per non aver restituito le somme fiduciariamente depositate presso di lui.
Il CNF irrogava ad un avvocato la sanzione disciplinare della sospensione per tre anni dall'esercizio della professione forense per essersi appropriato indebitamente di somme presso di lui fiduciariamente depositate da una società francese alla quale, tramite false informazioni pubblicate su internet, il professionista aveva...
Svolgimento del processo
Con la sentenza impugnata il Consiglio Nazionale Forense (di seguito anche CNF) rigettava il ricorso dell'avv. P.R. avverso la decisione dell'11 maggio-27 giugno 2018 del Consiglio distrettuale di disciplina (di seguito anche CDD) di Roma, che, accertata la sussistenza degli addebiti ascritti al R., gli irrogava la sanzione disciplinare della sospensione per anni tre dall'esercizio della professione forense.
L'avv. R. era incolpato:
A) della violazione dell’art. 9, comma 2, CDF, per aver omesso ai propri doveri di probità, dignità e decoro nella salvaguardia della propria reputazione e dell'immagine della professione forense in relazione alla vicenda originante un processo penale pendente avanti al Tribunale di Roma;
B) della violazione dell’art. 10, CDF, per infedele adempimento del mandato in danno della parte assistita per assicurarsi un proprio ingiusto profitto;
C) della violazione degli artt. 17, 35, CDF, per aver fornito informazioni non veritiere sulla propria attività professionale attraverso internet ed altre modalità di contatto, ingenerando in una società di diritto francese (S.M.L.) aspettative false sulla possibilità di ricevere finanziamenti, così inducendola ad anticipargli ingenti somme;
D) della violazione dell’art. 30, CDF, perché tratteneva le somme (euro 200.000) di cui al capo C).
Condotte consumate in data antecedente e prossima al 12 agosto 2013.
Il CNF osservava in particolare:
-che era da considerarsi legittimo l'utilizzo delle prove penali da parte del CDD, il quale comunque aveva deciso in modo del tutto autonomo;
-che dovevano considerarsi accertati i fatti contestati all'incolpato (in particolare: appropriazione indebita di somme presso di lui fiduciariamente depositate dalla società francese S.M.L. in vista della concessione di un mutuo da parte di C.I.F. e relative fattispecie disciplinari), fatti che erano stati peraltro oggetto di procedimento penale (truffa aggravata), esitato in primo grado con la condanna del R. (mesi nove di reclusione ed euro 300 di multa);
-che non aveva rilievo procedurale che, per una mera imprecisione terminologica, tali fatti venissero riferiti quale "parte assistita" al legale rappresentante della S.M.L. (S.K.), mentre si trattava della persona offesa, essendosi il R. difeso "in concreto" rispetto al profilo materiale delle accuse disciplinari ossia appunto l'accertata appropriazione indebita di detta somma;
-che pertanto le doglianze di merito del ricorrente erano infondate, così come quella in relazione all'entità della sanzione irrogatagli, accertandone la conformità alle previsioni normative e la congruità in relazione alla personalità del ricorrente medesimo (plurimi, specifici, precedenti penali).
Avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione avanti a queste Sezioni Unite il R. deducendo un motivo unico.
Resiste con controricorso l'Ordine degli avvocati di Roma.
Motivi della decisione
Con l’unico motivo dedotto –ex art. 360, primo comma, nn. 3-5, cod. proc. civ.- il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 56, legge 31 dicembre 2012, n. 247 e l'omessa motivazione (recte, omesso esame) dell'eccezione di prescrizione che afferma di avere proposto all'udienza del 18 novembre 2021 avanti al CNF.
La censura è infondata.
Va rilevato in fatto che la condotta ascritta al R. è del 13 agosto 2013 e che il termine prescrizionale è stato interrotto più volte (comunicazione dell'illecito, notifica della decisione di primo grado, notifica della sentenza del CNF); il procedimento disciplinare è stato altresì sospeso per l'acquisizione degli atti penali.
L'art. 56, legge 247/2012, sicuramente applicabile ratione temporis, prevede che «1. L'azione disciplinare si prescrive nel termine di sei anni dal fatto. 2. Nel caso di condanna penale per reato non colposo, la prescrizione per la riapertura del giudizio disciplinare, ai sensi dell'articolo 55, è di due anni dal passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna. 3. Il termine della prescrizione è interrotto con la comunicazione all'iscritto della notizia dell'illecito. Il termine è interrotto anche dalla notifica della decisione del consiglio distrettuale di disciplina e della sentenza pronunciata dal CNF su ricorso. Da ogni interruzione decorre un nuovo termine della durata di cinque anni. Se gli atti interruttivi sono più di uno, la prescrizione decorre dall'ultimo di essi, ma in nessun caso il termine stabilito nel comma 1 può essere prolungato di oltre un quarto. Non si computa il tempo delle eventuali sospensioni».
Il ricorrente afferma che, pur considerati detti atti interruttivi ed il periodo di sospensione del procedimento disciplinare, la prescrizione degli illeciti contestatigli è intervenuta il 12 giugno 2021, per decorso del termine massimo previsto dalla citata disposizione legislativa; che pertanto, anche senza voler considerare l'omissione di motivazione sul punto nella decisione impugnata (recte, omissione di pronuncia), quando la stessa è stata assunta (18 novembre 2021) l'eccepita prescrizione era dunque da tempo maturata.
Per valutare la fondatezza dell'eccezione de qua risulta pregiudiziale sancire se nel caso in esame si tratta di un illecito istantaneo ovvero permanente, ma bisogna farlo a partire dalla considerazione -ontologica- che le fattispecie contestate hanno natura disciplinare, non penale, ancorchè in parte sussumibili (e concretamente sussunte) in norme incriminatrici penali.
Le condotte in esame infatti si inseriscono all'interno di un rapporto contrattuale professionale, soggetto, per il professionista, alle norme di deontologia forense. Non si possono pertanto evocare sic et simpliciter le ben note categorie penalistiche inerenti le fattispecie delittuose "parallele" (truffa/appropriazione indebita), che sicuramente integrano reati istantanei, non permanenti (giurisprudenza di legittimità consolidata: da ultimo, rispettivamente Cass. pen., Sez. 2, n. 17322 del 18/01/2019; Sez. 2, n. 15735 del 14/02/2020), mentre va affermata la natura permanente di quelle disciplinari in oggetto.
Vi è in tal senso da considerare che il principale illecito disciplinare contestato, che poi è base e sostanza degli altri, in concorso formale, consiste nell'impossessamento/trattenimento ingiustificati della somma che l'avvocato ha ricevuto in nome e per conto del cliente francese. Tale condotta non si esaurisce nella semplice percezione della somma, ma ricomprende il comportamento, protrattosi nel tempo, consistente nell'avere l'avvocato mantenuto nella propria disponibilità un importo che, invece, avrebbe dovuto essere immediatamente ri-consensegnato al cliente.
L'avv. R. ha così violato l'art. 41 del Codice deontologico forense applicabile ratione temporis, che prevede nella gestione di denaro altrui «L’avvocato deve comportarsi con puntualità e diligenza nella gestione del denaro ricevuto dal proprio assistito o da terzi per determinati affari ovvero ricevuto per conto della parte assistita, ed ha l’obbligo di renderne sollecitamente conto. Costituisce infrazione disciplinare trattenere oltre il tempo strettamente necessario le somme ricevute per conto della parte assistita. In caso di deposito fiduciario l’avvocato è obbligato a richiedere istruzioni scritte e ad attenervisi», derivandone un vulnus gravissimo al rapporto fiduciario, certamente permanente per tutta la sua durata, ma anche oltre.
E' infatti pacifico che, ad esempio, nel caso di revoca del mandato da parte del cliente, ci sono degli obblighi -sicuramente "ultrattivi"- che l’avvocato deve rispettare a tutela del rapporto instaurato, quali ad esempio l’obbligo di conservare e di mettere a disposizione i documenti ricevuti (v. art. 42, Codice deontologico forense applicabile ratione temporis).
Non è quindi dubbio che tra tali obblighi deve includersi quello della restituzione di somme, pur artatamente ricevute, ed è altresì del tutto pacifico che tali somme non sono mai state restituite dal R. alla parte assistita, avendone questa fatto richiesta, scoperta la truffa, peraltro callidamente consumata, anche, con la falsificazione della firma del legale rappresentante della medesima società assistita, al fine di portare a consumazione l'illecito de quo mediante lo svincolo del deposito fiduciario delle somme stesse.
Né può per altro verso aversi dubbio circa il fatto che S.M.L. deve sicuramente considerarsi "parte assistita" del ricorrente, essendo la causa accipendi della somma in questione chiaramente quella di effettuare le pratiche occorrenti ad ottenere un finanziamento, peraltro mai erogato, dalla società del L.C.F..
Ciò posto, queste Sezioni Unite si sono già espresse sul punto decisionale in esame in precedenti -del tutto analoghe- occasioni, nel senso che «La condotta del legale che omette di restituire al cliente la somma versatagli in deposito fiduciario configura un illecito permanente, in relazione al quale il momento in cui cessa la permanenza coincide con quello dell'indebita appropriazione e cioè con il momento in cui il professionista, sollecitato alla restituzione, nega il diritto del cliente sulla somma affermando il proprio diritto di trattenerla, a cui è equiparabile la negazione di averla ricevuta, sicché è da tale momento che inizia a decorrere il termine di prescrizione dell'illecito, in applicazione analogica dell'art. 158 c.p.» (Cass. n. 14233 del 2020); «l'avvocato che si appropri dell'importo dell'assegno emesso a favore del proprio assistito dalla controparte soccombente in un giudizio civile, omettendo di informare il cliente dell'esito del processo che lo aveva visto vittorioso e di restituirgli le somme di sua pertinenza, pone in essere una condotta connotata dalla continuità della violazione deontologica, destinata a protrarsi fino alla messa a disposizione del cliente delle somme di sua spettanza» (Cass. Sez. U. 21 febbraio 2019, n. 5200); «l'avvocato che prometta al proprio assistito la consegna delle somme riscosse per suo conto senza provvedervi immediatamente contravviene all'art. 44, ultimo comma, del codice deontologico forense vigente ratione temporis, ponendo in essere una condotta connotata dalla ridetta continuità della violazione deontologica» (Cass. Sez. U. 30 giugno 2016, n. 13379).
Tuttavia -in difetto della restituzione della somma decettivamente acquisita- vi è da individuare un "limite alternativo" alla "permanenza" dell'illecito disciplinare in esame ossia un momento dal quale il termine prescrizionale inizia a decorrere, giacchè altrimenti ne deriverebbe una -irragionevole, non prevista dalla legge - imprescrittibilità dell'illecito stesso.
In analogia alla consolidata giurisprudenza penale di legittimità (ex pluribus, Cass. pen, n. 32220 del 2015) e come peraltro già affermato da queste Sezioni Unite civili (cfr. Sez. U, 5200/2019, cit.), tale dies a quo deve essere individuato nella decisione disciplinare di primo grado (Consiglio Distrettuale di Disciplina, 11 maggio 2018) ed è dunque evidente che tuttora non è spirato il termine prescrizionale massimo previsto dall'art. 56, comma 3, legge 247/2012.
In conclusione il ricorso va rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 7.000 per onorari, euro 200 per esborsi oltre al 15% per spese generali ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.