Risposta affermativa dalla Cassazione, la quale considera il diritto al lavoro come una manifestazione della personalità dell'individuo e pertanto riconducibile alla nozione di libertà prevista dalla norma.
La Corte d'Appello confermava la sentenza con cui il Tribunale di Firenze aveva dichiarato l'imputata responsabile di falsa testimonianza, in relazione a dichiarazioni rese in veste di testimone nell'ambito di una causa di lavoro promossa da un terzo per l'annullamento del licenziamento intimatole da datore di lavoro.
In particolare, la...
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 18/10/2021 la Corte di appello di Firenze ha confermato quella del Tribunale di Firenze in data 14/11/2017, con cui V.B. è stata riconosciuta colpevole del delitto di cui all'art. 372 cod. pen., in relazione a dichiarazioni rese in veste di testimone nell'ambito della causa di lavoro promossa da F.S. per l'annullamento del licenziamento intimatole da V.O..
2. Ha proposto ricorso B. tramite il suo difensore.
2.1. Con il primo motivo denuncia violazione di legge in relazione all'art. 384 cod. pen.
La Corte aveva escluso l'applicabilità di tale norma, rilevando che la ricorrente se avesse dichiarato il vero non avrebbe rischiato un danno nella libertà o nell'onore, ma avrebbe subito conseguenze cli tipo economico inerenti alla fine del rapporto lavorativo con V..
A fronte di ciò la ricorrente, anche richiamando un orientamento giurisprudenziale, segnala che la norma contempla una causa di inesigibilità in presenza di situazioni di conflitto e che nel caso di specie veniva in rilievo il diritto alla conservazione del lavoro, correlato all'esercizio della propria libertà, quale strumento di crescita della personalità individuale anche nei suoi aspetti di integrazione e interrelazione sociale.
Inoltre, non vi era dubbio che il pericolo fosse concreto in ragione di quanto osservato dallo stesso giudice del lavoro, che aveva sottolineato l'elevato rischio di risoluzione del contratto di franchising, che V. non aveva disposto dopo che la ricorrente aveva restituito somme indebitamente acquisite e tuttavia spostato su altri il peso della responsabilità, profilo alla base delle dichiarazioni ritenute false.
2.2. Con il secondo motivo denuncia violazione di legge in relazione al trattamento sanzionatorio e al diniego delle attenuanti generiche.
La Corte aveva valorizzato i precedenti e la mancanza di iniziative intraprese
per risarcire il danno, ma non aveva tenuto conto della capacità a delinquere alla luce della contemporanea e susseguente a fronte della situazione nella quale la ricorrente si era trovata, costretta a scegliere tra il proprio lavoro e la verità così da salvare il lavoro ad un'altra persona.
3. Il Procuratore generale ha inviato requisitoria concludendo per il rigetto del ricorso.
4. Il ricorso è stato trattato senza l'intervento delle parti, ai sensi dell'art. 23, commi 8 e 9, d.l. n. 137 del 2020, la cui operatività è stata successivamente prorogata.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è fondato.
2. I Giudici di merito hanno nitidamente ricostruito la vicenda, rilevando che la testimonianza resa dalla ricorrente e oggetto di addebito in questa sede, fu resa nell'ambito di una causa di lavoro, originata dall'impugnazione del licenziamento intimato da Vodafone-Omnitel ad una funzionaria commerciale di zona, a seguito della scoperta di pratiche commerciali anomale presso il punto vendita gestito dalla ricorrente e di una lettera in cui costei aveva imputato tali pratiche ad un suggerimento fornito proprio da quella funzionaria: in particolare dinanzi al giudice del lavoro V.B. aveva sostanzialmente confermato l'invio e il tenore di quella lettera, in tal modo suffragando le accuse, in essa contenute, nei confronti di F.S., accuse, tuttavia, reputate poi false e inattendibili.
Come correttamente posto in evidenza nel motivo di ricorso, sia il giudice del lavoro sia la Corte territoriale nella sentenza impugnata avevano sottolineato come il comportamento tenuto dalla ricorrente, che aveva restituito la somma frutto delle anomale pratiche commerciali e spostato su altri il peso della responsabilità, fosse stato benevolmente valutato da V., che non aveva proceduto alla risoluzione del rapporto con la rivenditrice, che, come in altre analoghe occasioni, sarebbe altrimenti sicuramente intervenuta.
3. Orbene, posto che nel caso in esame non viene in rilievo un'accusa di calunnia, bensì di falsa testimonianza, deve stabilirsi se sia o meno applicabile il disposto dell'art. 384, comma primo cod. pen., invocato dalla ricorrente.
Tale norma prevede che con riferimento a taluni reati contro l'amministrazione della giustizia, tra i quali il delitto di falsa testimonianza di cui all'art. 372 cod. pen., non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell'onore.
E' ormai prevalso al riguardo l'orientamento che esclude la configurabilità di una causa di giustificazione, legata a situazioni nelle quali l'ordinamento non ravvisa l'antigiuridicità della condotta, essendosi sottolineato che viene in rilievo la particolare situazione emotiva vissuta dal soggetto, tale da rendere inesigibile l'osservanza del precetto penale, e dunque un'alterazione della motivabilità della condotta: di qui la conclusione, che, in fo1·za del principio di inesigibilità sia ravvisabile una scusante soggettiva, operante quale causa di esclusione della colpevolezza (si rinvia all'ampia analisi dedicé1ta al tema da Sez. U. n. 10381 del 26/11/2020, Fialova, Rv. 280574, con richiami all'antecedente costituito da Sez. U. n. 7208 del 29/11/2007, dep. 2008, Genovese, non massimata sul punto, e ad altri precedenti, tra i quali Sez. 6, n. 34777 del 23/09/2020, Nitti, Rv. 280148).
Proprio in ragione della non riconducibilità della scusante, quale causa di esclusione della colpevolezza, al novero delle cause di giustificazione in generale e dello stato di necessità in particolare, l'applicabilità della stessa non è esclusa allorché la situazione di pericolo sia stata cagionata dallo stesso soggetto agente (Sez. 6, n. 15327 del 14/02/2019, Quaranta, Rv. 275320; Sez. 6, n. 51910 del 29/11/2019, Buonaiuto, Rv. 278062).
4. Ciò posto, si rileva che la Corte territoriale ha ritenuto di non poter applicare la scusante invocata, rilevando che veniva semmai in rilievo un danno economico e non un nocumento alla libertà e all'onore.
Ma proprio con riferimento a tale profilo risulta fondata la censura difensiva.
Va rimarcato come tanto la libertà quanto l'onore vadano correlate non tanto ad un pregiudizio soggettivamente avvertito, bensì ad un pericolo di nocumento oggettivamente apprezzabile: si tratta in entrambi i casi di beni inerenti alla persona, valutati con riferimento alla dignità della stessa e alla sua capacità non solo di muoversi bensì anche di agire e di operare scelte in un determinato quadro di relazioni.
Con specifico riferimento alla libertà, si rileva che la stessa va correlata alle legittime aspirazioni dell'individuo, che trovino pieno riconoscimento in valori costituzionali, dovendo essere presa in considerazione non solo la libertà personale, ma anche quella di esercitare facoltà che costituiscono la base per lo sviluppo della personalità, come il diritto al lavoro.
In tale prospettiva vanno richiamati quei precedenti, nei quali è stato specificamente posto in rilievo che la scusante di cui all'art. 384, comma primo, cod. pen. può essere invocata anche in presenza del timore cli perdere il lavoro, quale manifestazione della libertà dell'individuo (sul punto Sez. 6, n.16443 del 25/03/2015, Bentivegna, Rv. 263579; Sez. 6, n. 37398 del 16/06/2011, Galbiati, Rv. 250878).
In tali circostanze è stata segnalata la necessità che la condotta illecita risponda all'esigenza di evitare l’altrimenti sicuro pregiudizio che il soggetto agente avrebbe subito in termini di diretta conseguenzialità.
5. Alla luce di tali premesse, deve ritenersi che nel caso in esame la condotta della ricorrente, avente ad oggetto la falsa testimonianza relativa alla conferma della lettera in precedenza inviata, incentrata sulle accuse mosse alla funzionaria commerciale S., fosse, come correttamente rilevato dalla ricorrente, strettamente correlata all'esigenza di scongiurare !'altrimenti sicura -come tale prospettata dalla stessa Corte sulla base delle evidenze emerse nella causa di lavoro- risoluzione del rapporto di franchising con V.O., fonte di pregiudizio non solo di tipo economico, ma prima di tutto personale, in quanto tale da incidere sull'esercizio di una primaria libertà dell'individuo, cioè la libertà di svolgere attività lavorativa.
Dovendosi aver riguardo, come in precedenza sottolineato, all'alterazione della motivabilità della condotta, in presenza di una situazione tale da porre il soggetto di fronte ad una scelta coinvolgente un suo interesse primario, riconducibile all'alveo operativo dell'art. 384 comma primo cod. pen., deve ritenersi che nel caso di specie la scusante soggettiva sia applicabile, non potendosi far leva in senso contrario sul fatto che non venisse in rilievo un rapporto di lavoro dipendente.
Va infatti valutato il concreto contesto operativo della ricorrente in rapporto all'esigenza di tutela di quel bene, dovendosi in particolare osservare come, sul piano della motivazione e della cogenza, la situazione fosse assolutamente assimibilabile, in quanto veniva in rilievo un rapporto non paritario, bensì fortemente sbilanciato a vantaggio di una società capace di esercitare un'influenza dominante e di determinare l'assoggettamento di chi era titolare di un mero rapporto di franchising, nel quale il profitto era pur sempre assicurato dalla una condizionata capacità di lavoro personale, solo all'interno della sfera operativa di quel rapporto.
Di qui la stringente relazione tra la condotta illecita e il rischio di nocumento, altrimenti inevitabile, alla propria libertà, intesa nel modo fin qui descritto.
6. Da tutto ciò discende che la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, perché il fatto-reato non è punibile ai sensi dell'art. 384, comma primo, cod. pen.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perché il fatto non è punibile ex art. 384, comma primo, cod. pen.