La circostanza che l'acquirente accetti l'immobile nello stato di fatto in cui si trova non implica anche la presunzione che egli ne conosca i vizi occulti.
Il Giudice di prime cure annullava il contratto preliminare e definitivo di compravendita di un immobile, condannando il convenuto al pagamento di circa 47mila euro all'attore. A fondamento della decisione, il fatto che entrambi i contratti erano stati conclusi per errore del compratore, il quale aveva acquistato l'immobile convinto che esso fosse provvisto di acqua...
Svolgimento del processo / Motivi della decisione
Questa la vicenda che qui viene in rilievo.
Il Tribunale, per quel che ancora qui rileva, adito da D.G., annullò il contratto preliminare e il definitivo di compravendita d’un immobile, che gli era stato alienato da R.B., costituito da un “ingresso indipendente, due bagni e due vani”, condannando il convenuto al pagamento della somma di € 47.968,12.
La decisione stabilì che entrambi i contratti erano stati conclusi per errore del compratore, il quale aveva acquistato l’immobile sul presupposto che esso fosse provvisto di acqua corrente potabile, essendo, per contro, successivamente emerso che lo stesso fino al 2002 attingeva l’acqua da un pozzo artesiano; di poi i rubinetti erano stati chiusi per scongiurare che i tubi ghiacciassero. Due anni dopo, al momento delle trattative, il G., ispezionando i locali, aveva constatato il flusso d’acqua dal rubinetto; ma, successivamente, aveva accertato che il flusso non era continuativo e, anzi, si era definitivamente interrotto, appena svuotatisi i tubi. Il locale era pertanto inservibile per l’uso previsto d’ambulatorio medico e solo per la cortesia d’un vicino aveva potuto godere di un provvisorio approvvigionamento. La ctu aveva escluso la possibilità di utilizzare il vecchio pozzo, né potevasi provvedere allo scavo di un nuovo pozzo, non essendovi lo spazio sufficiente all’interno della proprietà.
La Corte d’appello di Venezia rigettò l’impugnazione del B., così confermando la sentenza di primo grado.
Avverso la sentenza d’appello l’insoddisfatto appellante ricorre sulla base d’unitaria censura. Il G. resiste con controricorso.
1. Il ricorrente denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1427, 1428, 1429 n. 2) e 1431 cod. civ., nonché l’errata interpretazione dell’art. 1363 cod. civ.
Assume il ricorrente che la sentenza d’appello non aveva rivalutato le prove acquisite in primo grado, essendosi limitata a condividere il ragionamento del primo giudice. Il ricorrente, che aveva acquistato l’immobile all’asta, si era assicurato che fosse servito da un pozzo artesiano e aveva evidenziato al Giudice d’appello le sue perplessità sul fatto che per tre anni fosse rimasta acqua nei tubi, che l’errore della controparte era suffragato dalla mera supposizione tratta dalla dichiarazione del teste M.L.. Il compratore era stato avvisato da un vicino del fatto che il pozzo fosse in disuso e che l’immobile necessitava di manutenzione straordinaria; lo stesso era stato venduto nello stato di fatto e di diritto in cui si trovava, del quale il compratore aveva preso visione e, di conseguenza, l’acqua corrente non avrebbe potuto considerarsi qualità essenziale e con l’apporto di diligenza minima il G. avrebbe ben potuto rendersi conto della situazione.
L’errore non presentava, pertanto, le caratteristiche dell’essenzialità e della riconoscibilità da parte dell’altro contraente. Il giudice era venuto meno all’indagine ermeneutica al fine di accertare le due concorrenti qualità di cui sopra, che non può prescindere dall’interpretazione del contratto ex art. 1362 e segg. cod. civ. e nella specie la vetustà, nota alle parti contraenti, era stata richiamata tre volte (due nel preliminare e una nell’atto definitivo), essendosi affermato che il trasferimento avveniva “nello stato di fatto e di diritto in cui si trova”. Clausola, questa, che non poteva considerarsi di mero stile.
2. L’insieme censuratorio non supera il vaglio d’ammissibilità.
2.1. La Corte d’appello, presi in rassegna i motivi d’impugnazione, li disattende evidenziando che:
- la semplice occasionale presenza d’acqua nei tubi non può integrare l’approvvigionamento continuo necessario ai due bagni, posti al servizio dell’immobile, che il compratore avrebbe dovuto adibire ad ambulatorio medico; solo per un periodo la fornitura era stata assicurata dal pozzo del vicino confinante;
- la fruizione di acqua corrente costituiva senz’altro qualità essenziale, in relazione all’uso dell’immobile;
- la ctu, richiesta dall’appellante, aveva escluso l’utilizzabilità del pozzo esistente e la possibilità di scavare un nuovo pozzo, mancando lo spazio sufficiente;
- era da escludere che potesse affermarsi la conoscenza della mancanza di fornitura idrica da parte dell’acquirente, il quale, al momento del sopralluogo, aveva accertato lo scorrere dell’acqua dai rubinetti e non poteva immaginare che esso successivamente sarebbe venuto irreversibilmente a mancare ed anzi la prova per testi aveva confermato l’anticipata conclusione.
2.1.1. Da quanto esposto emerge nitidamente che il ricorrente ripropone in questa sede un improprio riesame di merito del vaglio probatorio e, quindi, della ricostruzione fattuale.
È del tutto evidente che attraverso la denunzia di violazione di legge il ricorrente sollecita - non determinando essa, nel giudizio di legittimità lo scrutinio della questione astrattamente evidenziata sul presupposto che l’accertamento fattuale operato dal giudice di merito giustifichi il rivendicato inquadramento normativo, essendo, all’evidenza, occorrente che l’accertamento fattuale, derivante dal vaglio probatorio, sia tale da doversene inferire la sussunzione nel senso auspicato dal ricorrente - un improprio riesame di merito (da ultimo, S.U. n. 25573, 12/11/2020, Rv. 659459). Nella sostanza il ricorrente, sotto l’usbergo dell’asserita violazione di legge, insta per un inammissibile riesame di merito, peraltro al di là delle ipotesi contemplate dal vigente art. 360, n. 5, cod. proc. civ., qui, peraltro, neppure evocabili, versandosi in presenza di doppia conforme (cfr., ex multis, (Sez. 2, n. 5528, 10/03/2014, Rv. 630359; conf., ex multis, Cass. nn. 19001/2016, 26714/2016).
2.1.2. La circostanza che l’acquirente accetti l’immobile nello stato di fatto in cui versa non implica affatto che debba presumersi che egli abbia per noti anche i vizi occulti. Nel caso d’un immobile non di nuova costruzione ciò implica che egli abbia accettato, e tenuto quindi in conto nella determinazione del prezzo, ammaloramenti e difetti percepibili con i sensi; giammai, come nel caso di specie, non solo di vizi occulti, ma addirittura dissimulati.
Sul punto questa Corte ha più volte chiarito che la clausola contrattuale "vista e piaciuta"(per la vendita di autovetture), che ha lo scopo di accertare consensualmente la presa visione, ad opera del compratore, della cosa venduta, esonera il venditore dalla garanzia per i vizi di quest'ultima limitatamente a quelli riconoscibili con la normale diligenza e non taciuti in mala fede, sicché, anche in considerazione dei principi fondamentali della buona fede e dell'equità del sinallagma contrattuale, essa non può riferirsi ai vizi occulti emersi dopo i normali controlli eseguiti anteriormente l'acquisto (Sez. 6 n. 21204, 19/10/2016, Rv. 641673; conf. Cass. n. 9588/2022).
Né par dubbio che la mancanza d’acqua potabile corrente costituisca vizio essenziale non solo per l’abitabilità dell’immobile, ma anche per la sua agibilità, che contempli la permanenza umana; a maggior ragione per il non controverso utilizzo quale ambulatorio medico.
3. Il regolamento delle spese segue la soccombenza e le stesse vanno liquidate, tenuto conto del valore e della qualità della causa, nonché delle svolte attività, siccome in dispositivo.
4. Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02 (inserito dall'art. 1, comma 17 legge n. 228/12) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore del controricorrente, che liquida in euro 5.600,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00, e agli accessori di legge.
Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02 (inserito dall'art. 1, comma 17 legge n. 228/12), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.