Il rapporto interpersonale, infatti, specialmente se inserito in una relazione gerarchica continuativa, è una possibile fonte di tensioni il cui sfociare in una malattia del lavoratore non è di per sé indice di responsabilità ai sensi dell'art. 2087 c.c..
Una dipendente del Comune agiva nei confronti di quest'ultimo assumendo di essere stata oggetto di demansionamento e di vessazioni anche a causa della denuncia da lei presentata per le irregolarità nelle selezioni dei dirigenti e del personale al quale attribuire mansioni organizzative.
La domanda veniva accolta dal Giudice di primo grado limitatamente al profilo del demansionamento ma, a seguito di gravame, la Corte d'Appello rigettava integralmente la pretesa poiché aveva ritenuto assente la prova dell'intento vessatorio, la quale è necessaria ai fini dell'integrazione della fattispecie di mobbing.
La dipendente propone ricorso in Cassazione contro quest'ultima decisione, lamentando tra i diversi motivi il fatto che la Corte non avesse valutato le numerose visite mediche a cui era stata sottoposta nel tempo dalle quali era emersa la presenza di disturbi psichici la cui insorgenza era connessa all'attività di lavoro.
Con l'ordinanza n. 24339 del 5 agosto 2022, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso.
Con riferimento alla doglianza della ricorrente con la quale ella evidenziava il nesso causale tra le sindromi psichiche e il lavoro, gli Ermellini affermano che tali certificati non sono destinati a far prova rispetto alle valutazioni tecnico-mediche ovvero in relazione all'insorgenza causale dei disturbi legata a condotte datoriali, in quanto il medico non poteva avere diretta e personale contezza di ciò e nemmeno rispetto all'illegittimità dei comportamenti del Comune.
Come osserva la Corte, ciò che viene in rilevo con la suddetta documentazione è piuttosto una valutazione giuridica volta a fondare una responsabilità datoriale, ma non sotto il profilo del mobbing, poiché esso prescinde dalla legittimità o meno dei comportamenti datoriali, qualificandosi per la ricorrenza dell'elemento della intenzionalità, su cui la Corte territoriale ha ritenuto non esservi prova.
Diversamente, la Cassazione rileva che emerge il tema del cd. straining sotto il profilo dell'obbligo del datore di garantire un ambiente idoneo allo svolgimento sicuro della prestazione, elemento che potrebbe non escludere l'inadempimento ove il lavoro si manifesti in sé nocivo per la connotazione indebitamente stressogena. In tal senso, però, devono essere evidenziate le conclusioni del Giudice in relazione alle discussioni sorte con il datore di cui parla la ricorrente, le quali, per gli elementi da ella descritti, delineano solo una divergenza interpersonale sul luogo di lavoro ma senza delineare una situazione di nocività. Il rapporto interpersonale, infatti, specialmente se inserito in una relazione gerarchica continuativa, è una possibile fonte di tensioni il cui sfociare in una malattia del lavoratore non è di per sé indice di responsabilità ai sensi dell'
Segue il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
1. A.P., dipendente del Comune di (omissis), ha agito nei confronti del medesimo assumendo di essere stata oggetto di demansionamento e vessazioni, queste ultime anche per effetto dell’indebita reazione dell’ente e dei suoi superiori rispetto alla denuncia da parte sua di irregolarità nelle selezioni dei dirigenti e del personale cui attribuire le posizioni organizzative;
2. la domanda, accolta in primo grado dal Tribunale di Brescia con riferimento al solo demansionamento e sotto il profilo del verificarsi di una sostanziale privazione di mansioni ed incarichi, è stata poi integralmente rigettata dalla Corte d’Appello della stessa città;
3. la Corte territoriale riteneva che fosse mancata prova dell’intento vessatorio, necessario ad integrare la fattispecie del mobbing e che quello emerso era in realtà un confronto, attraverso anche discussioni, ma con toni urbani, rispetto all’attività lavorativa, da cui era anche risultato che vi era svolgimento di attività lavorativa da parte della ricorrente, in materie di apparente rilevanza ed in modo non episodico;
4. A.P. ha proposto ricorso per cassazione con due motivi, cui ha opposto difese il Comune di (omissis) con controricorso;
5. la proposta del relatore, ai sensi dell'art. 380-bis cod. proc. civ., è stata notificata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell'adunanza in camera di consiglio non partecipata;
6. la ricorrente ha depositato memoria;
Motivi della decisione
1. il primo motivo di ricorso adduce la nullità della sentenza impugnata per omessa motivazione ed omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio (art. 360 n. 5 c.p.c e art. 115 c.p.c.) e con esso la ricorrente fa leva sulle numerose visite mediche cui essa era stata sottoposta nel tempo, da cui emergeva anche la scaturigine professionale dei propri disturbi psichici, confluita altresì in certificazioni sull’origine delle sofferenze psichiche nell’attività di lavoro;
2. il secondo motivo deduce la nullità della sentenza per contraddittorietà della motivazione su un fatto decisivo (art. 360 n. 5 c.p.c., in relazione all’art. 132, co. 2, n. 4 c.p.c.), assumendo che la Corte territoriale avesse trascurato di apprezzare il rilievo della scheda di proposte degli obiettivi prodotta dal Comune e mancante, a differenza dall’originale, delle osservazioni apposte dalla stessa P.;
3. i due motivi possono essere esaminati congiuntamente;
4. il nucleo centrale della ratio decidendi sviluppata dalla Corte territoriale sta, per un verso, nella valutazione di genericità ed insufficienza delle allegazioni svolte dalla ricorrente al fine di dimostrare l’intento vessatorio, quale elemento costitutivo del mobbing e, per altro verso, nella conclusione, tratta dal richiamo ad un «significativo numero di comunicazioni e-mail» in ordine all’esistenza di «pregressi contatti e discussioni, di attività già svolte dalla ricorrente e di scadenze già stabilite che la stessa si figurava di rispettare», per concludere in ordine all’esistenza di «significativi elementi documentali a sostegno dell’esistenza di un confronto – peraltro condotto con toni del tutto urbani – tra la ricorrente e il suo diretto responsabile avente ad oggetto lo svolgimento di attività lavorativa, in materie di apparente rilevanza, che la lavoratrice stava conducendo in modo di certo non episodico»;
4. rispetto a tale impianto motivazionale, è sterile l’insistenza della ricorrente in ordine alle vicende riguardanti un documento che, in una certa versione, avrebbe contenuto alcune osservazioni della lavoratrice rispetto alla valutazione della performance e che invece, nella versione prodotta in giudizio dal Comune, era priva di tali osservazioni;
5. la Corte territoriale ha in proposito ritenuto, da un lato, che tutto risalirebbe al fatto che il responsabile del settore avrebbe ritenuto che la scheda consegnata alla lavoratrice e da restituire per ricevuta non potesse contenere osservazioni del destinatario e che la produzione del Comune di una scheda di obiettivi senza le osservazioni del lavoratore costituisse documento diverso, formato in modo da non far constare quelle osservazioni che, secondo il predetto responsabile, non avrebbero dovuto esservi;
6. la Corte di merito ha altresì aggiunto che la condotta del responsabile sarebbe stata del tutto legittima, in quanto la pretesa della lavoratrice di far constare le proprie osservazioni nella scheda di attribuzione degli obiettivi (e non nella scheda – diversa – di valutazione della performance) risultava in aperto contrasto con le diverse posizioni dei soggetti coinvolti, essendo il documento di attribuzione degli obiettivi di esclusiva pertinenza del superiore;
7. muovendo da ciò, secondo la ricorrente costituirebbe fatto decisivo, idoneo a sovvertire la decisione di merito ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., la circostanza che agli atti non risulti quel documento, nella versione contenente le osservazioni della lavoratrice, perché se ne dovrebbe desumere l’atteggiamento ostativo e vessatorio nei suoi confronti;
8. la Corte territoriale ha già fornito una spiegazione dell’accaduto, nel senso che il Comune avrebbe ritenuto di formare un diverso documento epurato dalle osservazioni che, per le ragioni parimenti spiegate dalla Corte di merito e sopra riepilogate, non dovevano esservi apposte;
9. per quanto ciò non potrebbe giustificare la sparizione di un diverso documento ricevuto dal lavoratore, è però da escludersi che la formazione di un documento in forma priva di elementi che su di esso siano stati posti da altri e che secondo chi era responsabile di quell’atto non avrebbero dovuto esservi, integri in sé alcun falso, trattandosi solo della reiterazione, con le forme ritenute corrette, di quell’atto;
10. tale spiegazione, valorizzando il fine del superiore di adeguare l’atto di conferimento degli obiettivi a quella che avrebbe dovuto essere la veste formale propria di esso, esclude che ciò, se anche possa essere rimproverabile sotto il profilo della gestione dei documenti, integri il necessario requisito di decisività rispetto alla prova di un sotteso intento pregiudizievole e tanto meno rispetto ad un fenomeno quale il mobbing, di ben più ampia portata, nelle proprie componenti di intenzionalità specifica, durata temporale e continuatività;
11. è infatti evidente la differenza esistente tra l’intento di perseguire quella che era ritenuta la regolare veste di un certo documento e l’intento di sopprimerne o nascondere un altro per pregiudicare un lavoratore;
12. d’altra parte, la lettura del comportamento altrui propugnata dalla ricorrente, tesa a desumere da esso un intento vessatorio, ha la sostanza di una diversa valutazione di merito sul significato dei fatti e dell’accaduto, improprio rispetto al giudizio di legittimità (C., SU, 34476/2019; C., SU, 24148/2013);
13. analoghe conclusioni valgono rispetto all’assunto per cui la mancata produzione in giudizio della versione munita delle osservazioni della ricorrente sarebbe finalizzata ad occultare quella sostituzione;
14. intanto, non è neppure noto se quell’originaria versione vi sia ancora e comunque non può dirsi che la scelta di una strategia difensiva possa essere prova di un intento vessatorio verso la lavoratrice che tra l’altro rileva in quanto svoltosi nell’ambito del rapporto sostanziale e che è improprio riferire alle difese svolte in causa;
15. le vicende di quel documento infine non possono dirsi decisive al fine di integrare l’ipotesi di difetto motivazionale di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c. sotto il profilo della ricostruzione dell’attività (o inattività) della ricorrente nel periodo oggetto di causa;
16. il ricorso per cassazione intanto non riporta il tenore esatto di quelle osservazioni e quindi è impossibile affermare alcunché rispetto alla rilevanza di esse e del documento, nella versione che le conteneva, al fine di sovvertire gli esiti del giudizio;
17. d’altra parte, il conferimento di obiettivi non dipende certo dalle osservazioni del lavoratore rispetto alla scelta datoriale e rileva in sé, sicché, se anche si dovesse ritenere che quella scheda di conferimento di tali obiettivi sia stata apprezzata dalla Corte come uno degli elementi da cui desumere l’insussistenza di un abbandono lavorativo della P., non per ciò solo la valutazione del giudice di merito dovrebbe dirsi inficiata per non avere potuto o inteso tenere conto di osservazioni apposte dal lavoratore sul documento consegnato in origine;
18. al di là delle vicende riguardanti quel documento, è del resto da escludere che possano assecondarsi gli sviluppi difensivi di cui alla memoria depositata dalla ricorrente, nella parte in cui con essa si richiama un insieme di vari dati istruttori da cui si assume che sarebbe dovuta derivare una diversa ricostruzione dell’accaduto nel suo complesso e ciò sia perché la memoria non può ampliare il contenuto nei motivi di ricorso e sia perché, in ogni caso, va ribadito come una tale prospettazione assume i connotati della proposizione di una diversa ricostruzione fattuale, propria del giudizio di merito e non di quello di legittimità;
19. più delicata è invece la questione, sollecitata con il primo motivo di ricorso, in ordine al rilievo delle certificazioni mediche che attestano il nesso causale tra le sindromi psichiche della ricorrente e il lavoro;
20. va intanto premesso che di certo, quand’anche si trattasse di documenti provenienti da pubblico ufficiale, essi non sono destinati a far prova rispetto a valutazioni tecnico-mediche o rispetto al risalire causale degli stati patologici osservati a comportamenti datoriali, di cui evidentemente il medico non poteva avere personale e diretta contezza e tanto meno rispetto all’illegittimità di questi ultimi;
21. l’asserita omessa contestazione è poi dedotta del tutto genericamente ed è apparentemente riferita, tra l’altro, alla documentazione (v. pag. 11 del ricorso per cassazione), che restava dunque valutabile, nella sua portata dimostrativa, secondo le regole ordinarie proprie dell’apprezzamento delle prove;
22. quella che viene in realtà in rilievo sulla base di quella documentazione è, in sostanza, una valutazione più strettamente giuridica, consistente nella sufficienza o meno della derivazione causale dal lavoro di cui è menzione nella documentazione predetta, a fondare una responsabilità datoriale;
23. ciò non sotto il profilo del mobbing, che, a prescindere dalla liceità o illiceità intrinseca dei comportamenti datoriali, è qualificato dalla ricorrenza dell’elemento intenzionale (C. 15159/2019), su cui la Corte territoriale ha ritenuto non esservi prova;
24. emerge invece piuttosto il tema del c.d. straining, con riferimento all’obbligo datoriale di assicurare, anche ai sensi dell’art. 2087 c.c., un ambiente idoneo allo svolgimento sicuro della prestazione e che dunque potrebbe non escludere l’inadempimento se il lavoro si manifesti in sé nocivo per la connotazione indebitamente stressogena (C. 2676/2021; C. 3291/2016);
25. in proposito, vanno però evidenziate le conclusioni di merito della Corte territoriale in ordine al fatto che le discussioni, pur sorte, rispetto alla valutazione della lavoratrice contenute nella scheda di valutazione non avessero fatto emergere «un atteggiamento di sufficienza o toni denigratori» ed al fatto che anche rispetto agli incarichi quello intercorso era stato «un confronto ….. del tutto urbano tra la ricorrente ed il suo diretto responsabile»;
26. tali elementi di fatto, centrali nella ratio decidendi sui profili di maggior rilievo, delineano soltanto una situazione di divergenza interpersonale sul luogo di lavoro e come tali non intercettano una situazione di nocività, perché il rapporto interpersonale, specie se inserito in una relazione gerarchica continuativa, è in sé possibile fonte di tensioni, il cui sfociare in una malattia del lavoratore non può in sé dirsi, se non vi sia esorbitanza nei modi rispetto a quelli appropriati per il confronto umano nelle condizioni sopra dette, ragione di responsabilità ai sensi dell’art. 2087 c.c.;
27. né certamente basta a delineare un illecito l’iniziale isolamento della ricorrente, anche perché la ricostruzione di esso è rimasta, afferma la Corte territoriale, «non univocamente ricostruita in sede istruttoria»;
28. in definitiva, la motivazione della Corte territoriale, anche se valutata alla luce dei parametri più ampi della responsabilità per straining e dunque da inadempimento anche solo colposo, contiene in sé elementi che escludono il verificarsi non solo di un qualche decisivo difetto motivazionale, ma anche di errori di diritto;
29. il ricorso va pertanto disatteso, con regolazione secondo soccombenza delle spese del giudizio di legittimità;
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 3.000,00 per compensi ed euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali in misura del 15 % ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.