Non si tratta, infatti, della previsione di un diritto di recesso in favore del contraente forte, bensì di una condizione risolutiva propria.
Il promissario acquirente conveniva in giudizio il promittente alienante chiedendo l'accertamento della natura vessatoria di una clausola oggetto del contratto preliminare di vendita di cosa futura sulla base della quale il contratto doveva ritenersi nullo (rectius inefficace) qualora il promittente alienante non avesse ottenuto il permesso a costruire e le altre...
Svolgimento del processo
1.- R.G., in qualità di promissario acquirente, conveniva, davanti al Tribunale di Roma, la S. S.r.l., in qualità di promittente alienante, chiedendo che fosse accertata la natura vessatoria della clausola di cui all'art. 10 del contratto preliminare di vendita di cosa futura stipulato tra le parti in data 23 maggio 2004, con declaratoria di validità ed efficacia delle restanti pattuizioni, e - in subordine - che fosse dichiarato l'avveramento della condizione sospensiva ivi contemplata, per comportamento contrario a buona fede della società convenuta, con conseguente declaratoria di efficacia del preliminare medesimo.
In proposito, l'attore esponeva: che, ai sensi dell'art. 10 del suddetto preliminare di acquisto sulla carta di un immobile, il contratto doveva ritenersi nullo - rectius inefficace - nel caso che la promittente venditrice non avesse ottenuto il permesso a costruire e le ulteriori autorizzazioni entro il mese di settembre 2004; che la società, una volta incassato l'anticipo concordato di euro 2.000,00, a distanza di quasi un anno dalla stipula del contratto, in data 7 aprile 2005, gli aveva inviato una missiva con cui aveva comunicato la risoluzione del preliminare in forza dell'art. 10, asserendo che non aveva ottenuto il permesso a costruire e le altre autorizzazioni entro il mese di settembre 2004, come pattuito tra le parti, con l'invito a ritirare l'anticipo erogato; che detta clausola contrattuale aveva carattere vessatorio, sicché non poteva essergli opposta in difetto di specifica sottoscrizione; che, in ogni caso, la circostanza addotta ai fini della risoluzione del preliminare non corrispondeva a quanto dichiarato dal Comune di (omissis), il quale - con nota del 25 maggio 2005 - aveva riferito che la S. S.r.l., già a partire dal mese di agosto 2004, avrebbe potuto ritirare il permesso di costruire, essendo state rilasciate, a tale data, tutte le necessarie autorizzazioni, anche di natura ambientale.
Si costituiva in giudizio la S. S.r.l., la quale preliminarmente eccepiva l'incompetenza territoriale del Tribunale adito in favore del Tribunale di Sulmona; nel merito, contestava la fondatezza della domanda attorea, chiedendone il rigetto, e proponeva domanda riconvenzionale, chiedendo che il preliminare di vendita fosse dichiarato risolto.
Per effetto dell'adesione di parte attrice all'eccezione di incompetenza territoriale sollevata da parte convenuta, la causa era cancellata dal ruolo e, con atto notificato in data 8 novembre 2006, era riassunta davanti al Tribunale di Sulmona.
Nel corso del giudizio erano escussi i testimoni ammessi.
Il Tribunale adito, con sentenza n. 40/2011, depositata il 24 gennaio 2011, accoglieva la domanda principale, dichiarando, quindi, la natura vessatoria della suddetta clausola di cui all'art. 10 del preliminare, con conferma della validità delle restanti pattuizioni.
In specie, la pronuncia sosteneva che la clausola in questione prevedeva, a favore della società che aveva predisposto il testo contrattuale, la specifica facoltà di recedere dal contratto nel caso di mancato rilascio del permesso di costruire entro il termine del mese di settembre 2004 nonché la rinuncia del R. ad agire, nei confronti del promittente venditore, a titolo di risarcimento del danno derivante dalla mancata vendita dell'immobile; per l'effetto, rilevava che tale clausola non poteva produrre alcun effetto nei confronti del promissario acquirente, poiché non espressamente approvata per iscritto con la doppia firma, ai sensi dell'art. 1341, secondo comma, c.c.; in ultimo, precisava che, nonostante il carattere assorbente di tale rilievo, vi era anche violazione della buona fede da parte del promittente venditore, in pendenza della condizione sospensiva anzidetta.
2.- Sul gravame interposto dalla S. S.r.l., al quale resisteva R.G., la Corte d'appello di L'Aquila, con la sentenza di cui in epigrafe, rigettava l'appello e, per l'effetto, confermava integralmente la pronuncia impugnata.
A sostegno dell'adottata pronuncia la Corte territoriale rilevava, per quanto interessa in questa sede: a) che l'art. 10 del contratto preliminare di vendita di cosa futura prevedeva, in buona sostanza, la specifica facoltà di recedere dal contratto per la società S., nel caso di mancato ottenimento dei permessi necessari per costruire entro il mese di settembre 2004, e prevedeva, altresì, la rinuncia del R. ad agire, nei confronti del promittente alienante, a titolo di risarcimento dei danni derivanti dalla mancata vendita dell'immobile; b) che le risultanze dell'istruttoria orale avevano confermato la circostanza che la detta clausola non costituiva il frutto di una libera negoziazione tra le parti, ma era stata voluta ed inserita dal promittente venditore, quale presupposto dell'acquisto dell'appartamento e, più in generale, di tutti gli appartamenti del costruendo fabbricato; e) che dalla deposizione resa dal teste A.V. - molto significativa e attendibile, siccome proveniente dal titolare dello studio di progettazione nonché estensore materiale del contratto, citato come teste proprio dalla società S. - si evinceva che vi era stato un contratto base relativo al fabbricato, il cui art. 10 contemplava una clausola richiesta dalla S. e inserita in tutti i contratti, ritenuta indispensabile per la sottoscrizione del contratto medesimo; d) che si trattava, quindi, di tipica clausola vessatoria, rientrante fra quelle previste dall'art. 1341, secondo comma, c.c. e in particolare tra le condizioni che stabilivano, a favore di chi le aveva predisposte, limitazioni di responsabilità e facoltà di recedere dal contratto, le quali non avevano effetto se non specificamente approvate per iscritto con la doppia sottoscrizione, ai fini di richiamare l'attenzione dell'altro contraente sulla rilevante incidenza di tali clausole nella sua sfera giuridica; e) che, nella fattispecie, difettava la specifica approvazione da parte del R., sicché correttamente il Giudice di prime cure aveva ritenuto la sua natura vessatoria.
3.- Avverso la sentenza d'appello ha proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi, la S. S.r.l. Ha resistito con controricorso l'intimato R.G..
4.- La ricorrente ha presentato memoria.
Motivi della decisione
1.- In primo luogo, non assume rilievo, nel giudizio di cassazione, l'evento dedotto dal difensore del controricorrente con la PEC inviata il 1° luglio 2022, secondo cui, con procedimento n. (omissis) – ossia successivo al conferimento del mandato alle liti e alla costituzione in giudizio -, è stata aperta l'amministrazione di sostegno di cui è beneficiario il controricorrente R.G., atteso che, per un verso, tale procedura non implica automaticamente la perdita della capacità di stare in giudizio della parte e, per altro verso, comunque, l'art. 300 c.p.c. non trova applicazione nel giudizio di cassazione, trattandosi di procedimento dominato dall'impulso di ufficio (Cass. Sez. L, Sentenza n. 1757 del 29/01/2016; Sez. 3, Sentenza n. 24635 del 03/12/2015).
2.- Tanto premesso, con il primo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1341 e 1342 c.c., per avere la Corte d'appello ritenuto vessatoria la clausola indicata, pur escludendo che il contratto preliminare sottoscritto il 23 maggio 2004 costituisse un'ipotesi di contratto concluso per condizioni generali o per moduli o formulari.
In proposito, l'istante deduce che, affinché potesse essere applicato l'art. 1341, secondo comma, c.c., occorreva verificare che effettivamente il negozio fosse stato redatto dal soggetto che lo aveva proposto, che tale negozio fosse stato predisposto per una serie indefinita di rapporti e che non ci fosse stata alcuna possibilità di trattativa per il non proponente, elementi che sarebbero difettati nella ricostruzione della sentenza impugnata.
3.- Con il secondo motivo la ricorrente censura, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., l'omesso esame di tre fatti decisivi per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, con conseguente violazione e/o falsa applicazione, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., degli artt. 1341 e 1342 c.c., per non avere la Corte distrettuale esaminato e, quindi, per non avere motivato l'importanza dei tre fatti decisivi che avrebbero escluso l'applicazione dell'art. 1341, secondo comma, c.c., ossia la predisposizione del contratto da parte di un terzo, l'impossibilità del negozio di regolare una serie indefinita di rapporti e la negoziazione del contratto preliminare stipulato dalle parti.
All'uopo, l'istante sostiene che alla redazione del negozio aveva provveduto un terzo e che il promissario acquirente era a conoscenza del suo contenuto prima della sottoscrizione, che la stipulazione del negozio era meramente occasionale ovvero che il contratto non era stato predisposto per una serie indefinita di rapporti e che il contenuto del contratto era stato liberamente concordato da entrambi i contraenti, così riflettendo l'incontro della volontà delle parti stesse.
4.- Con il terzo motivo la ricorrente prospetta, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., l'omessa pronuncia sulla domanda riconvenzionale proposta nuovamente in appello, per avere la Corte territoriale mancato di provvedere sulla pretesa con la quale la S. S.r.l., previo accertamento della validità ed efficacia dell'art. 10 del contratto preliminare oggetto di causa e del mancato avveramento della condizione sospensiva ivi prevista, chiedeva che fosse "dichiarato" risolto il contratto preliminare di cosa futura stipulato il 23 maggio 2004 con R.G., disponendo la restituzione al R. dell'assegno bancario a sua firma, consegnato alla promittente alienante a titolo di acconto sul prezzo convenuto, con la condanna alla restituzione anche delle somme corrisposte a titolo di spese di lite, alla stregua della soccombenza nel giudizio di primo grado.
Sul punto, l'istante evidenzia che la Corte d'appello avrebbe dichiarato assorbito il secondo motivo di appello, a causa della reiezione del primo, senza tuttavia spendere alcuna parola in merito alla domanda riconvenzionale e, quindi, senza argomentare le ragioni del suo implicito rigetto.
Espone, altresì, che, ove la clausola in discussione fosse stata qualificata come condizione, anziché come esercizio di un diritto di recesso (ius poenitendi), il disposto di cui all'art. 1341, secondo comma, c.c. sarebbe risultato inapplicabile, con la conseguente fondatezza del gravame.
5.- Con il quarto motivo la ricorrente si duole, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., della violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1362, 1367, 1353 e 1373 c.c., per avere la Corte d'appello qualificato l'art. 10 del contratto preliminare, stipulato tra le parti il 23 maggio 2004, quale clausola regolante un diritto di recesso in favore del promittente alienante, anziché quale clausola introduttiva di una condizione sospensiva.
In proposito, l'istante obietta che la facoltà di recedere dal contratto, prevista in favore della promittente alienante, nel caso di mancato ottenimento dei permessi necessari per costruire entro il mese di settembre 2004, e la previsione della rinuncia del promissario acquirente ad agire nei confronti della promittente venditrice a titolo di risarcimento dei danni derivanti dalla mancata vendita dell'immobile, avrebbero introdotto, in realtà, una condizione sospensiva, sulla scorta dell'applicazione dei criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 e ss. c.c.
6.- Il quinto motivo investe, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., l'omesso esame e l'omessa motivazione rispetto a un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti, per avere la Corte distrettuale qualificato la facoltà prevista dall'art. 10 del contratto preliminare come diritto di recesso, senza fornire alcuna argomentazione in proposito.
Quanto a tale aspetto, la ricorrente deduce che non vi sarebbe traccia di alcuna motivazione nella sentenza impugnata sulle ragioni per le quali detta clausola del contratto preliminare costituisca un diritto di recesso e non integri, invece, una condizione sospensiva.
7.- Deve essere preliminarmente esaminato il quarto motivo di ricorso, attesa la sua priorità logica rispetto alle altre doglianze articolate. Infatti, attraverso tale censura si contesta, a monte, che la clausola di cui all'art. 10 del contratto preliminare di vendita rientri nell'elenco tassativo - suscettibile di lettura estensiva, ma non di interpretazione analogica (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 14038 del 04/06/2013; Sez. 1, Sentenza n. 3011 del 08/02/2008; Sez. 2, Sentenza n. 3272 del 05/10/1976) - di cui all'art. 1341, secondo comma, c.c.
7.1.- Il motivo è fondato.
In primis, la ricorrente ha offerto, sulla scorta degli elementi testuali ricavabili dalla lettera della clausola negoziale, gli specifici elementi confutativi dell'interpretazione resa dal Giudice del gravame, solo all'esito fornendo una propria lettura della qualificazione giuridica della previsione contenuta nel preliminare, opposta a quella resa dalla sentenza impugnata, mediante un supporto argomentativo adeguato.
In ordine a tale aspetto è stato, quindi, rispettato il consolidato orientamento di questa Corte, in forza del quale, posto che l'accertamento della volontà delle parti, in relazione al contenuto di un negozio giuridico, si traduce in una indagine di fatto affidata al giudice di merito, il ricorrente per cassazione, al fine di far valere la violazione dei canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., non solo deve fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione, mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti, non potendo, invece, la censura risolversi nella mera contrapposizione tra l'interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata (Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 9461 del 09/04/2021; Sez. 5, Sentenza n. 873 del 16/01/2019; Sez. 1, Ordinanza n. 27136 del 15/11/2017; Sez. L, Sentenza n. 9054 del 15/04/2013).
7.2.- Senonché, in base alle risultanze di causa, la clausola di cui all'art. 10 del preliminare di vendita di immobile sulla carta, concluso tra le parti in data 23 maggio 2004, testualmente ha stabilito che il contratto doveva ritenersi nullo - rectius inefficace - nel caso che la promittente venditrice non avesse ottenuto il permesso a costruire e le ulteriori autorizzazioni entro il mese di settembre 2004, con la contestuale previsione della rinuncia del promissario acquirente ad agire, nei confronti del promittente alienante, a titolo di risarcimento dei danni derivanti dalla mancata vendita dell'immobile.
A fronte del richiamato contenuto letterale della clausola, il Giudice di primo grado e il Giudice del gravame hanno ritenuto che fossero stati introdotti un diritto di recesso a vantaggio del promittente alienante e una limitazione di responsabilità, conseguente all'esercizio di detto diritto, ricadenti nell'alveo delle clausole vessatorie o onerose di cui all'art. 1341, secondo comma, c.c., in quanto il contenuto precettivo di tale art. 10 era stato unilateralmente predisposto dal contraente forte, ossia dalla società costruttrice e promittente venditrice, per una serie indefinita di rapporti, senza alcuna possibilità di trattativa tra le parti.
7.3.- Ora, l'opzione ermeneutica cui ha aderito il Giudice di merito non è confortata dai termini letterali contemplati dalla clausola in questione. E ciò atteso che il riconoscimento, in favore di una delle parti, dello ius poenitendi, ai sensi dell'art. 1373 c.c., inserisce nel contratto un diritto potestativo di sciogliersi ad nutum dal negozio, attraverso una semplice manifestazione di volontà da comunicare alla controparte. Tale evenienza è, per definizione, ontologicamente diversa dalla previsione secondo cui l'efficacia del negozio è subordinata (in via sospensiva o in via risolutiva) alla verificazione di un avvenimento futuro e incerto.
Sicché è intrinsecamente contraddittoria la qualificazione in termini di recesso di una previsione contrattuale che subordini lo scioglimento del negozio alla mancata verificazione di un determinato evento ad una certa data.
In proposito, si osserva che la pattuizione, inserita in un preliminare di vendita immobiliare, che preveda la risoluzione ipso iure qualora – con riferimento al bene, che ne costituisce l'oggetto (nella fattispecie in una vendita di appartamenti facenti parte di un fabbricato da costruire) - non vengano rilasciati i permessi a costruire entro una determinata data, per fatto non dipendente dalla volontà delle parti, deve qualificarsi come condizione risolutiva propria, determinando l'effetto risolutivo di quel contratto, evidentemente consistente nella sua sopravvenuta inefficacia, in conseguenza dell'avverarsi di un evento estraneo alla volontà dei contraenti (sebbene specificamente dedotto pattiziamente) nonché dello spirare del termine, pure ritenuto nel loro interesse comune (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 21215 del 27/08/2018; Sez. 2, Sentenza n. 22310 del 30/09/2013; Sez. 2, Sentenza n. 17181 del 24/06/2008).
Ne discende che dal tenore testuale della clausola emerge che la statuizione sull'efficacia del negozio contemplata dall'art. 10 del preliminare dovesse essere ancorata, non già ad una facoltà del predisponente di sciogliersi unilateralmente dal contratto con efficacia ex nunc, bensì ad un avvenimento futuro e incerto con efficacia ex tunc (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 26365 del 16/12/2014; Sez. 2, Sentenza n. 3626 del 07/08/1989; Sez. 3, Sentenza n. 2504 del 18/09/1974).
Difettando qualsiasi riferimento ad una potestà di sciogliersi dal contratto ove ricorra una determinata condizione - ed essendo, per converso, previsto che il preliminare non abbia efficacia qualora la condizione stabilita non si verifichi entro la data indicata -, neanche può ritenersi che si tratti dell'attribuzione ad una delle parti della facoltà di recesso subordinata ad un avvenimento futuro ed incerto (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 2873 del 19/05/1979).
Tanto più che la clausola con la quale si attribuisce ad uno o ad entrambi i contraenti la facoltà di recesso ex art. 1373 c.c., siccome derogativa al principio generale per il quale il contratto ha forza di legge tra le parti, pur non richiedendo alcuna formula sacramentale, deve essere sempre redatta in termini inequivoci, tali da non lasciare alcun dubbio circa la volontà dei contraenti di inserirla nel negozio da loro sottoscritto (Cass. Sez. L, Sentenza n. 987 del 12/02/1990; Sez. 2, Sentenza n. 8776 del 26/11/1987; Sez. 2, Sentenza n. 7579 del 22/12/1983). Dubbi che, per quanto anzidetto, ricorrono nel caso in disputa, così da escludere la sua qualificazione giuridica in termini di recesso convenzionale.
7.4.- Poiché con il motivo dedotto è stato posto il tema della qualificazione giuridica di un istituto negoziale, il procedimento ermeneutico che ne è conseguito, secondo i termini innanzi esposti, non può essere limitato alla mera confutazione della ricostruzione dell'istituto offerta dal Giudice del merito (quale recesso), ma impone di individuarne l'inquadramento sistematico alternativo (quale condizione risolutiva), poiché i due passaggi, confutativo e ricostruttivo, non sono connotati da uno stacco logico, ma costituiscono le mere fasi interne ad un unitario giudizio di valore e si compendiano secondo un nesso di causalità deontologica (non è recesso, perché si tratta di condizione risolutiva).
Su tale inquadramento alternativo non esercita alcun vincolo l'opzione alternativa prospettata dalla ricorrente (che ha ipotizzato che si trattasse non di recesso, bensì di condizione sospensiva), in applicazione del principio iura novit curia, rimanendo pertanto sempre salva la possibilità per il giudice di assegnare un diverso nomen iuris all'istituto giuridico, sulla scorta della pacifica premessa fattuale dedotta.
Infatti, il procedimento ermeneutico volto all'accertamento della esatta qualificazione giuridica di un negozio consta di una duplicità di fasi consistenti, la prima, nella individuazione ed interpretazione della comune volontà dei contraenti, la seconda, nell'inquadramento della fattispecie negoziale nello schema legale paradigmatico corrispondente agli elementi (in precedenza individuati) che ne caratterizzano la esistenza giuridica: mentre le operazioni ermeneutiche attinenti alla prima fase costituiscono espressione dell'attività tipica del giudizio di merito, il cui risultato, concretandosi in un accertamento di fatto, non è sindacabile in sede di legittimità (salvo il limite della inadeguatezza della motivazione e della patente violazione delle regole codicistiche di interpretazione), quelle relative alla seconda possono formare oggetto di verifica e di riscontro in sede di legittimità in ordine sia alla descrizione del modello tipico della fattispecie giuridica, sia alla rilevanza qualificante gli elementi di fatto emergenti dalla fattispecie concreta, sia, infine, alla individuazione delle implicazioni effettuali conseguenti alla sussunzione di quest'ultima nel paradigma normativo (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 15603 del 04/06/2021; Sez. L, Sentenza n. 3115 del 09/02/2021; Sez. 1, Ordinanza n. 29111 del 05/12/2017; Sez. 3, Sentenza n. 5387 del 16/06/1997).
7.5.- Il descritto approdo esegetico esclude in radice che si rientri nell'ambito delle clausole vessatorie di cui all'art. 1341, secondo comma, c.c., non solo con riguardo all'ipotizzata previsione di un diritto di recesso - in realtà non prospettato dalla clausola - , ma anche con riferimento all'esclusione del diritto al risarcimento dei danni in favore del promissario acquirente ove il preliminare si fosse sciolto per il mancato avveramento dell'evento futuro e incerto entro la data indicata, appunto perché tale precisazione costituiva un mero corollario dello scioglimento del negozio all'esito del mancato avveramento dell'evento.
8.- L'accoglimento del quarto motivo determina l'assorbimento dei rimanenti motivi, tutti volti a infirmare l'assunto della sentenza impugnata in forza del quale la clausola di cui all'art. 10 del preliminare esigesse la doppia sottoscrizione, sul presupposto - innanzi disatteso - che essa avesse introdotto una facoltà di recesso.
9.- Alle considerazioni innanzi espresse consegue l'accoglimento del quarto motivo, nei sensi di cui in motivazione, rimanendo assorbiti i rimanenti motivi.
La sentenza impugnata va cassata, con rinvio della causa alla Corte d'appello di L'Aquila, in diversa composizione, che deciderà uniformandosi ai principi di diritto enunciati e tenendo conto dei rilievi svolti, provvedendo anche alla pronuncia sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione accoglie, nei sensi di cui in motivazione, il quarto motivo, dichiara assorbiti i rimanenti motivi, cassa e rinvia la causa alla Corte d'appello di L'Aquila, in diversa composizione, anche per la regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità.