La stessa coincide con la data della proposizione della domanda giudiziale ovvero con la richiesta stragiudiziale di adempimento.
La vicenda trae origine dall'opposizione al decreto ingiuntivo con il quale il Tribunale di Lecce aveva ingiunto il pagamento di una data somma in favore dell'avvocato a titolo di compensi per l'assistenza professionale svolta dinanzi al giudice amministrativo.
Con la sentenza n. 24481 del 9 agosto 2022, la Corte di Cassazione ha accolto il motivo di ricorso proposto dal...
Svolgimento del processo
1. La (omissis) con citazione del 10/5/2014 proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. 678/2014 emesso dal Tribunale di Lecce in favore dell'avv. (omissis), a titolo di compensi dovuti per l'assistenza prestata dal professionista in vari giudizi svoltisi dinanzi al giudice amministrativo, nei quali aveva difeso l'opponente.
Deduceva di avere già corrisposto all'opposto, nonché all'avv. (omissis) che era stato incaricato della difesa congiunta nei processi amministrativi in relazione ai quali era maturato il compenso, svariate somme, delle quali bisognava tenere conto ai fini della determinazione del compenso.
Inoltre, si doleva del fatto che il valore del giudizio fosse stato determinato in una percentuale pari al 10 % del valore lordo degli appalti, la cui aggiudicazione era stata impugnata in sede amministrativa, aggiungendo che le cause dovevano essere ritenute di valore indeterminabile, trattandosi di giudizi aventi ad oggetto l'impugnazione di atti amministrativi, il che avrebbe determinato una minor quantificazione dei compensi.
Nella resistenza dell'opposto, che contestava la fondatezza dell'opposizione e chiedeva in via subordinata di rideterminare gli onorari nella misura massima spettante in base alle tariffe vigenti, il Tribunale di Lecce, in composizione collegiale, con ordinanza del 25/11/2016, in parziale accoglimento dell'opposizione, revocava il decreto opposto e condannava l'opponente alla minor somma di € 44.892,33, compensando le spese di lite per la metà, ponendo la residua parte a carico dell'opponente.
Riteneva il Tribunale che fosse stata provata l'esistenza del rapporto d'opera intellettuale tra le parti e consistito nella difesa assunta dall'avv. (omissis) in numerosi processi amministrativi intentati su iniziativa dell'opponente.
Quanto alla difesa congiunta assunta anche dall'avv. (omissis), l'ordinanza osservava che ai sensi dell'art. 7 del DM n. 127/2004, applicabile alla fattispecie, in caso di difesa da parte di più legali, ognuno ha il diritto a pretendere dal cliente gli onorari per l'attività prestata, così che l'avv. (omissis) aveva il diritto a richiedere il compenso per l'attività svolta, senza che potesse influire su tale richiesta quanto eventualmente versato all'altro professionista.
Inoltre, la (omissis) non aveva specificamente contestato l'effettivo svolgimento da parte dell'opposto delle attività per le quali era stato richiesto il decreto ingiuntivo, né aveva dedotto che si trattasse di attività in concreto svolte solo dall'avv. (omissis)
In merito allo scaglione da applicare per la liquidazione, il Tribunale rilevava che si trattava di giudizi di impugnazione di atti amministravi, sicché occorreva considerare le cause di valore indeterminabile, senza quindi poter fare riferimento al valore economico degli appalti le cui aggiudicazioni erano oggetto di impugnativa.
Inoltre, nella determinazione del compenso dovuto, bisognava far riferimento ai valori medi, tenuto conto delle caratteristiche, dell'urgenza, del pregio dell'attività prestata, nonché delle difficoltà e del valore dell'affare, delle condizioni soggettive del cliente, dei risultati conseguiti, del numero e della difficoltà delle questioni in diritto ed in fatto trattate.
Procedeva quindi a ricalcolare sulla base di tali criteri compensi dovuti, ed in relazione ai singoli giudizi indicati nel ricorso monitorio, risultando un importo complessivo di € 69.446,50 oltre rimborso forfetario, Iva e CA, occorrendo però escludere, attesa la difformità tra la liquidazione giudiziale e la valutazione svolta dal Consiglio dell'Ordine, le spese per l'emissione dei pareri di congruità.
Dagli atti risultava, poi, che l'avv. (omissis) avesse ricevuto vari versamenti e che il Consiglio di Stato avesse riconosciuto all'avv. (omissis) la distrazione delle spese del giudizio definito con la sentenza n. 1392/2011, per un ammontare di€ 6.145,60.
Occorreva altresì detrarre la somma di € 9.000,00 versata in contanti al (omissis), che andava imputata ai giudizi iscritti dinanzi al Tar Puglia Lecce n. 360/2009 e 101/2010 e dinanzi al Consiglio di Stato in appello, ai nn. 9862/2009 e 4238/2010, non essendo credibile la tesi dell'opposto secondo cui si tratterebbe di pagamento imputabile ad un diverso giudizio nel quale aveva assistito l'opponente, atteso che per tale giudizio risultava già emessa altra fattura recante la dicitura "a saldo spese e competenze professionali".
Infine, occorreva detrarre anche la somma di € 4.761,32 corrispondente alle ritenute d'acconto operate dall'opponente e riportata nelle fatture in atti.
Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso la (omissis).
L'avv. (omissis), sulla base di due motivi, resiste con controricorso, proponendo a sua volta ricorso incidentale affidato a sette motivi.
Entrambe le parti hanno depositato memorie in prossimità dell'udienza.
2.1 Con ordinanza interlocutoria n. 27726 del 12 ottobre 2021, la causa è stata rinviata a nuovo ruolo in attesa della decisione delle Sezioni Unite sulla questione relativa alle conseguenze dell'erronea scelta della forma dell'atto di opposizione, ed è stata poi fissata per la pubblica udienza del 24 febbraio 2022, in prossimità della quale entrambe le parti hanno nuovamente depositato memorie.
Motivi della decisione
1. Il primo motivo del ricorso principale denuncia la violazione dell'art, 7 del DM n. 127/2004, per come costantemente interpretato in sede di legittimità, con la violazione altresì dell'art. 2697 c.c.
Si deduce che era stato evidenziato che l'avv. (omissis) aveva difeso nella varie cause amministrative il ricorrente unitamente all'avv. (omissis), sicché, in base all'art. 7 citato, all'opposto andavano riconosciuti compensi solo per le attività effettivamente svolte.
Si è trascurato che tra due professionisti esiste un'associazione professionale e che nelle varie richieste avanzate dagli stessi non erano mai state specificamente indicate le prestazioni rese in maniera individuale, avendo i professionisti attestato di avere svolto genericamente prestazioni professionali.
Ne deriva che in tal modo avrebbero duplicato il diritto al pagamento del compenso, percependo entrambi gli onorari per le medesime attività.
Pertanto, dagli importi dovuti devono detrarsi gli acconti ed versamenti effettuati in favore dell'altro codifensore.
1.1. Il motivo deve essere disatteso.
In primo luogo, pecca evidentemente di specificità, in quanto non documenta adeguatamente l'esistenza dell'associazione professionale tra i due difensori che hanno assistito la ricorrente nei giudizi amministrativi (e ciò a fronte della contestazione del controricorrente secondo cui il cognome (omissis) riportato nell'intestazione delle fatture, sarebbe riferibile a diverso professionista, solo omonimo dell'avv. (omissis) (omissis)
Ancora il difetto di specificità ex art. 366 co. 1 n. 6 c.p.c. si rileva nella parte in cui si assume la medesimezza delle prestazioni oggetto di richiesta di compenso da parte del (omissis) e di quelle oggetto delle richieste anche dell'avv. (omissis) (omissis), sul presupposto che tale identità emergerebbe dalle fatture rispettivamente emesse, omettendo però di riportare in ricorso il contenuto delle stesse e soprattutto di evidenziare quali siano in dettaglio le prestazioni di cui si denuncia la duplicazione di compensi. Il motivo è comunque infondato.
Infatti, come da principio richiamato dallo stesso ricorrente, nel caso in cui più avvocati siano incaricati della difesa in un procedimento civile, ciascuno di essi ha diritto all'onorario nei confronti del cliente solo in base all'opera effettivamente prestata, in virtù del principio di cui all'art. 6 della legge 13 giugno 1942, n. 794 (Cass. n. 29822/2019), ma come di recente ribadito, va affermato che (Cass. n. 29822/2019) se più avvocati siano incaricati della difesa in un procedimento civile, ciascuno di essi ha diritto all'onorario nei confronti del cliente solo in base all'opera effettivamente prestata, in virtù del principio di cui all'art. 6 della l. n. 794 del 1942, potendosi, peraltro, limitare il diritto al compenso in capo ad ogni procuratore solo previa dimostrazione che lo stesso abbia svolto in parte l'attività professionale per la quale chieda di essere ricompensato.
Ne consegue che tale diritto rimane escluso soltanto se, essendo stato richiesto il pagamento di una sola parcella e non essendo state in essa indicate separatamente le prestazioni di ciascuno degli avvocati, risulta in modo non equivoco una reciproca sostituzione nelle singole prestazioni, poi sommate nella specifica (Cass. Sez. 2, Sentenza n.9242 del 12/07/2000). Se ne ricava che, per potersi configurare una limitazione del diritto al compenso in capo a ciascun singolo procuratore, si deve dimostrare che lo stesso ha svolto solo in parte l'attività professionale per la quale chiede di essere ricompensato (cfr. Cass. Sez. 2, Ordinanza n.20554 del 30/08/2017 e Cass. Sez. 2, Ordinanza n.19255 del 19/07/2018, non massimate).
Orbene, e ribadito che nella specie non risulta la presentazione di un'unica parcella da parte dei due difensori, e che in assenza della riproduzione in ricorso del contenuto delle diverse parcelle redatte dall'avv. (omissis), non è dato riscontrare l'identità delle prestazioni per le quali i due professionisti hanno richiesto i compensi, la decisione impugnata si fonda sul rilievo che in realtà con l'atto di opposizione non era stato contestato l'effettivo svolgimento da parte dell'opposto delle attività per le quali era richiesto il pagamento del compenso né si deduceva con specificità quali invece fossero state effettivamente ed unicamente svolte dall'avv.(omissis), ritenendo quindi da tale non contestazione che fosse al di fuori del thema probandum la dimostrazione di avere svolto le prestazioni oggetto della richiesta di pagamento, con la conseguenza che risulta altresì infondata la deduzione circa la violazione dell'art. 2697 c.c.
Solo in sede di ricorso ci si è avveduti del difetto di una contestazione sul punto, ma il contenuto delle difese svolte in sede di merito, così come riportate a pag. 17 del ricorso, non appare idoneo a configurare una contestazione proprio in relazione all'individuazione delle prestazioni effettuate dall'avv. (omissis) ovvero la negazione che le stesse siano state svolte proprio dall'opposto.
Il motivo va quindi disatteso.
2. Il secondo motivo del ricorso principale denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c. con vizio di utrapetizione.
Infatti, il Tribunale, pur avendo individuato il diverso scaglione per la liquidazione dei compensi, correlato alle cause di valore indeterminabile, nel ricalcolare i compensi per il giudizio di cui al n. 1942/2009 dinanzi al TAR Puglia Lecce ( (omissis) c/ Comune di (omissis) + (omissis)) e per quello instaurato dinanzi al Tar Puglia, ed avente il n. 116/2010, poi coltivato in appello dinanzi al Consiglio di Stato con il n. 3009/2010, ha liquidato delle somme di importo superiore a quelle oggetto della richiesta in via monitoria, precisamente € 16.268,09 (a fronte della richiesta di € 15.469,04, per il primo, ed € 24.507,75, a fronte della richiesta di € 21.712,12 per il secondo), incorrendo in tal modo in un'evidente violazione dell'art. 112 c.p.c., in quanto pur essendo il giudice dell'opposizione chiamato a rideterminare le somme dovute, ciò è consentito purché proceda ad una liquidazione di importo inferiore alla richiesta monitoria.
Anche tale motivo deve essere rigettato, occorrendo dare continuità al principio affermato da questa Corte nella sua più autorevole composizione, per cui (Cass. S.U. n. 21675/2013) il giudice dell'opposizione a decreto ingiuntivo riguardante crediti per onorari di avvocato può essere legittimamente investito, da parte del creditore opposto, della richiesta di rideterminazione degli onorari in applicazione di un criterio che determini un maggior credito per quest'ultimo, alla luce dell'ulteriore principio secondo il quale la quantificazione dell'onorario deve essere compiuta sulla base del valore della domanda e non della somma attribuita alla parte vincitrice della sentenza.
Avendo l'opposto, come riportato nella narrazione dei fatti contenuta nell'ordinanza impugnata, sollecitato la rideterminazione degli onorari in misura superiore a quella richiesta in sede monitoria (cfr. pag. 3 del provvedimento gravato), deve escludersi che ricorra la dedotta violazione di legge
3. Il primo motivo del ricorso incidentale, per il quale va disattesa l'eccezione di tardività stante il disposto dell’art. 334 co. 1 c.p.c., non ricorrendo le condizioni dettate per l'inefficacia del ricorso incidentale tardivo di cui al secondo comma dello stesso articolo, denuncia l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 co. 1 n. 5 c.p.c., attesa l'inesatta riproduzione delle conclusioni del ricorrente incidentale operata dal Tribunale, in quanto non sono state richiamate quelle effettivamente rese all'esito delle udienze del 4/2/2016, del 3/5/2016 e del 5/10/2016.
Il motivo è inammissibile.
In primo luogo, in quanto il vizio si sostanzia nella denuncia di un errar in procedendo laddove il motivo riconduce la dedotta violazione alla previsione di cui al n. 5 dell'art. 360 co. 1 c.p.c. In secondo luogo, in quanto la giurisprudenza di questa Corte ha reiteratamente affermato che l'omessa o inesatta trascrizione delle conclusioni delle parti non è di per sé causa di nullità della sentenza, assumendo rilevanza solo se ed in quanto accompagnata dalla mancata considerazione delle stesse da parte del giudice (Cass. n. 11150/2018; Cass. n. 2237/2016, per la quale si ha nullità solo quando tali conclusioni non siano state esaminate, di guisa che sia mancata in concreto una decisione su domande ed eccezioni ritualmente proposte, mentre, ove il loro esame risulti dalla motivazione, il vizio si risolve in una semplice imperfezione formale, irrilevante ai fini della validità della sentenza; Cass. n.n. 18609/2015).
La censura formulata si limita solo a dolersi del fatto che non sarebbero state riprodotte le conclusioni in conformità di quelle rese nel corso delle menzionate udienze, ma la stessa non è in alcun modo accompagnata dall'individuazione delle conseguenze di tale inesattezza e di come la stessa abbia potuto incidere sulla correttezza della decisione raggiunta, il che la rende inammissibile.
4. Il secondo motivo di ricorso incidentale denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 14 del D. Lgs. n. 150/2011 e 702 bis e ss. c.p.c., in quanto il Tribunale ha omesso di considerare l'eccezione di inammissibilità dell'opposizione formulata in relazione alla circostanza che la stessa opposizione era stata tardivamente avanzata con citazione, anziché con ricorso, come invece imposto dall'art. 14 del D. Lgs. n. 150/2011.
Il motivo è privo di fondamento.
Occorre in primo luogo evidenziare che la pretesa dell'avv. (omissis) è correlata all'attività di assistenza giudiziale prestata per giudizi svoltisi in sede amministrativa, il che determina l'inapplicabilità alla fattispecie dell'art. 14 citato, come appunto anche di recente ribadito da Cass. S.U. n. 25938/2018 (secondo cui l'art. 14 del d.lgs. n. 150 del 2011 è relativo alle sole attività professionali svolte nel processo civile, con esclusione di quello penale, amministrativo o davanti ai giudici speciali).
Correttamente, quindi, l'opposizione era stata introdotta con citazione anziché con ricorso, il che già denota l'infondatezza della pretesa del ricorrente incidentale di trarre da tale scelta la conseguenza dell'inammissibilità dell'opposizione.
Tuttavia emerge che il Tribunale, dopo aver disposto il mutamento del rito, sull'erroneo presupposto della sottoposizione della controversia al rito di cui al menzionato art. 14 (seppur con qualche obiezione ad opera del giudice incaricato della trattazione, come si ricava dalla narrazione dei fatti di causa effettuata nel controricorso), è stata decisa con la forma di ordinanza e dal Tribunale in composizione collegiale, e quindi in base alle regole di rito dettate dal sommario speciale di cognizione previsto per gli onorari degli avvocati per le controversie civili.
Tale scelta però, come si avrà modo di chiarire oltre, non è in grado di incidere sulla ammissibilità dell'opposizione inizialmente avanzata con citazione, oltre che per la ragione sopra indicata, anche per la regola, di recente affermata da questa Corte secondo cui l'opposizione ex art. 645 c.p.c. avverso l'ingiunzione ottenuta dall'avvocato nei confronti del proprio cliente ai fini del pagamento degli onorari e delle spese dovute, ai sensi del combinato disposto degli artt. 28 della l.n. 794 del 1942, 633 c.p.c. e 14 del d.lgs. n. 150 del 2011, proposta con atto di citazione, anziché con ricorso ai sensi dell'art. 702 bis c.p.c. e dell'art. 14 del d.lgs. n. 150 del 2011, è da reputare utilmente esperita qualora la citazione sia stata comunque notificata entro il termine di quaranta giorni - di cui all'art. 641 c.p.c. - dal dì della notificazione dell'ingiunzione di pagamento.
4.1 Deve però premettersi che, sebbene la decisione di trattare la controversia secondo le forme del rito sommario di cui all'art. 14 si riveli erronea, stante la materia trattata, in assenza di deduzione dell'errore de quo da parte dei contendenti, resta ferma la regola della ricorribilità in Cassazione dell'ordinanza emessa dal Tribunale in composizione collegiale.
Viene in gioco in tal caso la prevalenza del principio dell'apparenza, quanto all'individuazione delle forme in cui veicolare l'impugnazione del provvedimento emesso.
In tal senso rileva il principio a suo tempo affermato dalle Sezioni Unite, sebbene in relazione al procedimento di cui agli art. 28 e ss. della legge n. 794/1942, poi trasfuso nell'art. 14 del D. Lgs. n. 150 del 2011, a mente del quale (Cass. S.U. n. 390/2011) in tema di opposizione a decreto ingiuntivo per onorari ed altre spettanze dovuti dal cliente al proprio difensore per prestazioni giudiziali civili, al fine di individuare il regime impugnatorio del provvedimento - sentenza oppure ordinanza ex art. 30 della legge 13 giugno 1942, n. 794 - che ha deciso la controversia, assume rilevanza la forma adottata dal giudice, ove la stessa sia frutto di una consapevole scelta, che può essere anche implicita e desumibile dalle modalità con le quali si è in concreto svolto il relativo procedimento (nella specie, le S.U. hanno cassato la sentenza della Corte territoriale che aveva dichiarato inammissibile il gravame avverso la sentenza emessa dal giudice dell'opposizione a decreto ingiuntivo, per somme relative a prestazioni giudiziali civili, reputando che si trattasse, nella sostanza, di ordinanza inappellabile ai sensi dell'art. 30 della legge n. 794 del 1942, nonostante detta sentenza fosse stata emanata all'esito di un procedimento svoltosi completamente nelle forme di un ordinario procedimento civile contenzioso).
Tale principio ha ricevuto poi applicazione anche all'esito della novella del 2011, come si ricava dalla più recente giurisprudenza di questa Corte, che ha appunto affermato che (Cass. n. 24515/2018) il provvedimento con cui è decisa l'opposizione a decreto ingiuntivo riguardante onorari di avvocato, che sia stata introdotta ai sensi dell'art. 702 bis c.p.c., seguendo il rito sommario ordinario codicistico e non quello speciale di cui all'art. 14 d.lgs. n. 150 del 2011, deve essere impugnato con l'appello, secondo il regime previsto dall'art. 702 quater c.p.c., trovando applicazione il principio di apparenza (e ciò a differenza invece del caso in cui la decisione all'esito dell'opposizione a decreto ingiuntivo, emesso per crediti derivanti da prestazioni giudiziali resa da un avvocato sia stata resa all'esito di un giudizio che, sebbene introdotto con atto di citazione e deciso in forma di sentenza, si sia in concreto svolto secondo quanto stabilito dall'art. 14 del d.lgs. n. 150 del 2011, per effetto del mutamento del rito da ordinario a sommario, seguito dalla trasmissione della causa al Presidente del Tribunale e dalla nomina del giudice relatore che, all'esito dell'istruttoria, abbia rimesso le parti al collegio, Cass. n. 10648/2020).
Ancora, è stato affermato che (Cass. n. 186/2020) poiché l'art. 4, comma 2, del d.lgs. n. 150 del 2011 ha fissato un limite per il mutamento del rito, attraverso la previsione di un termine perentorio coincidente con la prima udienza di comparizione delle parti, l'omessa adozione di tale mutamento si riflette anche sul regime di impugnazione, posto che solo l'ordinanza collegiale che conclude il procedimento speciale è ricorribile per cassazione, in base all'art. 14, comma 4, del menzionato decreto, mentre la sentenza è impugnabile con l'appello.
Deve pertanto essere ribadito il principio secondo cui (Cass. n. 26347/2019) anche in seguito all'entrata in vigore dell'art. 14 del d.lgs. n. 150 del 2011, al fine di stabilire il regime di impugnazione del provvedimento con cui si liquidano gli onorari e le altre spettanze dovuti dal cliente al proprio difensore per prestazioni giudiziali civili, assume rilevanza la forma adottata dal giudice in base alla qualificazione che egli abbia dato, implicitamente o esplicitamente, all'azione esercitata in giudizio (conf. Cass. n. 24515/2018; Cass. n. 4904/2018).
Ne consegue che correttamente, e confidando sull'apparenza indotta dall'adozione della decisione con la forma dell'ordinanza da parte del giudice collegiale, è stato proposto ricorso per cassazione.
4.2 Quanto, infine, alla circostanza che l'opposizione sia stata promossa con citazione anziché con ricorso, va ricordato come già in precedenza questa Corte, rimeditando la precedente giurisprudenza, ha ritenuto di dover valorizzare la portata dell'art. 4 del citato D. lgs. n. 150/2011, affermando per l'effetto che l'opposizione ex art. 645 c.p.c. avverso l'ingiunzione ottenuta dall'avvocato nei confronti del proprio cliente ai fini del pagamento degli onorari e delle spese dovute, ai sensi del combinato disposto degli artt. 28 della l. n. 794 del 1942, 633 c.p.c. e 14 del d.lgs. n. 150 del 2011, proposta con atto di citazione, anziché con ricorso ai sensi dell'art. 702 bis c.p.c. e dell'art. 14 del d.lgs. n. 150 del 2011, è da reputare utilmente esperita qualora la citazione sia stata comunque notificata entro il termine di quaranta giorni - di cui all'art. 641 c.p.c. - dal dì della notificazione dell'ingiunzione di pagamento. In tale evenienza, ai sensi dell'art. 4, comma 5, del d.lgs. n. 150 del 2011, gli effetti sostanziali e processuali correlati alla proposizione dell'opposizione si producono alla stregua del rito tempestivamente attivato, ancorché erroneamente prescelto, per cui il giudice adito deve disporre con ordinanza il mutamento del rito, ai sensi dell'art. 4, comma 1, del d.lgs. n. 150 del 2011 (Cass. n. 24069/2019).
Nel caso di specie, lo stesso Tribunale nel provvedimento impugnato ha dato atto che solo il deposito della citazione in opposizione è stato tardivamente effettuato rispetto al termine previsto per l'opposizione, che invece risultava essere stato rispettato in relazione al diverso momento della notifica.
4.3 Va poi ricordato che Cass. S.U. n. 758/2022, nel risolvere il contrasto manifestatosi presso questa Corte, in vista della corretta applicazione della previsione di cui al comma 5 dell'art. 14 del D. Lgs. n. 150/2011, essendosi da parte di alcuni arresti sostenuto che la sanatoria dalla stessa norma prevista presupponesse sempre l'adozione di un'ordinanza di mutamento del rito da parte del giudice adito, ha invece sottolineato che, come emerge dalla Relazione illustrativa dello schema del decreto legislative n. 150 del 2011, il legislatore delegato si è mosso nella direzione di «ridurre al minimo l'ambito temporale di incertezza sulle regole destinate a disciplinare il processo, al fine di scongiurare vizi procedurali che, riverberandosi a catena su tutta l'attività successiva, possano far regredire il processo, in contraddizione con i principi di economia processuale e di ragionevole durata sanciti dall'articolo 111 della Costituzione». Ne deriva che il potenziale consolidamento del rito erroneamente seguito (in conseguenza dell'errore nella scelta della forma dell'atto introduttivo) trova la sua disciplina nella disposizione del quinto comma, la quale sancisce espressamente che «gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono secondo le norme del rito seguito prima del mutamento». Ciò comporta che la domanda giudiziale avanzata in forma non corretta (citazione anziché ricorso e viceversa) produce i suoi effetti propri, da valutare secondo il modello concretamente seguito, seppur difforme da quello legale, ferme restando «le decadenze e le preclusioni maturate secondo le norme del rito seguito prima del mutamento» (art. 4, comma 5). Se ne ricava, dunque, un principio di «fungibilità tra i riti» - contrariamente a quanto previsto dalle norme codicistiche secondo cui la riconduzione al rito voluto dalla legge non incontra barriere preclusive (artt. 426 e 427 c.p.c.) ed è consentita anche in appello (art. 439 c.p.c.) - poiché, pur nella loro diversità e nonostante l'attribuzione ad ognuno di essi di un ambito applicativo preferenziale, ciascuno assicura il giusto processo.
Le Sezioni Unite hanno quindi rimarcato il carattere innovativo dell'art. 4, comma 5, che ha ammesso una sanatoria piena degli effetti processuali e sostanziali prodotti dalla domanda originariamente proposta (secondo il rito erroneo concretamente applicato) e, quindi, ha escluso che l'errore sulla forma dell'atto introduttivo possa riflettersi sulla tempestività dell'opposizione stessa, tranne quando si siano maturate decadenze e preclusioni (che «restano ferme») secondo le norme seguite precedentemente.
La ratio dell'art. 4, comma 5, consiste, infatti, nell'esigenza «di escludere in modo univoco l'efficacia retroattiva del provvedimento che dispone il mutamento medesimo»: ne consegue che le norme che disciplinano il rito seguito prima del mutamento rilevano come parametro di valutazione di legittimità dell'atto introduttivo del giudizio, nel senso che gli effetti sostanziali e processuali della domanda vanno delibati secondo il rito (erroneo) concretamente applicato sino ad allora, e non in base al diverso rito che avrebbe dovuto essere invece seguito, senza possibilità di applicare a ritroso preclusioni riconducibili al nuovo rito da seguire nel successivo corso del procedimento.
L'ordinanza di mutamento del rito, ove intervenga, ha quindi una rilevanza costitutiva, senza che le norme che regolano il nuovo rito diventino parametro di valutazione della legittimità degli atti già compiuti.
All'atto introduttivo, ancorché erroneamente individuato, va assegnata la utile e proficua produzione degli effetti processuali e sostanziali correlati al rito erroneamente prescelto, relegando l'ordinanza di mutamento del rito ad un evento successivo, valevole pro-futuro e inidoneo ad incidere ex post sulla domanda, o a convalidarne gli effetti (già realizzatisi), o ad impedire «le decadenze e le preclusioni maturate secondo le norme del rito seguito prima del mutamento».
Gli effetti, sostanziali e processuali, della domanda irritualmente avanzata si producono alla stregua del rito concretamente adottato, non soltanto quando il giudice di primo grado abbia adottato tempestivamente l'ordinanza di mutamento, ma anche quando tale provvedimento sia mancato, con conseguente consolidamento o stabilizzazione del rito erroneo.
E' stato altresì sottolineato che le regole sul rito processuale non hanno copertura costituzionale quando non incidano negativamente sul contraddittorio e sull'esercizio del diritto difesa, come confermato dal fatto che dall'adozione di un rito erroneo non deriva alcuna nullità, né la stessa può essere dedotta quale motivo di gravame, a meno che l'errore non abbia inciso sul contraddittorio o sull'esercizio del diritto di difesa o non abbia, in generale, cagionato un qualsivoglia altro specifico pregiudizio processuale alla parte (cfr., ex plurimis, Cass., sez. I, n. 12567 del 2021; sez. III, n. 1448 del 2015; sez. L., n. 8422 del 2018; sez. II, n. 22075 del 2014).
Per l'effetto è stato formulato il seguente principio di diritto: nei procedimenti «semplificati» disciplinati dal d.lgs. n. 150 del 2011, nel caso in cui l'atto introduttivo sia proposto con citazione, anziché con ricorso eventualmente previsto dalla legge, il procedimento - a norma dell'art. 4 del d. lgs. n. 150 del 2011 - è correttamente instaurato se la citazione sia notificata tempestivamente, producendo essa gli effetti sostanziali e processuali che le sono propri, ferme restando le decadenze e preclusioni maturate secondo il rito erroneamente prescelto dalla parte; tale sanatoria piena si realizza indipendentemente dalla pronuncia dell'ordinanza di mutamento del rito da parte del giudice, la quale opera solo pro futuro, ossia ai fini del rito da seguire all'esito della conversione, senza penalizzanti effetti retroattivi, restando fermi quelli, sostanziali e processuali, riconducibili all'atto introduttivo, sulla scorta della forma da questo in concreto assunta e non a quella che esso avrebbe dovuto avere, dovendosi avere riguardo alla data di notifica della citazione effettuata quando la legge prescrive il ricorso o, viceversa, alla data di deposito del ricorso quando la legge prescrive l'atto di citazione.
Ciò comporta che avendo il cliente proposto opposizione con citazione notificata nel rispetto del termine all'uopo previsto dalla legge, il successivo mutamento del rito disposto dal giudice non può influire sulla valutazione di tempestività da condurre sulla scorta del rito processuale inizialmente scelto dalla parte.
5. Il terzo motivo del ricorso incidentale denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 25 e 64 del DPR n. 600/1973, degli artt. 1 e ss. del DPR n. 633/1972, con omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 co. 1 n. 5 c.p.c.
Si deduce che la determinazione dei compensi da parte del Tribunale è frutto di errori di calcolo gravi e grossolani, quanto all'individuazione delle somme che sarebbero state percepite dal ricorrente incidentale.
La sentenza ha, infatti, decurtato il credito professionale di una serie di versamenti che però non attengono al capitale, ma al pagamento di spese vive ed accessori ed alla ritenuta di acconto.
Il motivo in parte qua è evidentemente inammissibile perché redatto in violazione del principio di specificità di cui all'art. 366 co. 1, n. 6, c.p.c.
L'ordinanza gravata, a pagg. 6 e 7, ha individuato effettivamente una serie di pagamenti effettuati dall'opponente indicandoli però essenzialmente tramite il riferimento al numero della fattura, aggiungendo poi la somma di € 6.145,60, quale effetto della distrazione delle spese in favore dell'opposto disposta dal giudice amministrativo in uno dei giudizi, e quella di € 4. 761,32, corrispondente alle ritenute di acconto operate dall'opponente in occasione dei vari pagamenti.
In motivo, si assume che però alcune delle fatture in questione sarebbero riferibili all'anticipazione anche di spese vive, ma la deduzione è stata svolta in maniera apodittica, senza riportare il contenuto delle fatture stesse, né indicare ove le stesse siano attualmente reperibili all'interno delle produzioni di parte relative alle fasi di merito.
5.1 Analogamente generica e priva di adeguato riscontro è l'affermazione secondo cui delle somme di cui è stata disposta la distrazione, una parte sarebbe da addebitare ad accessori, a fronte della somma di € 5.000,00 riconosciuta dal Consiglio di Stato quale importo delle spese dovute dal soccombente.
Inoltre, è del tutto destituita di fondamento la pretesa di non prendere in esame le ritenute di acconto, e ciò alla luce del principio secondo cui la ritenuta in questione è obbligatoria (cfr. Cass. n. 7879/1991) per tutti i pagamenti di compensi per prestazioni d'opera professionale, e ciò anche nel caso in cui il pagamento sia eseguito da un terzo diverso dal debitore (Cass. S.U. n. 9332/1996; Cass. n. 9702/2020).
E' evidente quindi che anche nel caso di pagamento di acconti, il solvens debba effettuare la ritenuta di acconto e che della stessa debba tenersi conto, ai fini della determinazione del credito ancora dovuto al professionista.
5.2 Infine, investe un evidente apprezzamento di fatto, adottato dal Tribunale con congrua ed adeguata motivazione, la contestazione circa l'imputazione del pagamento in contanti della somma di € 9.000,00 al credito azionato in via monitoria, avendo la decisione gravata evidenziato le ragioni per le quali non poteva accedersi alla diversa imputazione suggerita dall'opposto, essendo la stessa contrastata proprio dal tenore della fattura emessa per il diverso affare cui si voleva correlare la dazione della somma, fattura che recava l'indicazione di saldo spese e competenze professionali, e che lasciava intendere che nulla quindi fosse ancora dovuto per tale diverso rapporto.
6. Il quarto motivo del ricorso incidentale denuncia la violazione e falsa applicazione degli art. 633 e 636 co. 1 c.p.c., nella parte in cui il Tribunale ha escluso il diritto dell'opposto a recuperare dalla controparte i costi sostenuti per i pareri di congruità emessi dal Consiglio dell'Ordine sulle parcelle poste a fondamento della domanda monitoria.
Si tratta di una spesa imposta per la stessa ammissibilità della domanda monitoria e quindi non poteva essere negata.
Il motivo è infondato, ritenendo il Collegio di dover dare continuità al principio secondo cui (cfr. Cass. n. 12681/2017) in una controversia avente ad oggetto il pagamento del compenso in favore di un avvocato per le prestazioni professionali rese in favore del cliente, le spese sostenute per ottenere il parere del Consiglio dell'Ordine sotteso alla propria richiesta devono restare a carico del professionista, ove la relativa pretesa sia in tutto, ovvero in parte, infondata. (principio affermato con riferimento ad un caso di opposizione a decreto ingiuntivo adottato sulla base del parere reso dal Consiglio dell'Ordine degli Avvocati, conclusasi con la revoca del decreto medesimo, conseguente all'accoglimento, solo parziale, della pretesa del difensore; conf. Cass. n. 705/1983).
E' quindi incensurabile, atteso il parziale accoglimento dell'opposizione, la decisione del Tribunale di escludere il diritto al rimborso della spesa in questione.
7. Il quinto motivo del ricorso incidentale lamenta la violazione e falsa applicazione degli art. 6 co. 2, 3 e 4 del DM n. 127/2004, 6 CO. 3 e 4 del DM n. 585/1994 e del DM n. 55/2014 nella parte in cui il Tribunale ha operato la liquidazione dei compensi sulla base dello scaglione tariffario previsto per le cause di valore indeterminabile, e secondo i valori medi.
In primo luogo, la censura evidenzia che la scelta in sede monitoria di effettuare il calcolo sulla base dei valori medi nasceva dal fatto che si era ritenuto che il valore della causa fosse pari al 10% del valore dei contratti di appalto cui si riferivano gli atti impugnati, sicché, una volta esclusa l'applicazione di tale metodo occorreva far riferimento ai massimi tariffari.
Inoltre, si contesta la correttezza della soluzione adottata nell'ordinanza gravata in quanto il giudizio in sede amministrativa investiva anche la caducazione del contratto con la possibilità dell'impugnante di potervi subentrare, con un evidente incremento patrimoniale.
Il motivo è infondato.
Questa Corte ha anche di recente confermato la propria giurisprudenza secondo cui, in tema di determinazione degli onorari di avvocato, ai sensi dell'art. 6 della tariffa forense approvata con d.m. n. 585 del 1994 (applicabile "ratione temporis"), va considerata di valore indeterminabile la controversia introdotta innanzi al giudice amministrativo per l'annullamento di un atto, poiché la "causa petendi" della domanda è l'illegittimità dell'atto stesso, mentre il "petitum" è la sua eliminazione, senza che rilevino eventuali risvolti patrimoniali della vicenda (Cass. n. 15061/2018 che in applicazione dell'enunciato principio ha escluso che incidesse sul valore della controversia l'incremento del patrimonio comunale, consistito nell'acquisizione di trenta appartamenti, indirettamente riconducibile ai provvedimenti amministrativi impugnati, in quanto i giudizi in questione erano finalizzati al semplice accertamento della legittimità dei detti provvedimenti; conf. Cass. n. 1754/2013).
E' poi inammissibile, in quanto impinge in un apprezzamento discrezionale, esclusivamente riservato al giudice di merito, la censura secondo cui non poteva farsi applicazione degli onorari medi per tutte le controversie poste a fondamento della domanda monitoria, occorrendo invece differenziare l'importanza dei vari giudizi, avendo invece sul punto il Tribunale chiaramente espresso la propria valutazione (e ciò anche a voler superare il fatto che la differenza di difficoltà e di importanza delle varie controversie è solamente affermata in ricorso, ma senza che sia stata adeguatamente specificata ed illustrata).
8. Il sesto motivo di ricorso incidentale denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e ss. del D. Lgs. n. 231/2002 e degli artt. 112 e 115 c.p.c. quanto alla mancata attribuzione sulle somme dovute degli interessi moratori, già riconosciuti in sede monitoria.
Si evidenzia che tali interessi sono invece dovuti e che dovevano farsi decorrere dalla messa in mora da individuare nella ricezione della parcella da parte dell'opponente.
Effettivamente l'ordinanza impugnata, nel rideterminare il credito complessivamente dovuto al ricorrente incidentale, ha omesso ogni riferimento alla debenza altresì degli interessi di mora, dovendosi quindi opinare nel senso che gli stessi non possano che decorrere dalla data della stessa decisione.
Trattasi peraltro di soluzione che ha trovato il conforto di numero precedenti di questa Corte, dai quali è possibile ricavare il principio secondo cui, in tema di liquidazione di diritti ed onorari di avvocato e procuratore a carico del cliente, la disposizione (comune alle tre tariffe forensi) contenuta nel d.m. n. 238 del 1992, applicabile "ratione temporis", per la quale gli interessi di mora decorrono dal terzo mese successivo all'invio della parcella, non si applica in ipotesi di controversia avente ad oggetto il compenso tra avvocato e cliente, non potendo quest'ultimo essere ritenuto in mora prima della liquidazione delle somme dovute con l'ordinanza che conclude il procedimento ex articolo 28 della legge n. 794 del 1942 (così da ultimo Cass. n. n. 17655/2018, che però reputa necessario distinguere la liquidazione effettuata con il procedimento speciale di cui al citato articolo 28 - ora regolato dall'art. 14 del D. Lgs. n. 150/2011 - da quella effettuata con decreto ingiuntivo, per la quale gli interessi richiesti dal ricorrente decorrono dalla notifica dello stesso e non dalla pubblicazione della sentenza che definisce l'opposizione).
Siffatta regola era stata ancor prima precisata da Cass. n. 2954/2016, che aveva appunto riprodotto la distinzione tra liquidazione effettuata con il procedimento camerale di cui all'art. 28 e liquidazione avvenuta con decreto ingiuntivo, sostenendosi che nel primo caso il debitore non può essere ritenuto in mora prima della liquidazione delle somme dovute con l'ordinanza che conclude il procedimento ex art. 28 della l. n. 794 del 1942, sicché è da tale data che, entro i limiti degli importi riconosciuti dal giudice, decorrono gli interessi (in senso conforme (Cass. 29 maggio 1999 n. 5240; Cass. 7 giugno 2005 n. 11777; Cass. 2 febbraio 2011 n. 2431; Cass. n. 13586 del 17/12/1991, e la più remota cui sembra risalire per la prima volta l'affermazione di tale regola, Cass. n. 3995 del 11/06/1988).
In particolare, Cass. n. 20806/2011, nel riepilogare gli argomenti che deporrebbero a favore di questa conclusione, nel ribadire che la semplice redazione della parcella, poi spedita ai clienti, non è idonea a far decorrere gli interessi di mora, pur consapevole del fatto che la mora non presupponga necessariamente la liquidità del credito - non essendo stato riprodotto, nella sua assolutezza, nel nostro ordinamento il principio, tipico del diritto romano, secondo il quale "in illiquidis non fit mora" - ha però ritenuto che è pur sempre necessario, affinché sia configurabile il colpevole ritardo nel pagamento del debito, che sussista una sufficiente certezza del suo ammontare, con la conseguenza che, quando la determinazione dell'esatto valore di un'obbligazione pecuniaria sia rimessa al giudice, la costituzione in mora può aversi, di regola, solo con la domanda giudiziale, con l'atto cioè che rende attuale l'esercizio di quel potere da parte del medesimo giudice (conf. Cass. n. 4561/1993).
Pertanto, nel caso in cui nel giudizio avente ad oggetto la determinazione del credito per prestazioni professionali, nell'ambito del quale al giudice, in presenza di una contestazione non meramente pretestuosa del cliente, si chiede di determinare non solo se la pretesa del difensore si sia mantenuta entro i limiti della tariffa ma anche se la medesima sia "congrua", risulterebbe essenziale la liquidazione giudiziale, essendo demandato al giudice di valutare la rilevanza della materia controversa al fine di determinare lo "scaglione" tariffario applicabile e, nell'ambito di un minimo ed un massimo, dare rilevanza - con provvedimento discrezionale - ad elementi non obiettivamente ponderabili al momento della spedizione della parcella, quali l'importanza dei risultati conseguiti, il pregio dell'opera professionale e le difficoltà incontrate nell'espletamento dell'incarico.
Inoltre pur ribadendosi che il decreto ingiuntivo su notule professionali contiene già una liquidazione del credito stesso, all'esito della delibazione - provvisoria ma tendenzialmente idonea a divenire definitiva in caso di mancanza di opposizione - della documentazione offerta dal ricorrente, con la conseguenza che la notifica del decreto stesso riveste la funzione di domanda giudiziale e costituisce primo atto di rituale messa in mora, la decisione però ribadisce che nel procedimento ex art. 28 la mora decorre solo dalla liquidazione.
8.1 A tale orientamento se ne contrappone un altro che si è sviluppato nel corso degli anni dando vita ad un contrasto obiettivamente sincronico, e proprio in relazione al diritto agli interessi di mora per i crediti del professionista legale.
Il fondamento teorico di tale diversa soluzione è rappresentato dal principio anche di recente riaffermato secondo cui la liquidità del debito non è condizione necessaria della costituzione in mora, nel nostro ordinamento non valendo il principio "in illiquidis non fit mora", con la conseguenza che, in caso di contestazione dell'entità del credito, l'atto di costituzione in mora produce i suoi effetti tipici, con riguardo agli interessi moratori, limitatamente alla parte del credito riconosciuta (principio che trova una delle sue più risalenti affermazioni in Cass. n. 1105/1959, per la quale sussiste la mora del debitore, e cioè il ritardo colpevole ad adempiere, quando la mancata o ritardata liquidazione sia conseguente alla condotta ingiustificatamente dilatoria del debitore, e, in genere, al fatto doloso o colposo di lui, quale è il suo illegittimo comportamento processuale per avere egli, a torto, contestato in radice la propria obbligazione; in tal caso, legittimamente, quindi, la sentenza che liquida l'obbligazione inadempiuta stabilisce la decorrenza degli interessi moratori dalla data della interpellatio; conf. Cass. n. 1813/1976; Cass. n. 4413/1980, secondo cui una volta avvenuta la messa in mora, l'insorgere di contestazioni sull'an o sul quantum ed il conseguente accertamento giudiziale non modificano la decorrenza degli interessi di mora che decorrono, sulla somma che sia stata accertata come dovuta, dal giorno in cui sia avvenuta la costituzione in mora del debitore; Cass. n. 9510/2014).
Il principio così individuato è stato poi specificamente declinato in relazione ai crediti professionali dell'avvocato da Cass. n. 11736/1998, secondo cui l'invio della notula contenente la richiesta di pagamento dei compensi integra tutti gli estremi dell'atto di costituzione in mora, idoneo (ove giunto a conoscenza del destinatario) a dispiegare effetti sia ai fini della decorrenza degli interessi che del calcolo del maggior danno ex art. 1124, secondo comma cod. civ., senza che assuma, in contrario, alcun rilievo la (eventuale) contestazione del credito da parte del cliente, non vigendo nel nostro ordinamento il principio romanistico "in illiquidis non fit mora" (con la conseguenza che l'atto di costituzione in mora produrrà i suoi effetti tipici limitatamente alla parte del credito che risulterà in concreto dovuta).
La sentenza, nel rilevare l'illegittimità delle previsioni regolamentari all'epoca introdotte dalle tariffe professionali, secondo cui all'avvocato erano dovuti gli interessi e la rivalutazione monetaria dopo che fossero trascorsi tre mesi dall'invio della parcella senza contestazioni, non potendo una norma regolamentare introdurre una deroga ai principi generali in materia di obbligazioni, ha però ricordato che, proprio facendo applicazione delle regole e dei principi codicistici in tema di inadempimento di obbligazioni pecuniarie, gli interessi non potevano che decorrere dall'atto di costituzione in mora da identificarsi nell'invio della parcella (conf. Cass. n. 8865/87; Cass. n. 5772/97; Cass. n. 9514/96), e ciò in quanto il credito del professionista, al pari di qualsiasi altro credito, non può che trovare tutela nella detta disciplina generale.
La richiesta di pagamento per una somma maggiore o minore non esclude che il credito sia sufficientemente identificato, sicché è valida, ai fini della costituzione in mora, anche la richiesta di una somma maggiore, ma l'atto di costituzione in mora produce i suoi effetti limitatamente alla parte di credito non contestata ovvero a quella che risulterà all'esito dell'accertamento giudiziale (in termini Cass. n. 6064/1979).
In linea con questo orientamento si pone anche Cass. n. 4712/1994, che espone le ragioni del proprio dissenso da Cass. n. 3995/1988 che, come detto, aveva inaugurato l'orientamento della decorrenza degli interessi di mora dalla data della decisione del procedimento ex art. 28, ricordando che il principio in illiquidis non fit mora non trova applicazione quando il credito sia facilmente liquidabile in base a tariffe professionali ovvero quando il debitore frapponga ostacoli ingiustificati alla liquidazione del debito, occorrendo limitare la portata di Cass. n. 3995/1998 alla necessità di disapplicare le previsioni regolamentari di cui alle tariffe forensi che, in aggiunta agli interessi, riconoscevano al professionista anche la rivalutazione, in quanto derogando alla norma generale in tema di inadempimento delle obbligazioni pecuniarie di cui all'art. 1224 c.c., esorbitavano dai limiti del potere regolamentare del Consiglio nazionale forense ristretto alla fissazione dei criteri per la determinazione degli onorari, diritti ed indennità spettanti agli avvocati e procuratori per la loro opera processionale.
8.2 Così riassunti i termini del dibattito giurisprudenziale, reputa il Collegio che il contrasto debba essere risolto a favore della soluzione che ritiene che anche per i crediti professionali derivanti dallo svolgimento dell'attività di avvocato gli interessi debbano essere fatti decorrere dalla messa in mora, e ciò anche nel caso in cui alla liquidazione si pervenga all'esito del procedimento di cui all'art. 14 del D. Lgs. n. 150/2011.
Depone a favore di tale soluzione il rilievo, più volte sottolineato che nel nostro ordinamento non è stato riproposto il principio romanistico in illiquidis non fit mora, e che pertanto, non ravvisandosi valide ragioni per differenziare il diritto di credito dell'avvocato da quello degli altri creditori, non è dato dettare una regola differente solo in tale ambito.
Va altresì ricordato che sussiste la mora del debitore e cioè il ritardo colpevole di lui ad adempiere quando la mancata o ritardata liquidazione sia conseguente alla condotta ingiustificatamente dilatoria del debitore e, in genere al fatto doloso o colposo, quale è il suo legittimo comportamento processuale per avere egli a torto contestata la propria obbligazione.
Ne consegue che la sentenza ovvero l'ordinanza che liquidano l'obbligazione inadempiuta legittimamente stabiliscono la decorrenza degli interessi moratori dalla data della interpellatio, sempre che la stessa permetta al debitore di comprendere le ragioni in base alle quali il pagamento gli viene richiesto.
La liquidità del credito non è, come detto, un requisito per la mora, anche nel caso in cui ad essere oggetto della domanda sia un'obbligazione di valuta, quale il credito professionale dell'avvocato.
Infatti, ancorché la mora presupponga la colpa del debitore, tale colpa va esclusa nel caso in cui il debitore sia impossibilitato in maniera assoluta, alla stregua dell'ordinaria diligenza, a quantificare la prestazione dovuta, ma non anche nel diverso caso in cui, pur a fronte di un credito ancora illiquido, sia data al debitore la possibilità di compierne una stima, anche sulla scorta, nel caso di crediti professionali, delle tariffe ed in relazione ad attività certe nell'avvenuto espletamento e nella qualificazione.
Va quindi ravvisata la colpa del debitore in presenza di una condotta ingiustificatamente dilatoria come, ad esempio, nel caso in cui la contestazione giudiziale del credito sia radicale ovvero riguardi elementi essenziali del rapporto ancorché le prove confortino la loro sussistenza.
Non può quindi sostenersi che la mera proposizione della domanda di accertamento del credito ex art. 28 della legge n. 794/1942 imponga la debenza degli interessi dalla data della relativa decisione, in quanto, ben potrebbe tale decisione essere adottata all'esito di un giudizio che non ha visto la costituzione del cliente, essendo il giudice sollecitato quindi solo a tradurre in termini monetari, sulla scorta dei parametri tariffari, il corrispettivo maturato per lo svolgimento dell'attività professionale, ovvero all'esito di un giudizio che ha visto sì la resistenza del cliente, ma volta solo a sollecitare una corretta applicazione delle previsioni legali, o ancora all'esito di un giudizio in cui le difese del resistente si siano rivelate del tutto destituite di fondamento ed aventi carattere dilatorio.
Né potrebbe escludere la colpa la sola circostanza che, a seguito della valutazione del giudice o anche in ragione di alcune difese o eccezioni del convenuto, il credito sia riconosciuto in misura inferiore rispetto alla richiesta dell'attore, in quanto la riduzione del credito implica di norma che gli interessi di mora andranno calcolati sull'importo inferiore oggetto di liquidazione, ma senza che di per sé tale riduzione comporti ex se l'esclusione della colpa del debitore, essendo sempre necessario a tale fine che ricorra una situazione tale da rendere assolutamente impossibile per il debitore, alla stregua dell'ordinaria diligenza, stabilire la somma dovuta, ancorché in misura ridotta rispetto alla richiesta, onde permettergli di sottrarsi agli effetti della mora.
Depone per tale conclusione anche la considerazione per cui, secondo quanto affermato dalle Sezioni Unite, a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 14 del d.lgs. n. 150 del 2011, la controversia di cui all'art. 28 della I. n. 794 del 1942, come sostituito dal d.lgs. cit., può essere introdotta: a) con un ricorso ai sensi dell'art. 702 bis c.p.c., che dà luogo ad un procedimento sommario "speciale" disciplinato dagli artt. 3, 4 e 14 del menzionato d.lgs.; oppure: b) ai sensi degli artt. 633 segg. c.p.c., fermo restando che la successiva eventuale opposizione deve essere proposta ai sensi dell'art. 702 bis segg. c.p.c., integrato dalla sopraindicata disciplina speciale e con applicazione degli artt. 648, 649, 653 e 654 c.p.c., essendo invece, esclusa la possibilità di introdurre l'azione sia con il rito ordinario di cognizione sia con quello del procedimento sommario ordinario codicistico disciplinato esclusivamente dagli artt. 702 bis e segg. c.p.c. (Cass. S.U. n. 4485 del 23/02/2018).
Poiché quindi la fase di opposizione per i decreti ingiuntivi aventi ad oggetto crediti per prestazioni giudiziali civili deve necessariamente svolgersi nelle forme del rito sommario speciale, ed essendo preclusa la facoltà di ricorso alle forme del processo ordinario di cognizione, non avrebbe una razionale giustificazione la conclusione, cui pur perviene il diverso orientamento di questa Corte, secondo cui gli interessi di mora decorrano sempre dalla notifica del decreto ingiuntivo, pur se oggetto di opposizione, e che invece occorra attendere la decisione del giudice ove la parte si sia avvalsa del procedimento sommario di cui all'art. 28 della legge n. 794/1942.
L'orientamento qui avversato, oltre a creare uno statuto delle obbligazioni del tutto autonomo per i crediti professionali degli esercenti la professione forense, e derogatorio rispetto alle regole generali dettate in materia di obbligazioni, nell'affermare in maniera assoluta che sia sempre necessaria la decisione del procedimento sommario sui compensi dell'avvocato per la produzione della mora, anche laddove le contestazioni non siano tali da escludere la stessa colpa del debitore, secondo quanto sopra precisato, implica un indubbio pregiudizio per la posizione del creditore, favorendo in tal modo il proliferare di contestazioni di carattere anche meramente dilatorio, attesa la possibilità per la parte debitrice di poter fruire di un differimento della decorrenza degli interessi di mora pari alla durata dell'intero procedimento di liquidazione giudiziale.
Se così non fosse, la contestazione da parte del debitore inadempiente si tradurrebbe in un inammissibile vantaggio per il medesimo. Il debitore, invece, per paralizzare gli effetti della mora deve offrire di adempiere, sia pure per la parte non contestata.
Né appare munita di razionalità la distinzione tra accertamento del credito che avvenga all'esito del processo sommario di cui all'art. 14 del D. Lgs. n. 150/2011, e cioè per prestazioni giudiziali rese in sede civile, e l'accertamento che avvenga per crediti dell'avvocato aventi una diversa causale, e per i quali resta ferma la possibilità di far ricorso al procedimento ordinario di cognizione ovvero al sommario codicistico di cui all'art. 702 bis c.p.c., per i quali del pari il giudice è chiamato a dare specificazione in termini monetari ad una pretesa creditoria avvalendosi dei parametri offerti dalle tariffe professionali.
Trattasi peraltro di esito che appare anche contrastare con i più recenti interventi del legislatore che, proprio al fine di scongiurare condotte pretestuose del debitore in ambito processuale, con la legge n. 162/2014 di conversione del d.l. n. 132/2014, per i giudizi introdotti a decorrere dal trentesimo giorno dalla data di pubblicazione della legge di conversione, ha introdotto il quarto comma dell'art. 1284 c.c. che appunto dispone che, in assenza di predeterminazione delle parti, gli interessi dovuti a far data dalla domanda giudiziale siano quelli previsti dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di pagamento delle transazioni commerciali, manifestando in tal modo il chiaro intento di contrastare, anche con la maggiorazione degli interessi di mora, pratiche dilatorie ovvero ostruzionistiche del debitore, intendendo in ogni caso assicurare che la durata del processo non possa andare a danno del creditore.
Sostenere in maniera indiscriminata che gli interessi di mora decorrano solo dalla data della decisione che abba determinato l'esatto ammontare del credito professionale equivarrebbe a rendere inapplicabile la previsione de qua ai crediti professionali degli avvocati, quanto meno per le prestazioni giudiziali, per le quali si impone la decisione con le forme del procedimento sommario speciale.
8.3 Va quindi affermato il seguente principio di diritto: Nel caso di richiesta avente ad oggetto il pagamento di compensi per prestazioni professionali rese dall'esercente la professione forense, gli interessi di cui all'art. 1224 c.c. competono a far data dalla messa in mora (coincidente con la data della proposizione della domanda giudiziale ovvero con la richiesta stragiudiziale di adempimento), e non anche dalla successiva data in cui intervenga la liquidazione da parte del giudice, eventualmente all'esito del procedimento sommario di cui all'art. 14 del D. Lgs. n. 150/2011, non potendosi escludere la mora sol perché la liquidazione sia stata effettuata dal giudice in misura inferiore rispetto a quanto richiesto dal creditore.
Il motivo in esame deve quindi essere accolto e l'ordinanza impugnata deve essere cassata in parte qua, dovendo il giudice di rinvio verificare, alla stregua del principio enunciato, se possa o meno escludersi la colpa del debitore.
9. Il settimo motivo di ricorso incidentale denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 91 c.p.c. nella parte in cui l'ordinanza gravata ha compensato le spese di lite nella misura del 50 %, trascurando però di considerare che all'esito del giudizio era stato in ogni caso riconosciuto un diritto di credito in favore dell'opposto, sebbene in misura inferiore a quella richiesta, sicché le spese avrebbero dovuto essere disciplinate in base al principio di soccombenza.
Il motivo è assorbito per effetto dell'accoglimento del motivo che precede, e dovendo il giudice del rinvio regolare ex novo le spese dell'intero giudizio.
10. Il giudice del rinvio che si designa nel Tribunale di Lecce, in diversa composizione, provvederà anche sulle spese del presente giudizio.
12. Poiché il ricorso principale è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto - ai sensi dell'art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater dell'art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 - della sussistenza dell'obbligo di versamento, da parte del ricorrente principale, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la sua impugnazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il sesto motivo del ricorso incidentale, rigetta il ricorso principale, rigetta gli altri motivi del ricorso incidentale, con assorbimento del solo settimo motivo;
Cassa l'ordinanza impugnata in relazione al motivo accolto, con rinvio al Tribunale di Lecce in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio;
Ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115/2002, inserito dall'art. 1, co. 17, l. n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente principale di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato a norma dell'art. 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.