La Cassazione risponde al quesito affermando un nuovo principio di diritto.
A seguito di opposizione, il Tribunale di Venezia revocava il decreto ingiuntivo con il quale era stato intimato all'opponente il pagamento di una somma a titolo di compenso per l'attività professionale svolta in suo favore da un avvocato.
La controversia giunge in Cassazione. Tra i motivi di doglianza, il...
Svolgimento del processo
1. B.M. proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo del Tribunale di Venezia con il quale le era stato intimato il pagamento della somma di € 22.056,03, oltre interessi di legge e spese, a titolo di compenso per l'attività professionale svolta in suo favore dell'avv. E.C., in una controversia civile nella quale la B. aveva agito per il risarcimento del danno alla salute.
Nell'opposizione si deduceva che il compenso era eccessivo atteso l'esito infausto della controversia e che era intervenuto un accordo in virtù del quale il professionista avrebbe rinunciato ai propri compensi in caso di soccombenza, avendo in ogni caso l'opposto addebitato costi che non erano necessari ove avesse prestato la dovuta diligenza.
Nella resistenza del professionista che insisteva per il rigetto dell'opposizione, il Tribunale di Venezia, con la sentenza n. (omissis) del 30/11/2009 revocava il decreto e rideterminava il dovuto nella minor somma di € 5.381,00 per diritti, € 250,64 per spese ed € 2.735,00 per onorario, oltre accessori di legge, compensando per due terzi le spese di lite e ponendo il residuo terzo a carico dell'opponente.
Il Tribunale reputava la causa di valore indeterminabile ed aggiungeva che nella determinazione del compenso si dovesse tenere conto anche del risultato perseguito dal cliente e dei vantaggi patrimoniali conseguiti.
Poiché la B. era risultata totalmente soccombente occorreva liquidare il compenso in base ai minimi tariffari.
Avverso tale pronuncia proponeva appello l'avv. C. e la Corte d'Appello di Venezia, con la sentenza n. 277 del 2 febbraio 2017, accoglieva solo in parte il gravame attribuendo all'appellante anche la somma di € 593,20 quale rimborso di quanto dovuto a titolo di opinamento della parcella.
Quanto alla determinazione dei compensi, la Corte distrettuale reputava corretta la decisione del Tribunale, quanto all'applicazione dei minimi tariffari per gli onorari, tenuto conto del caso concreto, della difficoltà, impegno richiesto, importanza, condizioni patrimoniali dell'assistito, nonché dell'esito infausto della causa.
Infatti, il giudizio presupposto era stato istruito documentalmente ed era stata disposta una CTU, senza che fossero state ammesse prove orali.
Inoltre, atteso il valore della causa, era stato correttamente individuato lo scaglione relativo alle cause di valore indeterminabile, anche avuto riguardo all'esito finale della controversia che era stato quello del rigetto della domanda, circostanza questa che incideva anche ai fini dell'applicazione dell'art. 6 co. 2 della tariffa di cui al DM n. 127 del 2004.
Era da disattendere anche il motivo di gravame che investiva la mancata liquidazione degli interessi legali, e ciò alla luce del principio secondo cui, quando sorge controversia tra l'avvocato ed il cliente circa il compenso, gli interessi di mora decorrono solo dalla data in cui interviene il provvedimento di liquidazione da parte del giudice.
Era altresì corretta la parziale compensazione delle spese di lite, attesa la parziale soccombenza dell'opposto, meritando accoglimento solo la richiesta di riconoscimento delle spese sostenute per il parere sulla parcella emesso dal Consiglio dell'Ordine.
Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso C.
E., sulla base di quattro motivi, illustrati da memorie. L'intimata non ha svolto attività difensiva.
Con ordinanza interlocutoria emessa all'sito dell'adunanza camerale del 3 novembre 2021, la causa è stata rinviata a nuovo ruolo in attesa della decisione in altra controversia della questione relativa alla decorrenza degli interessi di mora per i crediti dell'avvocato nei confronti del cliente.
Motivi della decisione
1. Il primo motivo denuncia l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza d'appello, per il mancato esame del motivo di impugnazione concernente la violazione del Decreto Ministeriale n. 127/04 ed il vizio logico della sentenza di primo grado.
Si deduce che il detto DM prevede che i risultati del giudizio ed i vantaggi anche non patrimoniali conseguiti dal cliente siano un criterio meramente facoltativo da prendere in esame unitamente agli altri criteri dettati dalla norma, di cui si lamentava in appello la mancata considerazione.
Il Tribunale e, conformemente ad esso, la Corte d'Appello hanno invece dato rilievo al solo esito negativo della causa per la B., senza valutare le possibilità di riforma in appello della decisione, e sol per questa ragione hanno quindi liquidato gli onorari in misura pari ai minimi tariffari.
Il motivo è inammissibile in quanto denuncia il vizio di cui al n. 5 dell'art. 360 co. 1 c.p.c. sulla base della non più applicabile formulazione della norma, trattandosi di impugnazione di sentenza emessa in data successiva al 12 settembre 2012.
Inoltre, va rilevato che la censura si rivela comunque inammissibile anche a voler reputare applicabile il precedente testo normativo, involgendo la stessa chiaramente una censura all'apprezzamento di merito, insindacabilmente riservato al giudice di merito, che ha inteso valorizzare, in quanto ritenuto predominante, uno dei criteri che la norma contempla per orientare il potere di liquidazione del comensi, ritenendo appunto che l'esito infausto della causa, unitamente alla assenza di attività istruttoria, deponessero per la liquidazione in base ai valori minimi, ma pur sempre nel rispetto dei parametri legali.
2. Il secondo motivo denuncia l'omessa motivazione della sentenza di appello nell'avere disatteso la presunzione di congruità della liquidazione effettuata dal Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Venezia.
In appello si era contestato che la liquidazione fosse stata operata in base ai valori minimi della tariffa, ma la Corte d'Appello ha confermato tale conclusione, facendo un erroneo riferimento al criterio del decisum piuttosto che al disputatum. Tuttavia, nell'art. 5 del DM n. 127/2004, che è appunto dedicato al comma 3 alla liquidazione dei compensi dovuti dal cliente, manca un riferimento all'effettivo esito della causa come criterio orientativo della liquidazione.
Il motivo è parimenti inammissibile.
Infatti, rilevato che anche in tal caso si richiama il vizio di omessa motivazione, riprendendo parte della formulazione abrogata dell'art. 360 co. 1 n. 5 c.p.c., e rilevato che la motivazione della sentenza impugnata, nel far riferimento all'esito infausto della causa per la cliente (che corrisponde alla verifica circa i risultati del giudizio ed i vantaggi anche non patrimoniali conseguiti dal cliente, cui fa riferimento il terzo comma dell'art. 5 del DM n. 127/2004 al fine di individuare i criteri ai quali deve ispirarsi la valutazione del giudice), nonché alla assenza di attività istruttoria tramite l'assunzione di prove orali, soddisfa il requisito del cd. minimo costituzionale della motivazione (Cass. S.U. n. 8053/2014), che esclude quindi che possa ritenersi che la sentenza sia affetta da nullità ex art. 132 co. 2 n. 4 c.p.c., le censure anche in questo caso investono essenzialmente valutazione riservate esclusivamente al giudice di merito.
Infatti, va ricordato che, in materia di liquidazione delle competenze professionali dell'avvocato, il giudice non è vincolato al parere di congruità del Consiglio dell'Ordine, dal quale può discostarsi indicando, sia pure sommariamente, le voci per le quali ritiene il compenso non dovuto oppure dovuto in misura ridotta (Cass. n. 712/2018; Cass. n. 40633/2021).
Inoltre, va ribadito che in tema di compensi per lo svolgimento di attività professionale, anche in materia stragiudiziale, la determinazione degli onorari di avvocato costituisce esercizio di un potere discrezionale del giudice, che, se contenuto tra il minimo ed il massimo della tariffa, non richiede motivazione specifica e non può formare oggetto di sindacato in sede di legittimità, se non quando l'interessato specifichi le singole voci della tariffa, che assume essere state violate (Cass. n. 11583/2004; Cass. n. 20289/2015, ancorché in relazione alle spese liquidate a carico della parte soccombente; Cass. n. 7527/2002).
Nella specie, non è sostanzialmente in contestazione che la liquidazione dovesse avvenire sulla base dello scaglione previsto per le cause di valore indeterminabile, né si contesta la liquidazione dei compensi dovuti a titolo di diritti, ma la critica investe solo la liquidazione degli onorari, che però è stata effettuata nel rispetto dei minimi tariffari, il che esclude che la relativa decisione possa essere sindacata in sede di legittimità.
3. Il terzo motivo di ricorso denuncia l'errore di diritto del giudice di appello che ha negato gli interessi sulle somme liquidate, facendo riferimento all'orientamento secondo cui gli interessi di mora decorrono solo dal provvedimento di liquidazione del giudice, ma dimenticando in tal modo che la stessa richiesta di emissione del decreto ingiuntivo vale come atto di costituzione in mora.
Rileva il Collegio che la soluzione cui ha aderito il giudice di merito ha effettivamente trovato il conforto di numerosi precedenti di questa Corte, dai quali è possibile ricavare il principio secondo cui, in tema di liquidazione di diritti ed onorari di avvocato e procuratore a carico del cliente, la disposizione (comune alle tre tariffe forensi) contenuta nel d.m. n. 238 del 1992, applicabile "ratione temporis", per la quale gli interessi di mora decorrono dal terzo mese successivo all'invio della parcella, non si applica in ipotesi di controversia avente ad oggetto il compenso tra avvocato e cliente, non potendo quest'ultimo essere ritenuto in mora prima della liquidazione delle somme dovute con l'ordinanza che conclude il procedimento ex articolo 28 della legge n. 794 del 1942 (così da ultimo Cass. n. 17655/2018, che però reputa necessario distinguere la liquidazione effettuata con il procedimento speciale di cui al citato articolo 28 - ora regolato dall'art. 14 del D. Lgs. n. 150/2011 - da quella effettuata con decreto ingiuntivo, per la quale gli interessi richiesti dal ricorrente decorrono dalla notifica dello stesso e non dalla pubblicazione della sentenza che definisce l'opposizione).
Siffatta regola era stata ancor prima precisata da Cass. n. 2954/2016, che aveva appunto riprodotto la distinzione tra liquidazione effettuata con il procedimento camerale di cui all'art. 28 e liquidazione avvenuta con decreto ingiuntivo, sostenendosi che nel primo caso il debitore non può essere ritenuto in mora prima della liquidazione delle somme dovute con l'ordinanza che conclude il procedimento ex art. 28 della l. n. 794 del 1942, sicché è da tale data che, entro i limiti degli importi riconosciuti dal giudice, decorrono gli interessi (in senso conforme (Cass. 29 maggio 1999 n. 5240; Cass. 7 giugno 2005 n. 11777; Cass. 2 febbraio 2011 n. 2431; Cass. n. 13586 del 17/12/1991, e la più remota cui sembra risalire per la prima volta l'affermazione di tale regola, Cass. n. 3995 del 11/06/1988).
In particolare, Cass. n. 20806/2011, nel riepilogare gli argomenti che deporrebbero a favore di questa conclusione, nel ribadire che la semplice redazione della parcella, poi spedita ai clienti, non è idonea a far decorrere gli interessi di mora, e pur consapevole del fatto che la mora non presupponga necessariamente la liquidità del credito - non essendo stato riprodotto, nella sua assolutezza, nel nostro ordinamento il principio, tipico del diritto romano, secondo il quale "in illiquidis non fit mora" - ha però ritenuto che è pur sempre necessario, affinché sia configurabile il colpevole ritardo nel pagamento del debito, che sussista una sufficiente certezza del suo ammontare, con la conseguenza che, quando la determinazione dell'esatto valore di un'obbligazione pecuniaria sia rimessa al giudice, la costituzione in mora può aversi, di regola, solo con la domanda giudiziale, con l'atto cioè che rende attuale l'esercizio di quel potere da parte del medesimo giudice (conf. Cass. n. 4561/1993).
Pertanto, nel caso in cui nel giudizio avente ad oggetto la determinazione del credito per prestazioni professionali, nell'ambito del quale al giudice, in presenza di una contestazione non meramente pretestuosa del cliente, si chiede di determinare non solo se la pretesa del difensore si sia mantenuta entro i limiti della tariffa ma anche se la medesima sia "congrua", risulterebbe essenziale la liquidazione giudiziale, essendo demandato al giudice di valutare la rilevanza della materia controversa al fine di determinare lo "scaglione" tariffario applicabile e, nell'ambito di un minimo ed un massimo, dare rilevanza - con provvedimento discrezionale - ad elementi non obiettivamente ponderabili al momento della spedizione della parcella, quali l'importanza dei risultati conseguiti, il pregio dell'opera professionale e le difficoltà incontrate nell'espletamento dell'incarico.
Inoltre pur ribadendosi che il decreto ingiuntivo su notule professionali, contiene già una liquidazione del credito stesso, all'esito della delibazione - provvisoria ma tendenzialmente idonea a divenire definitiva in caso di mancanza di opposizione
- della documentazione offerta dal ricorrente, con la conseguenza che la notifica del decreto stesso riveste la funzione di domanda giudiziale e costituisce primo atto di rituale messa in mora, la decisione però ribadisce che nel procedimento ex art. 28 la mora decorre solo dalla liquidazione.
3.1 A tale orientamento se ne contrappone un altro che si è sviluppato nel corso degli anni dando vita ad un contrasto obiettivamente sincronico, e proprio in relazione al diritto agli interessi di mora per i crediti del professionista legale.
Il fondamento teorico di tale diversa soluzione è rappresentato dal principio, anche di recente riaffermato, secondo cui la liquidità del debito non è condizione necessaria della costituzione in mora, nel nostro ordinamento non valendo il principio "in illiquidis non fit mora", con la conseguenza che, in caso di contestazione dell'entità del credito, l'atto di costituzione in mora produce i suoi effetti tipici, con riguardo agli interessi moratori, limitatamente alla parte del credito riconosciuta (principio che trova una delle sue più risalenti affermazioni in Cass. n. 1105/1959, per la quale sussiste la mora del debitore, e cioè il ritardo colpevole ad adempiere, quando la mancata o ritardata liquidazione sia conseguente alla condotta ingiustificatamente dilatoria del debitore, e, in genere, al fatto doloso o colposo di lui, quale è il suo illegittimo comportamento processuale per avere egli, a torto, contestato in radice la propria obbligazione; in tal caso, legittimamente, quindi, la sentenza che liquida l'obbligazione inadempiuta stabilisce la decorrenza degli interessi moratori dalla data della interpellatio; conf. Cass. n. 1813/1976; Cass. n. 4413/1980, secondo cui una volta avvenuta la messa in mora, l'insorgere di contestazioni sull'an o sul quantum ed il conseguente accertamento giudiziale non modificano la decorrenza degli interessi di mora che decorrono, sulla somma che sia stata accertata come dovuta, dal giorno in cui sia avvenuta la costituzione in mora del debitore; Cass. n. 9510/2014).
Il principio così individuato è stato poi specificamente declinato in relazione ai crediti professionali dell'avvocato da Cass. n. 11736/1998, secondo cui l'invio della notula contenente la richiesta di pagamento dei compensi integra tutti gli estremi dell'atto di costituzione in mora, idoneo (ove giunto a conoscenza del destinatario) a dispiegare effetti sia ai fini della decorrenza degli interessi che del calcolo del maggior danno ex art. 1124, secondo comma cod. civ., senza che assuma, in contrario, alcun rilievo la (eventuale) contestazione del credito da parte del cliente, non vigendo nel nostro ordinamento il principio romanistico "in illiquidis non fit mora" (con la conseguenza che l'atto di costituzione in mora produrrà i suoi effetti tipici limitatamente alla parte del credito che risulterà in concreto dovuta).
La sentenza, nel rilevare l'illegittimità delle previsioni regolamentari all'epoca introdotte dalle tariffe professionali, secondo cui all'avvocato erano dovuti gli interessi e la rivalutazione monetaria dopo che fossero trascorsi tre mesi dall'invio della parcella senza contestazioni, non potendo una norma regolamentare introdurre una deroga ai principi generali in materia di obbligazioni, ha però ricordato che, proprio facendo applicazione delle regole e dei principi codicistici in tema di inadempimento di obbligazioni pecuniarie, gli interessi non potevano che decorrere dall'atto di costituzione in mora da identificarsi nell'invio della parcella (conf. Cass. n. 8865/87; Cass. n. 5772/97; Cass. n. 9514/96), e ciò in quanto il credito del professionista, al pari di qualsiasi altro credito, non può che trovare tutela nella detta disciplina generale.
La richiesta di pagamento per una somma maggiore o minore non esclude che il credito sia sufficientemente identificato, sicché è valida, ai fini della costituzione in mora, anche la richiesta di una somma maggiore, ma l'atto di costituzione in mora produce i suoi effetti limitatamente alla parte di credito non contestata ovvero a quella che risulterà all'esito dell'accertamento giudiziale ( in termini Cass. n. 6064/1979).
In linea con questo orientamento si pone anche Cass. n. 4712/1994, che espone le ragioni del proprio dissenso da Cass. n. 3995/1988 che, come detto, aveva inaugurato l'orientamento della decorrenza degli interessi di mora dalla data della decisione del procedimento ex art. 28, ricordando che il principio in illiquidis non fit mora non trova applicazione quando il credito sia facilmente liquidabile in base a tariffe professionali ovvero quando il debitore frapponga ostacoli ingiustificati alla liquidazione del debito, occorrendo limitare la portata di Cass. n. 3995/1998 alla necessità di disapplicare le previsioni regolamentari di cui alle tariffe forensi che, in aggiunta agli interessi, riconoscevano al professionista anche la rivalutazione, in quanto derogando alla norma generale in tema di inadempimento delle obbligazioni pecuniarie di cui all'art. 1224 e.e., esorbitavano dai limiti del potere regolamentare del Consiglio nazionale forense ristretto alla fissazione dei criteri per la determinazione degli onorari, diritti ed indennità spettanti agli avvocati e procuratori per la loro opera processionale.
3.2 Così riassunti i termini del dibattito giurisprudenziale, reputa il Collegio che il contrasto debba essere risolto a favore della soluzione che ritiene che anche per i crediti professionali derivanti dallo svolgimento dell'attività di avvocato gli interessi debbano essere fatti decorrere dalla messa in mora, e ciò anche nel caso in cui alla liquidazione si pervenga all'esito del procedimento di cui all'art. 14 del D. Lgs. n. 150/2011.
Depone a favore di tale soluzione il rilievo, più volte sottolineato, che nel nostro ordinamento non è stato riproposto il principio romanistico in illiquidis non fit mora, e che pertanto, non ravvisandosi valide ragioni per differenziare il diritto di credito dell'avvocato da quello degli altri creditori, non è dato dettare una regola differente solo in tale ambito.
Va altresì ricordato che sussiste la mora del debitore, e cioè il ritardo colpevole di lui ad adempiere quando la mancata o ritardata liquidazione sia conseguente alla condotta ingiustificatamente dilatoria del debitore e, in genere al fatto doloso o colposo, quale è il suo legittimo comportamento processuale per avere egli a torto contestata la propria obbligazione.
Ne consegue che la sentenza ovvero l'ordinanza che liquidano l'obbligazione inadempiuta legittimamente stabiliscono la decorrenza degli interessi moratori dalla data della interpellatio, sempre che la stessa permetta al debitore di comprendere le ragioni in base alle quali il pagamento gli viene richiesto.
La liquidità del credito non è, come detto, un requisito per la mora, anche nel caso in cui ad essere oggetto della domanda sia un'obbligazione di valuta, quale il credito professionale dell'avvocato.
Infatti, ancorché la mora presupponga la colpa del debitore, tale colpa va esclusa nel caso in cui il debitore sia impossibilitato in maniera assoluta, alla stregua dell'ordinaria diligenza, a quantificare la prestazione dovuta, ma non anche nel diverso caso in cui, pur a fronte di un credito ancora illiquido, sia data al debitore la possibilità di compierne una stima, anche sulla scorta, nel caso di crediti professionali, delle tariffe ed in relazione ad attività certe nell'avvenuto espletamento e nella qualificazione.
Va quindi ravvisata la colpa del debitore in presenza di una condotta ingiustificatamente dilatoria, come ad esempio, nel caso in cui la contestazione giudiziale del credito sia radicale ovvero riguardi elementi essenziali del rapporto ancorché le prove confortino la loro sussistenza.
Non può quindi sostenersi che la mera propos1z1one della domanda di accertamento del credito ex art. 28 della legge n. 794/1942 imponga la debenza degli interessi dalla data della relativa decisione, in quanto, ben potrebbe tale decisione essere adottata all'esito di un giudizio che non ha visto la costituzione del cliente, essendo il giudice sollecitato quindi solo a tradurre in termini monetari, sulla scorta dei parametri tariffari, il corrispettivo maturato per lo svolgimento dell'attività professionale, ovvero all'esito di un giudizio che ha visto sì la resistenza del cliente, ma volta solo a sollecitare una corretta applicazione delle previsioni legali, o ancora all'esito di un giudizio in cui le difese del resistente si siano rivelate del tutto destituite di fondamento ed aventi carattere dilatorio.
Né potrebbe escludere la colpa la sola circostanza che, a seguito della valutazione del giudice o anche in ragione di alcune difese o eccezioni del convenuto, il credito sia riconosciuto in misura inferiore rispetto alla richiesta dell'attore, in quanto la riduzione del credito implica di norma che gli interessi di mora andranno calcolati sull'importo inferiore oggetto di liquidazione, ma senza che di per sé tale riduzione comporti ex se l'esclusione della colpa del debitore, essendo sempre necessario a tale fine che ricorra una situazione tale da rendere assolutamente impossibile per il debitore, alla stregua dell'ordinaria diligenza, stabilire la somma dovuta, ancorché in misura ridotta rispetto alla richiesta, onde permettergli di sottrarsi agli effetti della mora.
Depone per tale conclusione anche la considerazione per cui, secondo quanto affermato dalle Sezioni Unite, a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 14 del d.lgs. n. 150 del 2011, la controversia di cui all'art. 28 della I. n. 794 del 1942, come sostituito dal d.lgs. cit., può essere introdotta: a) con un ricorso ai sensi dell'art. 702 bis c.p.c., che dà luogo ad un procedimento sommario "speciale" disciplinato dagli artt. 3, 4 e 14 del menzionato d.lgs.; oppure: b) ai sensi degli artt. 633 segg. c.p.c., fermo restando che la successiva eventuale opposizione deve essere proposta ai sensi dell'art. 702 bis segg. c.p.c., integrato dalla sopraindicata disciplina speciale e con applicazione degli artt. 648, 649, 653 e 654 c.p.c., essendo invece, esclusa la possibilità di introdurre l'azione sia con il rito ordinario di cognizione sia con quello del procedimento sommario ordinario codicistico disciplinato esclusivamente dagli artt. 702 bis e segg. c.p.c. (Cass. S.U. n. 4485 del 23/02/2018).
Poiché quindi la fase di opposizione per i decreti ingiuntivi aventi ad oggetto crediti per prestazioni giudiziali civili deve necessariamente svolgersi nelle forme del rito sommario speciale, ed essendo preclusa la facoltà di ricorso alle forme del processo ordinario di cognizione, non avrebbe una razionale giustificazione la conclusione cui pur perviene il diverso orientamento di questa Corte che ritiene che gli interessi di mora decorrano sempre dalla notifica del decreto ingiuntivo, pur se oggetto di opposizione, e che invece occorra attendere la decisione del giudice ove la parte si sia avvalsa del procedimento sommario di cui all'art. 28 della legge n. 794/1942.
L'orientamento qui avversato, oltre a creare uno statuto delle obbligazioni del tutto autonomo per i crediti professionali degli esercenti la professione forense, e derogatorio rispetto alle regole generali dettate in materia di obbligazioni, nell'affermare in maniera assoluta che sia sempre necessaria la decisione del procedimento sommario sui compensi dell'avvocato per la produzione della mora, anche laddove le contestazioni non siano tali da escludere la stessa colpa del debitore, secondo quanto sopra precisato, implica un indubbio pregiudizio per la posizione del creditore, favorendo in tal modo il proliferare di contestazioni di carattere anche meramente dilatorio, attesa la possibilità per la parte debitrice di poter fruire di un differimento della decorrenza degli interessi di mora pari alla durata dell'intero procedimento di liquidazione giudiziale.
Se così non fosse, la contestazione da parte del debitore inadempiente si tradurrebbe in un inammissibile vantaggio per il medesimo. Il debitore, invece, per paralizzare gli effetti della mora deve offrire di adempiere, sia pure per la parte non contestata.
Né appare munita di razionalità la distinzione tra accertamento del credito che avvenga all'esito del processo sommario di cui all'art. 14 del D. Lgs. n. 150/2011, e cioè per prestazioni giudiziali rese in sede civile, e l'accertamento che avvenga per crediti dell'avvocato aventi una diversa causale, e per i quali resta ferma la possibilità di far ricorso al procedimento ordinario di cognizione ovvero al sommario codicistico di cui all'art. 702 bis c.p.c., per i quai del pari il giudice è chiamato a dare specificazione in termini monetari ad una pretesa creditoria avvalendosi dei parametri offerti dalle tariffe professionali.
Trattasi peraltro di esito che appare anche contrastare con i più recenti interventi del legislatore che, proprio al fine di scongiurare condotte pretestuose del debitore in ambito processuale, con la legge n. 162/2014 di conversione del d.l. n. 132/2014, per i giudizi introdotti a decorrere dal trentesimo giorno dalla data di pubblicazione della legge di conversione, ha introdotto il quarto comma dell'art. 1284 e.e. che appunto dispone che, in assenza di predeterminazione delle parti, gli interessi dovuti a far data dalla domanda giudiziale siano quelli previsti dalla legislazione speciale relativa ai ritardi di
pagamento delle transazioni commerciali, manifestando in tal modo il chiaro intento di contrastare, anche con la maggiorazione degli interessi di mora, pratiche dilatorie ovvero ostruzionistiche del debitore, intendendo in ogni caso assicurare che la durata del processo non possa andare a danno del creditore.
Sostenere in maniera indiscriminata che gli interessi di mora decorrano solo dalla data della decisione che abba determinato l'esatto ammontare del credito professionale, equivarrebbe a rendere inapplicabile la previsione de qua ai crediti professionali degli avvocati, quanto meno per le prestazioni giudiziali, per le quali si impone la decisione con le forme del procedimento sommario speciale.
3.3 Va quindi affermato il seguente principio di diritto: Nel caso di richiesta avente ad oggetto il pagamento di compensi per prestazioni professionali rese dall'esercente la professione forense, gli interessi di cui all'art. 1224 c.c. competono a far data dalla messa in mora (coincidente con la data della proposizione della domanda giudiziale ovvero con la richiesta stragiudiziale di adempimento), e non anche dalla successiva data in cui intervenga la liquidazione da parte del giudice, eventualmente all'esito del procedimento sommario di cui all'art. 14 del D. Lgs. n. 150/2011, non potendosi escludere la mora sol perché la liquidazione sia stata effettuata dal giudice in misura inferiore rispetto a quanto richiesto dal creditore.
Il motivo in esame deve quindi essere accolto e la sentenza impugnata deve essere cassata in parte qua, dovendo il giudice di rinvio verificare, alla stregua del principio enunciato, se possa o meno escludersi la colpa del debitore.
4. Il quarto motivo denuncia la violazione dell'art. 112 c.p.c. in relazione all'art. 342 c.p.c., per omessa pronuncia quanto all'erronea liquidazione delle spese di causa.
Ricorda parte ricorrente che con l'atto di appello era stato richiesto anche il rimborso delle spese della fase monitoria, mentre la Corte d'Appello si è limitata a statuire solo sulle spese di opinamento della parcella, trascurando però di delibare in merito alla spettanza delle spese della fase monitoria.
Il motivo è fondato.
La stessa sentenza impugnata, a pag. 4 nel fornire la sintesi dei motivi di appello evidenzia come si fosse lamentata anche la completa omissione della condanna al pagamento delle spese di lite della fase monitoria.
Manca però in motivazione una risposta a tale censura, il che denota quindi in maniera palese la violazione dell'art. 112 c.p.c., non potendosi in tal senso far riferimento al solo fatto che in sede di appello fosse stata confermata la revoca del decreto opposto, avendo comunque il giudice dell'opposizione, con decisione confermata in appello ridotto il credito complessivamente vantato dal professionista.
Rileva a tal fine il principio reiteratamente affermato da questa Corte secondo cui il procedimento che si apre con la presentazione del ricorso e si chiude con la notifica del decreto di ingiunzione non costituisce un processo autonomo rispetto a quello aperto dall'opposizione, ma dà luogo a una fase di un unico giudizio, in rapporto al quale funge da atto introduttivo, in cui è contenuta la proposizione della domanda, il ricorso presentato per chiedere il decreto di ingiunzione (cfr. da ultimo Cass. S.U. n. 927/2022). Perciò, il giudice che con la sentenza chiude il giudizio davanti a sé, deve pronunciare sul diritto al rimborso delle spese sopportate lungo tutto l'arco del procedimento e tenendo in considerazione l'esito finale della lite.
Nel liquidare tali spese, il giudice può bensì escludere dal rimborso quelle affrontate dalla parte vittoriosa per chiedere il decreto di ingiunzione, qualora mancassero le condizioni di ammissibilità di tale domanda, ma non viola affatto il disposto degli artt. 91 e 92 cod.proc.civ. qualora ritenga di non farlo, lasciandole a carico della parte opponente che, all'esito del giudizio, è rimasta soccombente sulla pretesa dedotta in lite.
A maggior ragione il giudice può lasciare le spese della fase monitoria a carico della parte ingiunta, allorquando la revoca del decreto ingiuntivo sia dipesa dal pagamento della somma recata dal decreto monitorio nel corso del giudizio di opposizione (Cass. n. 2217/2007; Cass. n. 75/2010).
Poiché la conferma o meno del decreto ingiuntivo è collegata nel giudizio di opposizione non tanto ad un giudizio di legalità e di controllo riferito esclusivamente al momento della sua emanazione, quanto piuttosto ad un giudizio di piena cognizione in ordine all'esistenza e alla validità del credito posto a base della domanda di ingiunzione, deve escludersi di conseguenza un'autonoma pronuncia sulla legittimità dell'ingiunzione di pagamento agli effetti dell'incidenza delle spese della sola fase monitoria, posto che nel procedimento per ingiunzione la fase monitoria e quella di opposizione fanno parte di un unico processo nel quale l'onere delle spese è regolato in base all'esito finale del giudizio di opposizione ed alla complessiva valutazione del suo svolgimento (Cass. n. 5984/1999; Cass. n. 7892/1994; Cass. n. 14526/2000).
Non è quindi determinante la sola revoca del decreto opposto per rendere irripetibili dal creditore le spese della fase
monitoria, occorrendo invece avere riguardo all'esito complessivo del giudizio, dovendo la valutazione di soccombenza anche in relazione a tali spese confrontarsi con il risultato finale del giudizio.
La sentenza gravata deve quindi essere cassata anche in relazione a tale motivo.
5. Il giudice del rinvio che si individua nella Corte d'Appello di Venezia in diversa composizione, provvederà anche sulle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il terzo ed il quarto motivo di ricorso, e rigettati i primi due motivi, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Corte d'Appello di Venezia in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio;