La Suprema Corte chiarisce cosa accade qualora al termine dell'istruttoria restino incerti la causa del danno o quella della impossibilità di adempiere per causa non imputabile al debitore sul versante dell'onere della prova.
Gli attori convenivano in giudizio l'Azienda ospedaliera e tre medici allo scopo di ottenere il risarcimento dei danni patiti in proprio e iure hereditatis per via della morte del congiunto, provocata, secondo loro, dall'imperita esecuzione di un intervento chirurgico.
Il Tribunale rigettava la domanda degli attori ritenendo incerto il rapporto...
Svolgimento del processo
1. Nel 2007, A. e M.C., figli del defunto N.D.C., convennero in giudizio, dinanzi al Tribunale di Napoli, il dott. P.C., la dottoressa C.P. e il dott. G.M., nonché l'Azienda Ospedaliera Policlinico Federico II di Napoli, al fine di ottenere il risarcimento di tutti i danni patiti, in proprio e iure hereditatis, in conseguenza della morte del loro congiunto, provocata, secondo la tesi attorea, dall'imperita esecuzione di un intervento chirurgico - microdecompressione vascolare del nervo trigemino di sinistra in fossa cranica posteriore - a cui era stato sottoposto presso la struttura ospedaliera convenuta.
Si costituirono in giudizio i dottori C., P. e M., nonché l'Azienda Ospedaliera, contestando il fondamento della domanda e chiedendo l'autorizzazione a chiamare in garanzia le rispettive compagnie assicurative. Si costituirono quindi la Z.I. Company S.p.a., la N. Assicurazioni S.p.a., la F.S. Assicurazioni S.p.a e la I.A. S.p.a., contestando a loro volta quanto dedotto dagli attori.
Il Tribunale di Napoli, con la sentenza n. 571/2016, rigettò la domanda ritenendo che fosse incerto (o comunque non provato) il rapporto eziologico tra condotta esigibile da parte dei sanitari e danno riportato dal paziente.
Il giudice di primo grado evidenziò, infatti, che, nella fase finale dell'operazione, era sopravvenuta un'emorragia da una vena emissaria del seno trasverso di sinistra che aveva cagionato il decesso; che i consulenti d'ufficio avevano prospettato quattro possibili ipotesi circa la causa di detta lacerazione, due sole delle quali d ritenersi maggiormente probabili, ed una soltanto riconducibile ad una scorretta esecuzione dell'intervento da parte dei medici; che tuttavia i periti non erano stati in grado di precisare quali delle due ipotesi alternative "più probabili" fosse, in concreto, la più probabile; che neppure l'esame degli atti del processo penale, conclusosi con sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, aveva consentito di risolvere il dubbio in ordine alla sussistenza del rapporto di causalità tra l'evento e la condotta dei sanitari.
2. La pronuncia è stata confermata dalla Corte d'appello di Napoli, con la sentenza n. 3842/2019, depositata il 10 luglio 2019.
Per quel che qui ancora rileva, i giudici dell'appello hanno ritenuto che la decisione del Tribunale fosse conforme ai principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di ripartizione dell'onere della prova del nesso di causalità tra l'aggravamento della patologia (o l'insorgenza di una nuova malattia) e l'azione o l'omissione dei sanitari. In punto di fatto, la Corte territoriale ha evidenziato che i ctu non avevano attribuito la stessa rilevanza probabilistica a tutte e quattro le ipotesi alternative della causa dell'emorragia, ritenendo che due di esse (quella che riconduceva l'emorragia a fattori propri della struttura venosa e quella che supponeva fosse avvenuta la lacerazione non della vena emissaria, bensì direttamente del seno trasverso, a causa di una manovra inadeguata durante la sutura) avessero maggior peso rispetto alle altre.
Secondo la Corte, l'ipotesi della lacerazione del seno traverso (l'unica riconducibile a colpa medica) doveva ritenersi meno probabile, in quanto non risultava dalla cartella clinica, nella quale si puntualizzava invece che l'emorragia era proveniente dalla vena emissaria, ed era stata prospettata dai consulenti in via di mera eventualità, in virtù del fatto che l'autopsia non aveva consentito di escluderne l'effettivo accadimento. L'affermazione dei ctu secondo cui il dato istologico in cartella non confortava l'altra ipotesi della fragilità venosa aveva il solo scopo di precisare che non vi erano elementi per affermare con assoluta certezza che tale evenienza fosse alla base dell'emorragia, ma non consentiva di espungerla dal novero delle possibili cause.
La Corte di merito ha quindi osservato che anche i consulenti del pubblico ministero, dopo essersi in un primo momento orientati per l'imperizia dei sanitari, senza tuttavia giustificare le ragioni di tale conclusione, in un secondo tempo avevano espresso una valutazione meno netta nel senso dell'errore medico, prospettando l'ipotesi della complicanza inevitabile e predicando l'impossibilità di offrire una risposta certa m termini giuridici. Né appariva rilevante l'argomentazione utilizzata dalla Corte di Cassazione in sede penale per annullare la sentenza di non luogo a procedere ex art. 425 c.p.p. (ossia il rilievo della contiguità tra la zona dell'intervento e quella dell'emorragia), non consentendo tale argomentazione di escludere il verificarsi di alcuna delle ipotesi alternative prospettate.
Infine, i giudici dell'appello hanno evidenziato che, secondo i ctu, non aveva avuto rilevanza causale rispetto all'emorragia l'omessa esecuzione dell'esame diagnostico angio-RM (sulla cui utilità peraltro non vi era univocità nella scienza medica) ne il fatto che l'esecuzione dell'operazione non fosse stata conforme a quanto previsto dalle linee guida più accreditate del settore.
3. Avverso tale sentenza propongono ricorso per cassazione, sulla base di cinque motivi, i signori M. e A. C..
3.1. Resistono con separati controricorsi i dottori P.C. e C.P., l'Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II, la U. Assicurazioni S.p.a. (quale successore universale della N. Assicurazioni S.p.a. e della F. S. Assicurazioni S.p.a.), la G.I. S.p.a. (già I. A. S.p.a.). Gli intimati dott. G.M. e Z. Company S.p.a. non hanno svolto difese.
3.2. Tutte le parti hanno depositato memoria.
3.3. Il Procuratore Generale, nelle sue sintetiche conclusioni scritte, ha chiesto l'inammissibilità - o in subordine il rigetto - del ricorso
Motivi della decisione
4. Con i primi tre motivi, che i ricorrenti espongono unitariamente, si lamenta: la violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione agli artt. 40 e 41 c.p., "per travisamento delle conclusioni della consulenza tecnica e per erronea applicazione dei principi di diritto in materia di accertamento del nesso di causalità"; la violazione dell'art. 360 n. 4 in relazione all'art. 132, n. 4, c.p.c. e all'art. 111, comma 6, Cost. per contraddittorietà e motivazione della sentenza meramente apparente; la violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione agli artt. 1218, 1176 comma 2 e 2697 c.c., "per avere il giudice di appello applicato in modo del tutto erroneo le regole sul riparto dell'onere della prova in tema di accertamento del nesso di causalità tra l'intervento chirurgico e l'aggravamento della malattia (o insorgenza di essa)".
Secondo i ricorrenti, la Corte d'appello avrebbe interpretato le conclusioni dei periti in maniera parcellizzata e frammentaria, omettendo di considerare che gli stessi periti avevano messo in evidenza che tre delle quattro ipotesi circa le cause dell'emorragia erano riconducibili ad errori degli operatori sanitari.
Inoltre, l'assenza di riscontro, a livello istologico, di fattori di debolezza della struttura venosa, avrebbe dovuto condurre la Corte ad espungere tale evenienza dalle cause possibili dell'emorragia.
I giudici di secondo grado avrebbero apoditticamente prescelto tale ultima ipotesi, nonostante la stessa soffrisse di una carenza probatoria più grave rispetto alle altre.
La motivazione della sentenza sarebbe inoltre insanabilmente contraddittoria laddove ha escluso la rilevanza causale della mancata effettuazione dell'esame diagnostico angio-RM e dell'esecuzione dell'intervento non conforme alle linee guida previste.
Al riguardo, i giudici del merito avrebbero aderito acriticamente alle conclusioni dei ctu, i quali avevano escluso che tali circostanze avessero inciso sull'emorragia, nonostante avessero evidenziato che non tutto quanto era indicato e possibile fare per ottimizzare la fase chirurgica era stato eseguito dai sanitari.
In conclusione, i ricorrenti avrebbero assolto gli oneri probatori sugli stessi gravanti avendo provato il contratto relativo alla prestazione sanitaria, il danno subito e, attraverso la c.t.u. e la relazione autoptica del pm, la condotta colposa dei medici, i quali, in violazione delle leges artis dettate dalla miglior scienza ed esperienza medica, avevano determinato con una manovra erronea o inadeguata la lacerazione della vena emissaria del seno traverso e o dello stesso seno traverso. In applicazione dei criteri di riparto dell'onere della prova, spettava ai medici e all'azienda ospedaliera l'onere di provare che la prestazione medica era stata correttamente eseguita e il mancato perseguimento del risultato era stato determinato da un evento imprevedibile cd imprevisto.
4.1. Con il quarto motivo, si censura la violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione all'art. 589 c.p., "per travisamento delle conclusioni delle indagini preliminari e degli atti del successivo processo penale a cui furono sottoposti i sanitari conclusosi con sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato ascritto".
4.2. Con il quinto motivo, i ricorrenti lamentano l'omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti e in particolare della rilevanza delle conclusioni della consulenza autoptica eseguita con le garanzie dell'art. 360 c.p.p. nel corso delle indagini preliminari.
5. Le censure mosse alla sentenza impugnata con i 5 motivi di ricorso, da esaminarsi congiuntamente attesane la intrinseca connessione, sono complessivamente fondate.
La motivazione della sentenza impugnata, difatti, appare non coerente e non conforme ai principi di diritto affermati dalla giurisprudenza di questa Corte in tema di accertamento del nesso di causalità in materia di responsabilità medica.
Va al riguardo ribadito che nei giudizi risarcitori da responsabilità medica si delinea "un duplice ciclo causale, l'uno relativo all'evento dannoso, a monte, l'altro relativo all'impossibilità di adempiere, a valle. Il primo, quello relativo all'evento dannoso, deve essere provato dal creditore/ danneggiato, il secondo, relativo alla possibilità di adempiere, deve essere provato dal debitore/ danneggiante. Mentre il creditore deve provare il nesso di causalità fra l'insorgenza (o l'aggravamento) della patologia e la condotta del sanitario (fatto costitutivo del diritto), il debitore deve provare che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile la prestazione (fatto estintivo del diritto)" (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 26 luglio 2017, n. 18392, Rv. 645164-01).
Se, al termine dell'istruttoria, restino incerti la causa del danno o quella dell'impossibilità di adempiere per causa non imputabile al debitore della prestazione, le conseguenze sfavorevoli in termini di onere della prova gravano, rispettivamente, sull'attore o sul convenuto, e il ciclo causale relativo alla possibilità di adempiere acquista rilievo solo ove risulti dimostrato il nesso causale fra evento dannoso e condotta del debitore. Solo una volta che il danneggiato abbia dimostrato che l'aggravamento della situazione patologica (o l'insorgenza di nuove patologie per effetto dell'intervento) è causalmente riconducibile alla condotta dei sanitari sorge, per questi ultimi (ed eventualmente per la struttura sanitaria convenuta) l'onere di provare che l'inadempimento, fonte del pregiudizio lamentato dall'attore, è stato determinato da causa non imputabile (così, nuovamente, Cass. Sez. 3, sent. n. 18392 del 2017, cit.; nello stesso senso anche Cass. Sez. 3, sent. 11 novembre 2019, nn. 28990 e 28991, 4 novembre 2017, n. 26824, 7 dicembre 2017, n. 29315, Rv. 646653-01).
In premessa, il collegio osserva come questa Corte, in tema di prova del nesso causale, abbia più volte affermato che i criteri da applicare sono quelli "della probabilità prevalente" e "del più probabile che non".
Il primo criterio, della probabilità prevalente (o della prevalenza relativa), da adottarsi nel caso di specie, implica che, rispetto ad ogni enunciato fattuale, venga considerata l'eventualità che esso possa essere vero o falso, e che, accertatane la consistenza indiziaria, l'ipotesi positiva venga scelta come alternativa razionale quando è logicamente più probabile di altre ipotesi, in particolare di quella/e contraria/ e, per essere viceversa scartata quando gli elementi di fatto disponibili le attribuiscano una grado di conferma "debole", tale, c:loè, da farla ritenere scarsamente credibile rispetto alle altre. In altri termini, il giudice deve scegliere l'ipotesi fattuale (essendo la valutazione del nesso di causalità un giudizio di fatto di tipo relazionale) ritenendo "vero" l'enunciato che abbia ricevuto il grado di maggiore conforma relativa sulla base dei fatti indiziari disponibili, rispetto ad ogni altro enunciato, senza che rilevi il numero degli elementi di conferma dell'ipotesi prescelta, e senza che rilevi il numero delle possibili ipotesi alternative concretamente identificabili, attesa l'impredicabilità di un'aritmetica dei valori probatori.
Il principio risulta concretamente applicabile al caso di specie, nel quale le ipotesi adombrate dalla CTU risultano quattro, due delle quali ritenute "meno probabili" dall'ausiliario.
L'operazione intellettuale cui è chiamato il giudice di merito, in tal caso, si struttura in tre fasi:
a) L'eliminazione, dal novero delle ipotesi valutabili, di quelle meno probabili (non essendo consentito il procedimento logico-aritmetico che conduca alla conclusione: 3>1);
b) L'analisi, tra le rimanenti ipotesi, di quelle ritenute più probabili;
c) La scelta, tra le ipotesi così residuate (nella specie, in numero di due) di quella che abbia ricevuto, secondo un ragionamento di tipo inferenziale, il maggior grado di conferma dagli elementi di fatto aventi la consistenza di indizi, assumendo così la veste di probabilità prevalente.
Nel caso di specie, il primo errore in cui incorre la corte d'appello è quello di prescindere completamente da un dato oggettivo e incontrovertibile, e cioè che l'ipotesi della fragilità venosa non solo non è confermata dall'esame istologico, ma anzi è smentita dallo stesso CTU.
La valutazione di tale fatto, da condursi alla luce dei criteri sopraindicati, risultava, di converso, del tutto imprescindibile, onde inferirne il conseguente giudizio di maggiore/minore probabilità - tra le due cause, ritenute "più probabili" dal CTU alla luce della scienza medica - dell'emorragia che condusse alla morte il paziente - e senza che le improprie valutazioni "in diritto" dell'ausiliario potessero in alcun modo influenzare la decisione.
L'errore di sussunzione (ovvero di applicazione della regola di giudizio in tema di causalità) in cui incorre la sentenza impugnata consiste, pertanto, nell'aver attribuito la stessa rilevanza probabilistica alle due ipotesi indicate nella perizia.
Non meno erroneamente, con una valutazione fondata sulle risultanze istruttorie acquisite agli atti (in particolare, la cartella clinica), la Corte territoriale ha illogicamente ritenuto di poter affermare che, tra le due ipotesi ritenute maggiormente verosimili dai consulenti, quella che riconduceva l'evento ad un errore dei sanitari fosse meno probabile rispetto a quella che supponeva una causa naturale, nonostante il rilievo dei ctu circa il fatto che i dati istologici contenuti nella stessa cartella clinica non fornissero conforto all'ipotesi di una debolezza della struttura venosa - si legge alle pp. 33-34 della CTU, integralmente riportate in ricorso in ossequio al principio di autosufficienza, che "l'indagine dirimente per dimostrare la fragilità della struttura venosa doveva essere l'esame istologico che, invece, non conforta una siffatta interpretazione - e nonostante le risultanze dell'esame autoptico - puntualmente riportato dai CTU nella loro relazione - di cui è traccia nella prima consulenza collegiale disposta dal P.M. in sede di indagini penali, ove si afferma esservi stato "in definitiva, un errore tecnico per imperizia” precisandosi ancora, "che l'emorragia fu verosimilmente provocata da una manovra chirurgica effettuata durante la chiusura della dura madre: in considerazione dell'estrema contiguità tra la via d'approccio chirurgico e il seno traverso, una lesione di quest'ultimo rientra tra i possibili effetti di una manovra maldestra, se pur minima, responsabile di una profusa emorragia .... né d'altra parte all'esame istopatologico sono stati rilevati alterazioni e/ o malformazioni del sistema vascolo-cerebrale".
La Corte territoriale omette, inoltre, di valutare, in punto di fatto, l'ulteriore circostanze per la quale le precisazioni in senso contrario rese successivamente, dopo la morte del consulente neurochirurgo, dott. P. dall'altro consulente del pm, dott. P., medico legale - secondo cui l'emorragia era stata una complicanza avulsa dalle modalità di esecuzione dell'operazione - erano state assai criticamente valutate già dal giudice delle indagini preliminari, che, con provvedimento del 19.3.2008, aveva rigettato la richiesta di archiviazione del P.M. e disposto l'imputazione coatta a carico dei sanitari, affermando come le nuove deduzioni medico legale "suscitino perplessità (per non avere il CIV in alcun modo giustificato come mai egli abbia cambiato radicalmente idea rispetto alle affermazioni da lui pure sottoscritte e contenute nella relazione autoptica) ... e non possono ritenersi convincenti in quanto egli non ha fornito alcun dato tecnico da mi possa dedursi che la profusa emorragia che si verificò nel corso dell'intervento sia una complicanza del tutto avulsa dalle modalità di esecuzione dell'operazione. D'altra parte, non può non sottolinearsi, come ha fatto il difensore delle parti offese, che appare quantomeno discutibile che il consulente del P.M. e il consulente del C. e della P. abbiano condiviso il medesimo studio almeno per un certo periodo".
Ancora, non viene sufficientemente considerata dalla Corte partenopea l'ulteriore circostanza di fatto per cui la Corte di cassazione penale, dopo aver annullato la pronuncia di assoluzione del GUP di Napoli ex art. 425 c.p.p. all'esito dell'impugnazione delle parti civili (sottolineando la rilevanza della circostanza fattuale rappresentata dalla contiguità tra la zona dell'intervento e quella dell'emorragia), rimise gli atti ad altro GUP - che dispose il rinvio a giudizio degli imputati, cui conseguì sentenza predibattimentale di proscioglimento per intervenuta prescrizione - ritenendola "argomento non risolutivo in punto di accertamento del nesso causale, essendo compatibile con tutte le possibili ipotesi prospettate", ma così violando l'ulteriore principio di diritto, a più riprese affermato da questa stessa Corte di legittimità, a mente del quale, nel giudizio di fatto, l'indagine vada rivolta al metodo di valutazione degli elementi di prova disponibili (i fatti "indizianti" della prova per presunzioni) e sulla scelta tra un generico modello olistico ovvero un rigoroso metodo analitico, evidenziandosi poi come la soluzione da privilegiare non possa che risultare la seconda, atteso che il modello olistico si presterebbe facilmente a sovrapporre alla realtà dei fatti la loro (sola) narrazione, con il rischio che una perfetta coerenza narrativa, pur in ipotesi assolutamente falsa, possa fuorviare il giudice e condurlo ad una decisione ingiusta, mentre il metodo analitico-atomistico si fonda sulla premessa che la base della decisione sia rappresentata dai fatti e soltanto da essi.
La valutazione dei fatti secondo il modello analitico segue, peraltro, un percorso logico distinto in due fasi - che ne consente una parziale combinazione con quello olistico - fondate, dapprima, su di un rigoroso esame di ciascun singolo fatto “indiziante" che emerge dagli atti di causa (onde eliminare quelli privi di rilevanza rappresentativa e conservare quelli che, valutati singolarmente, offrano un contenuto positivo, quantomeno parziale, sotto il profilo dell'efficacia del ragionamento probatorio), e successivamente, su di una valutazione congiunta, complessiva e globale, di tutti quei fatti - alla luce dei principi di coerenza logica, compatibilità inferenziale, congruenza espositiva, concordanza prevalente - onde accertare se la loro combinazione, frutto di sintesi logica e non di grossolana "somma aritmetica", possa condurre all'approdo della prova presuntiva del factum probandum, che potrebbe non considerarsi raggiunta attraverso una valutazione atomistica di ciascun indizio (quae singula non possunt, collecta iuvant).
Accertata preliminarmente la valenza dimostrativa di ciascun "fatto indiziario" che emerge dall'incarto processuale secondo il modello analitico, si procederà poi all'esame metodologico dell'intera trama fattuale in modo complessivo e unitario, di tal che la possibile ambiguità di ciascun factum probans possa nondimeno risolversi nell'approdo a quel necessario significato dimostrativo, frutto del ragionamento inferenziale, che consenta di ritenere complessivamente raggiunta la prova logico-baconiana del factum probandum. Il procedimento mentale da percorrere, per il giudice, è dunque quello della analisi di ciascun elemento di fatto e della sua collocazione e ri-composizione all'interno di un mosaico del quale ciascun indizio (i .e., ciascun singolo fatto) costituisce la singola tessera.
Erra, infine, la Corte territoriale nel richiamare, non conferentemente (p. 8 della sentenza impugnata), i principi elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte in tema di causa ignota, volta che, nel caso di specie, la causa dell'emorragia era risultata nient'affatto "ignota", bensì riconducibile a quattro possibili ipotesi fattuali, che imponevano la scelta di quella più probabile, in applicazione del criterio della probabilità relativa prevalente.
A fronte delle complesse emergenze, fattuali e probatorie, rilevanti in parte qua ai fini dello svolgimento di un corretto ragionamento probatorio condotto secondo il metodo dell'inferenza, la Corte di appello, in definitiva, ha errato nell'applicazione dei principi causali indicati m premessa, conseguentemente errando nel non ritenere gravante sul debitore della prestazione l'onere di provare che l'evento di danno lamentato dagli odierni ricorrente fosse stato determinato da una causa non imputabile, poiché non probabile e non prevenibile nel caso di specie.
Il ricorso va, pertanto, accolto nei limiti di cui in motivazione, la sentenza impugnata va cassata, con rinvio del procedimento alla Corte d'Appello di Napoli, in diversa composizione, che provvederà anche per le spese di questo giudizio.
P.Q.M.
la Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia il procedimento alla Corte d'Appello di Napoli, in diversa composizione, che provvederà anche alla liquidazione delle spese del giudizio di cassazione.