Risposta negativa dalla Cassazione: in tal caso l'attività di cooperazione istruttoria è integrativa dell'inerzia della parte e non ne diminuisce le garanzie processuali, a patto che il giudice renda palese nella motivazione a quali informazioni abbia fatto riferimento.
Il Tribunale di Torino respingeva il ricorso proposto da un cittadino straniero contro il diniego di protezione internazionale opposto alla sua richiesta dalla Commissione territoriale competente.
A seguito di gravame, la Corte di Appello, nonostante avesse ritenuto “complessivamente attendibile” il racconto dell'istante, respingeva l'appello.
A questo punto, il cittadino...
Svolgimento del processo
Il Tribunale di Torino respinse il ricorso proposto da M.Z., nato in Pakistan l’(omissis), avverso il diniego di protezione internazionale opposto alla sua istanza dalla apposita Commissione territoriale.
Contro la decisione del Tribunale M.Z. propose appello (in ossequio alle norme processuali all’epoca vigenti e, quindi, tuttora applicabili nel presente processo) alla Corte d’appello di Torino, che – pur ritenendo «complessivamente attendibile» il racconto del richiedente, anche con riguardo alla sua provenienza dalla regione dell’Azad Kashmir – respinse tuttavia l’impugnazione.
Contro tale sentenza M.Z. ha proposto ricorso per cassazione articolato in tre motivi. Il Ministero dell’Interno non si è costituito con controricorso, depositando solo un breve e tardivo atto per poter partecipare all’eventuale discussione orale. Il ricorso giunge in decisione dopo che, con ordinanza interlocutoria n. 27879/2021, è stata ritenuta opportuna la trattazione in pubblica udienza per decidere la questione di diritto se il giudice di merito, per fondare il proprio convincimento sulle condizioni del Paese di origine del richiedente protezione, possa fare riferimento a fonti alternative rispetto a quelle specificamente indicate dal ricorrente, senza sottoporle al preventivo contraddittorio delle parti.
Il ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c. Il Pubblico Ministero ha illustrato per iscritto le proprie conclusioni. Le parti non sono intervenute in udienza.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia «violazione dell’art. 360, n. 4, c.p.c., in relazione agli artt. 3, comma 3, d.lgs. n. 251/2007, 8, commi 2 e 3, e 27, comma 1-bis, d.lgs. n. 25/2008, 6, comma 6, d.P.R. 21/2015, 16 Direttiva 2013/32/UE, 101, comma 2, c.p.c. – violazione del diritto al contraddittorio delle informazioni sul Paese d’origine individuate dall’autorità giudiziaria e ritenute contrastanti con quelle prodotte dalla ricorrente».
1.1. Oggetto di censura è il fatto che la Corte d’appello abbia motivato la non sussistenza in Pakistan di una situazione di conflitto armato basandosi su una fonte COI (Country of Origin Information) diversa da quelle indicate dalla parte nei suoi atti (che sono state del tutto ignorate nella sentenza) e utilizzata d’ufficio dal giudice, senza averla prima sottoposta al contraddittorio.
1.2. L’esposizione del motivo offre l’occasione per una preliminare disamina di alcune questioni ricorrenti nelle controversie in materia di protezione internazionale, all’esito della quale individuare il principio di diritto strettamente pertinente al caso di specie dal quale consegue la fondatezza del ricorso.
1.2.1. Si è recentemente delineato un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte circa gli oneri che gravano sul ricorrente per cassazione per proporre una censura ammissibile – di violazione di legge o di nullità della sentenza per motivazione apparente o di omesso esame di fatto decisivo ex art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. –, nel caso in cui il giudice del merito non abbia adempiuto al dovere di «cooperazione istruttoria», ai fini dell’accertamento della fondatezza di una domanda di protezione internazionale volta ad ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato o la protezione sussidiaria, in molti casi proposta sulla base del pericolo di danno grave di cui all’art. 14, lett. c), del d.lgs. n. 251 del 2007, o lo abbia fatto in modo incompleto o inadeguato, o comunque non rispettoso dei canoni legali.
I due indirizzi in contrasto sono stati così riepilogati nelle ordinanze interlocutorie nn. 12584, 12585 e 12586 del 12.5.2021 (adunanza della sesta sezione del 9.3.2021): «Secondo il più risalente orientamento, al quale hanno aderito in progresso di tempo numerose pronunce, in tema di protezione sussidiaria dello straniero, ai fini dell’accertamento della fondatezza di una domanda proposta sulla base del pericolo di danno di cui all’art. 14 del d.lgs. n. 251 del 2007, una volta che il richiedente abbia allegato i fatti costitutivi del diritto, il giudice del merito è tenuto, ai sensi dell’art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008, a cooperare nell’accertare la situazione reale del Paese di provenienza mediante l’esercizio di poteri-doveri officiosi d’indagine e di acquisizione documentale in modo che ciascuna domanda venga esaminata alla luce di informazioni aggiornate; al fine di ritenere adempiuto tale onere, il giudice è tenuto ad indicare specificatamente le fonti aggiornate in base alle quali abbia svolto l’accertamento richiesto e il contenuto dell’informazione da essa tratta e ritenuta rilevante per la decisione, così da consentire alle parti la verifica della pertinenza e della specificità di detta informazione con riguardo alla situazione concreta del Paese di provenienza del richiedente la protezione (Sez. 6-1, n. 11312 del 26.4.2019, Rv. 653608-01; Sez. 1, n. 13897 del 22.5.2019, Rv. 654174 — 01; Sez. 6 - 1, n. 11312 del 26.4.2019, Rv. 653608 — 01; Sez. 1, n. 11096 del 19.4.2019, Rv. 656870 — 01; Sez. 1, n. 13449 del 17.5.2019, Rv. 653887 - 01; Sez. 2, n. 9230 del 20.5.2020, Rv. 657701 — 01; Sez. 2, n. 26229 del 18.11.2020, Rv. 659681 — 01; Sez. 3, n. 22527 del 16.10.2020, Rv. 659409 — 02; Sez. 3, n. 262 del 12.1.2021, Rv. 660386 — 01). Si è aggiunto che il giudice di merito è tenuto ad indicare l’autorità o l’ente da cui la fonte consultata proviene e la data o l’anno di pubblicazione, in modo da assicurare la verifica del rispetto dei requisiti di precisione e aggiornamento previsti dal richiamato art. 8, comma 3, del d.lgs. citato (Sez. 2, n. 1777 del 27.01.2021, Rv. 660313 — 01; Sez. 1, n. 29147 del 21.12.2020, Rv. 660108 — 01). Secondo questo orientamento, in caso di assenza o di radicale insufficienza delle indicazioni relative alle fonti consultate dal giudice di merito, il motivo di ricorso non deve necessariamente contenere l’indicazione delle fonti alternativamente prospettate dal ricorrente, ma può limitarsi a evidenziare il mancato adempimento del dovere di cooperazione istruttoria, così come declinato dall’art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008, che impone l’indicazione specifica delle fonti aggiornate al momento della decisione, non potendosi presumere, in assenza di tale indicazione, l’assolvimento dell’obbligo di legge (Sez.1, n. 2461 del 3.2.2021). L’opinione prevalente, ma non del tutto incontrastata, ritiene che la violazione da parte del giudice del dovere di «cooperazione istruttoria» configuri un error in procedendo poiché la norma di azione concretizza un obbligo di attività del giudice, a cui la normativa dell’Unione e la disciplina nazionale assegnano una funzione strumentale rispetto all’accertamento del diritto alla protezione internazionale, in relazione all’onere della prova attenuato che grava sul richiedente asilo; è pur vero che la giurisprudenza di questa Corte normalmente esige dalla parte che propone ricorso per cassazione deducendo la nullità della sentenza per un vizio dell’attività del giudice lesivo del proprio diritto di difesa l’onere di indicare il concreto pregiudizio derivato, atteso che, nel rispetto dei principi di economia processuale, di ragionevole durata del processo e di interesse ad agire, la impugnazione non tutela l’astratta regolarità dell’attività giudiziaria ma mira a eliminare il concreto pregiudizio subito dalla parte, sicché l’annullamento della sentenza impugnata è necessario solo se nel successivo giudizio di rinvio il ricorrente possa ottenere una pronuncia diversa e più favorevole rispetto a quella cassata (Sez. 2, 2.8.2019, n. 20874; Sez. 1, 6.3.2019 n. 6518; Sez. 3, 13.2.2019 n. 4159; Sez. 2, 9.8.2017 n. 19759; Sez. 3, 27.1.2014 n. 11612; Sez. 3, 13.5.2014, n. 10327). Tuttavia, nel caso in esame, per il richiedente asilo viene ravvisato un pregiudizio in re ipsa che svincola il ricorrente dalla allegazione o dalla dimostrazione delle conseguenze pregiudizievoli scaturite dall’inadempimento del dovere del giudice; infatti, diversamente ragionando, secondo questo orientamento, si verrebbe a riattribuire al ricorrente non solo l’onere di allegazione ma anche quello della prova, interferendo con i tratti fondanti della disciplina armonizzata dell’Unione; lo stesso concetto potrebbe essere espresso anche ponendo in evidenza la necessaria ricaduta dell’inadempimento del dovere di attività del giudice sul contenuto della decisione, mutilata del necessario accertamento sulle questioni efficacemente innescate dall’allegazione del richiedente asilo; appaiono peraltro evidenti sia l’esigenza di coordinamento di questo orientamento con la giurisprudenza della Corte in tema di denuncia di nullità processuali, sia la necessità inderogabile di armonizzare le soluzioni interpretative con il diritto dell’Unione europea.
Secondo un altro e più recente orientamento, le cui pronunce capofila sono quelle della Sez. 1, n. 21932 del 9.10.2020, Rv. 659234 — 01 e n. 22769 del 20/10/2020, Rv. 659276 — 01 (al quale si iscrivono anche Sez. 1 n. 2720, 2721, 2728 e 2730 del 4.2.2021), invece, chi intenda denunciare con ricorso per cassazione la violazione da parte del giudice di merito dell’art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008, per avere rigettato la domanda senza indicare le fonti di informazione da cui ha tratto le conclusioni, ha l’onere di allegare che esistono COI (country origin information) aggiornate e attendibili dimostrative dell’esistenza, nella regione di provenienza, di una situazione di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato, di indicarne gli estremi e di riassumerne (o trascriverne) il contenuto, al fine di evidenziare che, se il giudice ne avesse tenuto conto, l’esito della lite sarebbe stato diverso, non potendo altrimenti la Corte apprezzare l’astratta rilevanza del vizio dedotto e, conseguentemente, valutare l’interesse all’impugnazione ex art. 100 c.p.c. Il requisito dell’interesse a ricorrere, quale condizione di ammissibilità dell’impugnazione, richiederebbe quindi al ricorrente l’onere di dimostrare il fondamento della sua richiesta, ingiustamente sacrificato dall’inadempimento del dovere di cooperazione istruttoria, in una prospettiva in cui non pare immediatamente evidente il confine fra la verifica delle condizioni di ammissibilità dell’impugnazione e il merito della domanda. Le pronunce del secondo orientamento, nell’affermare l’onere di allegazione e trascrizione (o almeno di citazione e sintesi) delle COI pretermesse, sembrano riferirsi anche a fonti e documenti non prodotti – o non necessariamente prodotti nel giudizio di merito – e il cui esame verrebbe in rilievo per la prima volta nel giudizio di legittimità quale condizione di ammissibilità della censura».
1.2.2. Ritiene il Collegio che il contrasto giurisprudenziale in atto, concernente pronunce emesse all’esito di procedimento camerale, non necessiti, allo stato, di rimessione alle Sezioni Unite di questa Corte, potendo essere risolto in applicazione dei principi informatori della disciplina, processuale e sostanziale, in tema di protezione internazionale, da interpretarsi in coerenza con i tratti fondanti della disciplina armonizzata dell'Unione e anche dei principi dettati dalla CEDU.
Tanto premesso, il Collegio reputa maggiormente condivisibile il primo orientamento, pur se con alcune precisazioni riduttive di non scarso rilievo su cui più dettagliatamente infra, in base alle argomentazioni che si vanno ad illustrare in capitoli separati.
1.2.3. Il Collegio ritiene innanzitutto che occorra preliminarmente procedere ad alcune puntualizzazioni generali di carattere processuale.
1.2.3.1. In primo luogo occorre sottolineare la «specialità» del processo di protezione internazionale e la deroga alla regola generale e ordinaria di cui all’art. 2697 c.c.
Secondo principi consolidati nella giurisprudenza di questa Corte, che sono ora sinteticamente richiamati perché basilari nella soluzione delle questioni scrutinate, all’ampia attenuazione dell’onere probatorio a carico dell’attore richiedente asilo circa i fatti costitutivi del suo diritto, rispetto alla regola generale e ordinaria stabilita dall’art. 2697 c.c., si correla l’obbligo di «cooperazione istruttoria» da parte del giudice, che trova fondamento normativo nei principi fissati dall’art. 4 della Direttiva CE 13.12.2011 n. 95 e recepiti nel nostro ordinamento nazionale dall’art. 3 del d.lgs. 19.11.2007 n. 251, trasfusi specificamente nell’art. 8 del d.lgs. 28.1.2008 n. 25 e richiamati dall’art. 35-bis, comma 9, e dall’art. 27, comma 1-bis, dello stesso d.lgs. 25/2008, quanto alla fase giurisdizionale.
Pertanto:
a) l’autorità amministrativa esaminante ed il giudice devono svolgere un ruolo attivo nell’istruzione della domanda, disancorato dal principio dispositivo proprio del giudizio civile ordinario e libero da preclusioni o impedimenti processuali, oltre che fondato sulla possibilità di assumere informazioni ed acquisire tutta la documentazione necessaria;
b) la «cooperazione istruttoria», per definizione, agisce solo sul terreno della prova e il congruo esame della domanda deve essere condotto alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati, elaborate dalla Commissione nazionale sulla base dei dati forniti dall’UNHCR, dall’EASO, dal Ministero degli affari esteri anche con la collaborazione di altre agenzie ed enti di tutela dei diritti umani operanti a livello internazionale, o comunque acquisite dalla Commissione stessa;
c) in tema di rischio di cui all’art. 14, lett. c), d.lgs. n. 251/2007 si può prescindere dal riscontro individualizzante, nei termini rigorosi definiti dalle sentenze della Corte di Giustizia UE Elgafaji, 17 febbraio 2009 (C-465/07) e Diakité, 30 gennaio 2014 (C-285/12), purché sia credibile l’allegazione sulla provenienza dal Paese ove sussiste il conflitto (tra le tante Cass. nn. 8819/2020; 10286/2020 e 14283/2020), e in tal caso il giudice, in attuazione del dovere di cooperazione, deve compiere la verifica officiosa, che è collegata strettamente al divieto di respingimento (Cass. n. 3016/2019), circa la sussistenza di un rischio derivante da violenza indiscriminata.
Le suesposte considerazioni, fondate sulle citate solide basi normative, consentono di elidere un primo elemento di criticità del più recente orientamento di questa Corte, che si risolve, in ultima analisi, nel richiedere al ricorrente che impugna per cassazione di dimostrare di «aver ragione», ossia di avere interesse all’impugnazione mediante l’allegazione di idonee fonti informative, in una sostanziale negazione della regola derogatoria su cui infra, ponendo a suo carico un onere probatorio non previsto dalla legge. In altri termini, non può imporsi al richiedente ricorrente in cassazione un onere diverso e più gravoso di quello che gli è imposto nei precedenti gradi di giudizio, e che lo esonera addirittura da ogni produzione documentale circa il contenuto delle fonti informative pertinenti alla sua domanda di protezione internazionale ex art. 14, lett. c), citato.
1.2.3.2. Occorre poi formulare alcune riflessioni circa l’onere di allegazione e la specificità del motivo di ricorso.
La giurisprudenza di questa Corte è granitica nel distinguere fra onere di allegazione e onere della prova e nel tenere con fermezza il primo fuori dal perimetro della «cooperazione istruttoria»; è stato pertanto ripetutamente affermato che nei giudizi aventi ad oggetto l’esame di domande di protezione internazionale in tutte le sue forme, nessuna norma di legge esonera il ricorrente in primo grado, l’appellante o il ricorrente per cassazione, dall’onere di allegare in modo chiaro i fatti costitutivi della pretesa, di censurare in modo chiaro le statuizioni del giudice di primo grado e di assolvere gli oneri di esposizione, allegazione ed indicazione richiesti a pena di inammissibilità dall’art. 366, comma 1, nn. 3, 4 e 6, c.p.c. (tra le tante Cass. nn. 28780/2020; 17185/2020).
Ciò posto, il problema della consultazione e della citazione di fonti informative pertinenti e aggiornate si pone se e in quanto ciò sia rilevante in relazione agli sviluppi del processo e alla dialettica devolutoria delle impugnazioni.
Pertanto, con riferimento al giudizio di legittimità:
a) poiché il ricorrente beneficia dell’attenuazione dall’onere della prova, ma non di quello dell’allegazione, il rischio di danno grave ex art.14, lett. c), citato, in relazione al quale egli imputa con il motivo di ricorso al giudice del merito di non aver cooperato o di averlo fatto male, deve essere stato da lui ritualmente allegato e ciò deve risultare dal provvedimento impugnato oppure, in modo specifico e autosufficiente, dal ricorso;
b) per le stesse ragioni, se il processo si è svolto secondo il rito antecedente all’istituzione delle sezioni specializzate di cui al d.l. 13/2017 – e cioè con doppio grado di merito ex art. 19 d.lgs. 150/2011 e appello ex art. 702-quater cod. proc. civ. – il rischio di danno grave, in relazione al quale egli imputa con il motivo di ricorso al giudice del merito di non aver cooperato o di averlo fatto male, deve essere stato da lui fatto oggetto di specifico motivo di impugnazione in appello ex art. 342 c.p.c., perché, altrimenti, in difetto di devoluzione, si sarebbe formato il giudicato interno; ciò deve risultare dal provvedimento impugnato oppure, in modo specifico e autosufficiente, dal ricorso;
c) inoltre, se il ricorrente prospetta una situazione nel suo paese di origine di violenza indiscriminata rilevante ex art.14, lett. c), d.lgs. 251/2007 e articolo 15, lett. c), della direttiva 2011/95/UE, trascurata o mal indagata dal giudice di merito, occorre che la situazione allegata sia astrattamente riconducibile alla nozione di «conflitto armato interno» come delineato dalla giurisprudenza CGUE (Corte di Giustizia 05/09/2022 Grande Sezione, 17 febbraio 2009, causa C-465/07, Elgafaji; sentenza 30 gennaio 2014, causa C-285/12, Diakitè; sentenza CGUE, 3a Sezione, del 10.6.2021 in causa C- 901/19) e dalla giurisprudenza di questa Corte, essendo, pertanto, necessaria l’allegazione di una situazione di conflitto armato interno (Cass. n. 37658/2021).
È stato chiarito al proposito che in tema di protezione sussidiaria, ex art. 14, lett. c), del d.lgs. n. 251 del 2007, il conflitto armato interno, tale da comportare minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona di un civile, ricorre in situazioni in cui le forze armate governative di uno Stato si scontrino con uno o più gruppi armati antagonisti, o nelle quali due o più gruppi armati si contendano tra loro il controllo militare di un dato territorio, purché il conflitto ascenda ad un grado di violenza indiscriminata talmente intenso ed imperversante da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile rinviato nella regione di provenienza corra il rischio descritto nella norma per la sua sola presenza sul territorio, tenuto conto dell’impiego di metodi e tattiche di combattimento che incrementano il rischio per i civili, o direttamente mirano ai civili; della diffusione, tra le parti in conflitto, di tali metodi o tattiche; della generalizzazione o, invece, localizzazione del combattimento; del numero di civili uccisi, feriti, sfollati a causa del combattimento (Cass. n. 5675/2021).
1.2.3.3. Non possono essere omesse alcune considerazioni ulteriori circa l’inquadramento delle COI e l’inammissibilità di ampliamento del perimetro fattuale nel giudizio di cassazione ex art. 372 c.p.c.
L’obbligo di «cooperazione istruttoria» del giudice concerne l’acquisizione di informazioni sul Paese di origine del richiedente, in acronimo COI («Country of origin information»), che sono elaborate sulla base dei dati forniti dalle agenzie delle organizzazioni, nazionali e internazionali, che si occupano di rifugiati e di asilo (come l’UNHCR e l’EASO) e di altri enti che si occupano di diritti umani, e da questi rese pubbliche con la redazione di report diffusi tramite appositi portali (ad esempio: Refworld, Ecoi.net, EASO COI portal), ovvero tramite i siti internet dei suddetti enti, o ancora con il metodo tradizionale della stampa e diffusione dei report, oppure, secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass. nn. 13449/2019; 13253/2020), anche tramite i siti internet delle principali organizzazioni non governative attive nel settore dell’aiuto e della cooperazione internazionale.
Come sottolineato dalla dottrina, nel processo di protezione internazionale l’acquisizione delle COI non rientra nello schema processuale dell’art. 738 c.p.c., poiché si tratta di notizie di carattere generale, che descrivono la situazione sociale, politica, economica e legislativa di un determinato Paese, utilizzabili in più processi e fornite da soggetti che svolgono il compito di raccolta dati e informazioni per doveri istituzionali o statutari e che rendono pubbliche le notizie raccolte.
L’acquisizione della «prova» sulla situazione del Paese di origine avviene, quindi, con modalità del tutto peculiari, perché le informazioni non sono tratte dalla scienza privata della «persona informata sui fatti» che compare in udienza o relaziona per iscritto in contraddittorio tra le parti, e la fonte, cioè la persona o l’ente che fornisce le informazioni, non compare in udienza a testimoniare, ma le informazioni sono veicolate tramite mezzi di diffusione di massa. Ne consegue la necessità di un controllo sull’accuratezza della metodologia di ricerca ed elaborazione dei dati, finalizzato a che gli stessi siano il più possibile attendibili, pertinenti e aggiornati.
Il riferimento operato dall’art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008 alle «fonti informative privilegiate» garantisce la pubblicità e la trasparenza della veicolazione dei suddetti dati, con le ricordate connotazioni, e, dunque, il rispetto del principio della parità delle armi nel processo, rispetto a questo particolare strumento istruttorio. Chiara, infatti, è la distinzione tra l’informazione (COI) e la fonte da cui è prodotta o promana e l’obbligo di cooperazione istruttoria del giudice è adempiuto se l’informazione introdotta nel processo è pubblica, trasparente, aggiornata e verificabile.
Pertanto:
a) se il fatto allegato, con la congrua specificazione di cui supra, è la situazione di violenza indiscriminata di cui all’art. 14, lett. c), d.lgs. n. 251/2007 e la provenienza del richiedente da un determinato Paese è sufficientemente accertata, le COI si utilizzano come prova diretta della suddetta situazione;
b) si tratta di un’indagine fattuale, all’esito della quale il giudice esprime una valutazione che appartiene al merito della controversia, e le informazioni sul Paese d’origine, acquisite tramite le modalità previste dalla legge, non possono essere inquadrate nella categoria delle nozioni di fatto appartenenti alla comune esperienza, né in quella dei fatti notori, perché descrivono la situazione di un determinato Paese in un dato momento, ossia una situazione in continua evoluzione (così condivisibilmente Cass. n. 11096/2019);
c) la struttura e la funzione del giudizio di cassazione non tollerano l’ampliamento del perimetro fattuale rispetto a quello dei giudizi di merito e dunque l’indagine sull’effettiva esistenza e sul concreto contenuto delle fonti informative alternative, non indicate dal ricorrente nei precedenti gradi, esula dal controllo demandato alla Corte di Cassazione;
d) stante il limite invalicabile dell’art. 372 c.p.c., è inammissibile la produzione nel giudizio di cassazione di documenti sulla situazione del Paese di origine che non siano stati prodotti dal ricorrente, oppure che non siano stati dallo stesso indicati nei giudizi di merito, e ciò quale necessario corollario delle puntualizzazioni sub a), b) e c).
Anche le suesposte considerazioni consentono di elidere un altro elemento di criticità del più recente orientamento di questa Corte, che determina una sovrapposizione fra i piani dell’ammissibilità e del merito, nel senso che, richiedendo, praticamente, al ricorrente di dimostrare di «aver ragione» o di «poter avere ragione» mediante l’allegazione o produzione di fonti informative alternative, sollecita l’esame di quelle stesse fonti da parte del giudice di legittimità, ossia sollecita una valutazione meritale, oltretutto su dati fattuali non introdotti nei gradi precedenti.
1.2.4. L’analisi deve ora spostarsi sul vizio di attività del giudice e sulle modalità della sua deducibilità nel giudizio di cassazione e prendere in diretta considerazione l’onere per il ricorrente di dimostrazione del pregiudizio concretamente subito.
Si è visto che, secondo l’impostazione dell’orientamento più recente, poiché l’inadempimento da parte del giudice dell’obbligo di cooperazione istruttoria, in violazione del citato art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 25 del 2008, è vizio processuale di attività del giudice, si richiede che la censura sia formulata allegando e dimostrando quale sia il pregiudizio in concreto conseguito dal suddetto vizio processuale. Ciò in adesione all’indirizzo di questa Corte, ribadito in numerose pronunce, secondo cui il ricorrente che denunci la nullità della sentenza per un vizio dell'attività del giudice lesivo del proprio diritto di difesa ha l'onere di indicare il concreto pregiudizio derivato, atteso che la impugnazione non tutela l'astratta regolarità dell'attività giudiziaria e, nel rispetto dei principi di economia processuale, di ragionevole durata del processo e di interesse ad agire, l’annullamento della sentenza impugnata è necessario solo se nel successivo giudizio di rinvio il ricorrente possa ottenere una pronuncia diversa e più favorevole rispetto a quella cassata (tra le tante anche Cass. nn. 20874/2019; 6518/2019).
Rileva il Collegio che, con recente pronuncia, le Sezioni Unite di questa Corte hanno meglio chiarito e delimitato l’ambito del suddetto indirizzo, affermando che non sussiste l’onere, per la parte ricorrente per cassazione, di indicare in concreto quali argomentazioni sarebbe stato necessario addurre in prospettiva di una diversa soluzione del merito della controversia, qualora sia frapposto un impedimento alla possibilità per i difensori delle parti di svolgere con completezza il diritto di difesa e qualora il contraddittorio e la difesa non si realizzino in piena effettività durante tutto lo svolgimento del processo (Cass. S.U. n. 36596/2021, in una fattispecie in cui il giudice aveva deciso la controversia senza assegnare alle parti i termini per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, ovvero senza attendere la loro scadenza).
Ritiene il Collegio che i suddetti principi possano essere mutuati nel processo di protezione internazionale, con riguardo all’ipotesi in cui ricorra il difetto totale dell’accertamento istruttorio ufficioso.
In tale caso può, infatti, ritenersi che il pregiudizio sia in re ipsa, e ciò per le seguenti molteplici e concorrenti ragioni:
a) la tutela ex art. 14, lett. c), e quindi la regola di diritto sostanziale, si realizza mediante l’attività di accertamento ufficioso della situazione di violenza indiscriminata, ostativa al rimpatrio del cittadino straniero; ove mancasse totalmente detto accertamento (da eseguire necessariamente con le note modalità di legge) il decisum non avrebbe contenuto, nel senso che l’inadempimento del dovere di attività del giudice si ripercuoterebbe necessariamente sul contenuto della decisione, «mutilata del necessario accertamento sulle questioni efficacemente innescate dall’allegazione del richiedente asilo» (cfr. le ordinanze interlocutorie citate);
b) l’istruttoria ufficiosa, ossia l’attività del giudice, è inscindibilmente collegata e funzionale allo scopo di «conoscenza» della situazione del Paese di origine – e in particolare di una situazione di violenza indiscriminata – e senza la «conoscenza» non vi può essere, in radice, la tutela del diritto fondamentale in gioco;
c) l’error in procedendo (vizio di attività) si traduce, pertanto, automaticamente in vulnus, in quanto è immediatamente lesivo della piena effettività della difesa del richiedente, non onerato di alcuna prova dell’anzidetta situazione proprio perché compete al giudice accertarla, nonché è lesivo dell’effettività del ricorso ex art. 13 CEDU e art. 46 Dir. 2013/32/UE, effettività, per l’appunto, garantita mediante l’attività di ricerca di informazioni pertinenti ed aggiornate e mediante il loro esplicito inserimento nel percorso logico della motivazione.
1.2.5. Con riferimento alle fattispecie soggette al rito antecedente all’istituzione delle sezioni specializzate di cui al d.l. 13/2017 – e cioè con doppio grado di merito ex art. 19 d.lgs. 150/2011 e appello ex art. 702-quater cod. proc. civ. –, ritiene il Collegio di dover dare continuità all’orientamento di questa Corte secondo cui, ai sensi del combinato disposto degli artt. 70, 348-bis, lett. a), e 348-ter, cod. proc. civ. non opera, nella fattispecie della protezione internazionale, il principio della cd. «doppia conforme» (Cass. nn. 12217/2020; 12223/2020; 2010/2021; in senso difforme Cass. nn. 7995/2020; 22383/2020; 7634/2020).
Al riguardo, richiamate le articolate argomentazioni di Cass. n. 2010/2021, qui condivise, è dirimente il rilievo che si tratta di procedimenti attinenti al riconoscimento di uno status personale, che ex art. 70, comma 1, n. 3, c.p.c., richiedono l’intervento necessario del pubblico ministero, al quale appunto l’abrogato art. 19, comma 6, d.lgs. n. 150 del 2011 prevedeva che fosse comunicazione del ricorso e del decreto di fissazione di udienza; intervento necessario del resto contemplato anche ora nel procedimento in unico grado di merito dinanzi alle Sezioni specializzate dall’art. 35 bis, comma 6, d.lgs. 25/2008.
1.2.6. Il Collegio intende, infine, dare continuità all’orientamento di questa Corte secondo cui l’erronea intitolazione del motivo di ricorso per cassazione non osta alla sua sussunzione in altre fattispecie di cui all’art. 360, comma 1, c.p.c., né determina l'inammissibilità del ricorso, se dall’articolazione del motivo sia chiaramente individuabile il tipo di vizio denunciato.
Occorre, infatti, ribadire che il ricorso per cassazione, pur avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360, comma 1, c.p.c. e pur dovendo essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, non richiede la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi. Pertanto, è sufficiente che l’illustrazione del motivo abbia un contenuto univoco che renda chiaramente riconducibile la censura ad una delle cinque ragioni di impugnazione di cui alla citata norma (Cass. nn. 10862/2018; 26310/2017; 25557/2017; 4036/2014).
1.2.7. Le precisazioni di carattere processuale che precedono consentono, ora, più agevolmente di affrontare e risolvere il contrasto che si registra presso la giurisprudenza di questa Corte a proposito degli oneri che gravano sul ricorrente per cassazione in caso di censura della sentenza di merito in cui il giudice abbia omesso ogni adempimento rispetto a quel dovere di «cooperazione istruttoria», ovvero vi abbia assolto in modo incompleto ed inadeguato, non rispettoso dei canoni legali, in particolare in relazione a quelle forme di protezione (sussidiaria, ex art. 14, lett. c) del d.lgs. n. 251/2007) in astratto concedibili in presenza di una situazione di violenza indiscriminata nel Paese e nella regione d’origine non necessariamente collegata con la vicenda personale del richiedente.
Il Collegio ritiene inoltre necessaria una interpretazione orientata alla disciplina del diritto dell’Unione europea.
Infatti l’obbligo di cooperazione istruttoria è posto dall’ordinamento europeo a carico degli Stati membri, e non solo delle Autorità giudiziarie che in essi operano: gli Stati membri devono provvedere «affinché le decisioni dell’autorità accertante relative alle domande di protezione internazionale siano adottate previo congruo esame» (art. 4 Direttiva 2011/95/CE). La Direttiva impone poi allo Stato membro, in cooperazione con il richiedente, di esaminare tutti gli elementi significativi della domanda, indicati «nelle dichiarazioni del richiedente e in tutta la documentazione in possesso del richiedente in merito alla sua età, estrazione, anche, ove occorra, dei congiunti, identità, cittadinanza/e, paese/i e luogo/luoghi in cui ha soggiornato in precedenza, domande d’asilo pregresse, itinerari di viaggio, documenti di viaggio nonché i motivi della sua domanda di protezione internazionale».
L’art. 10 della Direttiva 2013/32/UE, nel fissare i criteri applicabili all’esame delle domande, ribadisce il compito degli Stati di garantirne un congruo esame da parte dell’autorità accertante, alle quali deve garantire che «pervengano da varie fonti informazioni precise e aggiornate, quali l’EASO e l’UNHCR e le organizzazioni internazionali per i diritti umani pertinenti, circa la situazione generale esistente nel paese di origine dei richiedenti e, ove occorra, nei paesi in cui questi hanno transitato e che tali informazioni siano messe a disposizione del personale incaricato di esaminare le domande e decidere in merito».
Come già evidenziato, tali principi sono stati tradotti nel nostro ordinamento per il tramite dell’art. 8 del d.lgs. 28.1.2008 n. 25, con disciplina richiamata dagli artt. 35-bis, comma 9, e dall’art. 27, comma 1-bis, dello stesso decreto, quanto alla fase giurisdizionale, e, nel rispetto della normativa eurounitaria, il legislatore nazionale ha «separato» gli oneri di allegazione e prova relativi ai procedimenti di protezione internazionale, gravando l’Autorità statale del compito di procurare informazioni precise ed aggiornate circa la situazione generale del Paese di provenienza ed eventualmente di quelli di transito.
A ciò va aggiunto, come ben sottolineato dalla dottrina, che l’attività di ricerca di informazioni pertinenti ed aggiornate e il loro esplicito inserimento nel percorso logico della motivazione è momento essenziale di quell’approfondito e completo esame della domanda che garantisce anche l’effettività del ricorso imposta dall’art. 13 CEDU e dall’art. 46 della Dir. UE 2013/32, sicché il diritto a un ricorso effettivo contribuisce a determinare il contenuto del dovere di cooperazione del giudice, avuto, altresì, riguardo alle ulteriori dirimenti considerazioni che si verte in tema di tutela di diritti fondamentali della persona e che la verifica officiosa circa la sussistenza di un rischio derivante da violenza indiscriminata in zona di conflitto armato interno è collegata strettamente al divieto di respingimento.
Ribadita, dunque, la necessità di una interpretazione orientata in armonia con il diritto dell’Unione europea e i principi dettati dalla CEDU, occorre differenziare la svariata casistica oggetto di scrutinio, perché il vizio di attività del giudice, ossia l’inadempimento dell’obbligo di cooperazione istruttoria, potrà consistere in un difetto totale o parziale dell’accertamento ufficioso e occorrerà valutarne l’incidenza sul pregiudizio concreto che ne consegue sul diritto di difesa del ricorrente e sul suo diritto all’effettività della tutela.
Di conseguenza, dovendo stabilirsi in quali ipotesi il pregiudizio potrà considerarsi in re ipsa e in quali, invece, necessiti di idonea dimostrazione, l’onere di deducibilità del vizio da parte del richiedente ricorrente in cassazione si connoterà in modo differenziato a seconda delle varie ipotesi in disamina.
1.2.8. La prima fattispecie da considerare è quella del difetto totale di accertamento istruttorio ufficioso, ravvisabile laddove nessuna fonte informativa sia indicata dal giudice, oppure sia indicata in modo del tutto inidoneo ad individuarla.
Come si è già evidenziato, se il richiedente è onerato della dimostrazione innanzitutto della propria provenienza e delle circostanze che lo hanno indotto alla partenza, secondo il criterio del ragionevole sforzo, va ribadito, però, che tale onere di allegazione riguarda la sua storia individuale, di cui egli è unico depositario: lo stesso non vale per le condizioni generali del Paese di provenienza, la cui ricostruzione è dal sistema di norme riservata all’attivazione sistematica e costante, indipendentemente dalla singola vicenda giudiziaria, che grava sull’Autorità statale. Così configurato il dovere a carico dell’autorità statale e giurisdizionale, non può imporsi al richiedente ricorrente per cassazione un onere diverso e più gravoso di quello che gli è imposto nei precedenti gradi di giudizio, e che lo esonera addirittura da ogni produzione documentale circa il contenuto delle fonti informative pertinenti alla sua domanda di protezione internazionale.
La totale inattività del giudice di merito, ovvero la mancanza di ogni indicazione specifica delle fonti, si risolve nel mancato adempimento del dovere di cooperazione istruttoria prescritto dall’art. 8, comma 3, e dall’art. 27, comma 1-bis, del d.lgs. n. 25 del 2008.
Dunque, non è coerente a tale specifica posizione processuale che, al fine di reagire alla compiuta violazione di legge, il richiedente si debba fare carico di sostituirsi al giudice e di colmare il vuoto informativo che inficia la decisione impugnata, nonché, come già rimarcato, il pregiudizio è in re ipsa, perché il vulnus è massimo e automatico nelle ipotesi considerate, anche in quanto lesivo dell’effettività del ricorso ex art. 13 CEDU e 46 Dir. UE 2013/32.
Alla stessa soluzione, sotto altro concorrente profilo interpretativo, si perviene richiamando la giurisprudenza consolidata di questa Corte in tema di deduzione del vizio di violazione della regola dell’onere probatorio, secondo la quale la violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c. si configura allorché il giudice di merito abbia applicato la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costitutivi ed eccezioni (fra le tante Cass. nn. 17313/2020; 26769/2018; 13395/2018; 26366/2017). Mutatis mutandis, anche in questo caso la parte ricorrente deduce un error in iudicando de iure procedendi e lamenta l’errore nella regola di giudizio.
Riepilogando, anche per meglio precisare, le ipotesi ora scrutinate si verificano:
a) quando il giudice attribuisce al richiedente l’onere della prova (ad esempio, affermando che il racconto non è provato, ossia subordinando alla valutazione di credibilità della vicenda personale quella, oggettiva e indipendente da quest’ultima, relativa alla sussistenza di una situazione di violenza indiscriminata in zona di conflitto armato nel Paese di origine);
b) quando il giudice, implicitamente ma inequivocabilmente, si sottrae all’obbligo di cooperazione istruttoria, non accertando d’ufficio quanto è rilevante in relazione alle allegazioni formulate o oggetto di devoluzione per il caso dell’appello;
c) quando il giudice esprime il proprio giudizio fattuale sulla situazione di violenza indiscriminata nel Paese di origine, ma non indica in alcun modo dove abbia assunto le informazioni che utilizza, attingendo apparentemente a una sua scienza privata, oppure quando il giudice indica le fonti in modo del tutto neutro ed astratto, insuscettibile di qualsiasi verifica e controllo (ad esempio, utilizzando formule come «fonti internazionali» o «fonti disponibili» o «COI più recenti» senza indicazione della persona o ente da cui promana l’informazione).
Nelle suddette ipotesi, la censura può, quindi, essere formulata:
a) come vizio di violazione di legge ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. (artt. 14, lett. c, 8, comma 3, d.lgs. 25/2008, 2697 c.c.);
b) come vizio ex art. 360, comma 1, n. 4, e 132, comma 2, n. 4, c.p.c. per motivazione apparente, salva la possibile riqualificazione della doglianza alla stregua di quanto supra precisato;
c) senza indicazione di alcuna fonte informativa alternativa.
1.2.9. Occorre poi considerare la fattispecie del difetto parziale di accertamento istruttorio ufficioso e in particolare la citazione lato sensu incompleta della fonte.
Nella giurisprudenza di questa Corte è stato precisato che è onere del giudice specificare la fonte in concreto utilizzata ed il contenuto dell’informazione da essa tratta, nonché la data o l’anno di pubblicazione e l’autorità o l’ente da cui la fonte consultata proviene, così da consentire alle parti la verifica della pertinenza e della specificità di detta informazione con riguardo alla situazione concreta del Paese di provenienza del richiedente (Cass. nn. 1777/2021; 29147/2020; da ultimo, n. 7105/2021).
Ciò condurrebbe a ritenere viziata per violazione di legge e mancata cooperazione istruttoria la pronuncia con cui il giudice, pur avendo acquisito d’ufficio informazioni e avendo citato la fonte consultata, abbia omesso la citazione completa del documento consultato (non indicando cioè la data o l’esatto link di riferimento).
Ritiene il Collegio che tale soluzione sia troppo rigorosa e necessiti di un temperamento.
Si può, infatti, escludere il vizio di violazione di legge in caso di consultazione di fonti tipizzate ex art. 8, comma 3, d.lgs. 25/2008 («informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati, elaborate dalla Commissione nazionale sulla base dei dati forniti dall’UNHCR, dall’EASO, dal Ministero degli affari esteri anche con la collaborazione di altre agenzie ed enti di tutela dei diritti umani operanti a livello internazionale, o comunque acquisite dalla Commissione stessa») non debitamente citate con indicazione degli estremi e della data, potendosi presumere, in difetto di elementi di segno diverso, che si tratti delle più recenti e aggiornate, pubblicamente consultabili.
Si può quindi presuntivamente ritenere, dissentendo dalla giurisprudenza indicata, che il riferimento alle fonti tipizzate, in difetto di contraria dimostrazione, sia alla più recente edizione on line delle informazioni divulgate da quella fonte e che sia altresì pertinente e specifico.
Occorre ribadire il principio, sottolineato in dottrina, che la pubblicità e la trasparenza delle informazioni e delle loro fonti, nonché della metodologia di ricerca ed elaborazione, è essenziale per un corretto ingresso di questo particolare strumento nel processo. Della peculiare natura delle COI e della loro pubblicità si deve tenere conto anche al fine di valutare se, come e quando la loro acquisizione rispetti il principio della «parità delle armi» nel processo.
La circostanza che le COI sono fornite ed elaborate non solo da agenzie istituzionali ma anche da organizzazioni indipendenti e che sono di pubblico accesso è già di per sé una garanzia che tutte le parti sono poste sullo stesso piano, quanto all’accessibilità di una pluralità di informazioni, e hanno le stesse possibilità di sostenere e difendere le proprie posizioni. La difesa può, infatti, accedere alle stesse informazioni che utilizzano la pubblica amministrazione e il giudice: nel processo di protezione internazionale il contenuto delle informazioni non è svelato per la prima volta nel processo, perché è già noto o conoscibile, con tutto ciò che ne consegue, sotto il versante processuale, del pregiudizio derivato dal vizio di attività del giudice, solo parziale, e relativi oneri di deducibilità.
Nello specifico, poiché la «parità delle armi» è garantita dalla pubblicità e trasparenza delle fonti tipizzate e tanto determina l’impossibilità di configurare il pregiudizio in re ipsa e il vulnus automatico del diritto di difesa, il richiedente ricorrente per cassazione, nel censurare la decisione, sarà onerato di dare atto in modo specifico degli elementi di fatto idonei a dimostrare che il giudice di merito abbia deciso sulla base di informazioni erronee, oppure non più attuali oppure non pertinenti e specifiche, dovendo la censura contenere precisi richiami, anche testuali, alle fonti alternative o successive proposte e prodotte nei giudizi di merito.
Occorre ribadire, anche a questo proposito, che in nessun caso è consentito al ricorrente fondare la denuncia di vizio motivazionale sulla base di documenti non sottoposti al giudice del merito e prodotti la prima volta in sede di giudizio di cassazione, a ciò ostando la struttura e la funzione del giudizio di legittimità e il disposto dell’art. 372 c.p.c.
In questa ipotesi, pertanto, la doglianza può essere proposta a titolo di vizio motivazionale da far valere ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., e quindi nei limiti attualmente consentiti del c.d. «minimo costituzionale» e dell’omesso esame di fatto decisivo discusso tra le parti.
In caso di consultazione di fonti atipiche, sia pur equipollenti, invece, poiché non ricorre la stessa garanzia di pubblicità e trasparenza che consente la contestuale salvaguardia del diritto di difesa, la soluzione sarà opposta, ossia dovrà ritenersi sussistente la citata violazione di legge e il vulnus automaticamente prodottosi, senza onere per il richiedente ricorrente per cassazione di deducibilità del pregiudizio concreto derivato nei termini precisati.
Alle medesime conclusioni, per coerenza argomentativa, dovrà pervenirsi qualora la censura riguardi la non attualità delle fonti indicate nel provvedimento impugnato, ove la data, pur se non prossima a quella della decisione, sia stata indicata.
Anche tale ipotesi è inquadrabile nel novero di quelle con citazione delle fonti informative lato sensu incompleta, perché difetta della precisazione della non variazione all’attualità della situazione descritta; si deve di conseguenza presumere, in difetto di dimostrazione contraria, che la situazione descritta dal giudice in base a informazioni acquisite dalle fonti tipizzate sia rimasta la medesima alla data della decisione, mentre la soluzione sarà opposta, nei termini precisati, se è atipica la fonte richiamata nel provvedimento impugnato.
Riepilogando, la censura può, quindi, essere formulata:
a) come vizio di violazione di legge ex art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. (artt. 14, lett. c, 8, comma 3, d.lgs. 25/2008, 2697 c.c.), se la citazione in senso lato incompleta è di una fonte atipica, senza onere per il ricorrente di indicazione di fonti informative alternative;
b) come vizio motivazionale da far valere ex art. 360, comma 1, n.5, c.p.c., e quindi nei limiti attualmente consentiti del c.d. «minimo costituzionale» e dell’omesso esame di fatto decisivo discusso tra le parti, se la citazione in senso lato incompleta è di una fonte tipizzata, con onere per il ricorrente di indicazione di fonte informativa alternativa, già allegata nei giudizi di merito e congruente con il tipo di pericolo di danno grave oggetto di deduzione in causa e con il motivo, altrimenti mancante di specificità.
1.2.10. Se le fonti consultate dal giudice sono compiutamente indicate, nel senso supra precisato e sono anche di data prossima a quella della decisione, e il ricorrente contesta l’accertamento operato dal giudice del merito, indicandone altre acquisite al processo, più attendibili e convincenti e a lui favorevoli, non sussiste violazione di legge e la doglianza può essere proposta solo a titolo di vizio motivazionale da far valere ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., e quindi nei limiti attualmente consentiti del c.d. «minimo costituzionale» e dell’omesso esame di fatto decisivo discusso tra le parti, con allegazione di fonti già acquisite al contraddittorio nel giudizio di merito.
In questi casi, infatti, il giudice non ha violato la regola di riparto dell’onere probatorio, né ha violato il citato art. 8, ma, secondo il ricorrente, ha compiuto un accertamento erroneo: la decisione, cioè, è stata assunta secondo la legge, ma non sarebbe giusta.
In questi casi il ricorrente può censurare la decisione:
a) facendo presente di avere allegato una situazione fattuale, rilevante in causa, non verificata attraverso la fonte utilizzata dal giudice (ad esempio una recrudescenza bellica);
b) lamentando e dimostrando il mancato aggiornamento della fonte utilizzata dal giudice rispetto alle sue allegazioni;
c) dolendosi del mancato esame di una fonte informativa da lui indicata e dimostrandone la decisività; infatti il mancato esame di un documento può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui determini l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, segnatamente, quando il documento non esaminato offra la prova di circostanze di tale portata da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di fondamento. Ne consegue che la denuncia in sede di legittimità deve contenere, a pena di inammissibilità, l’indicazione delle ragioni per le quali il documento trascurato avrebbe senza dubbio dato luogo a una decisione diversa (cfr., tra le tante, Cass. n. 16812/2018).
Fuori da questi casi la censura si riversa nel merito per richiedere alla Corte di legittimità di rinnovare l’accertamento del fatto e la valutazione delle prove e si rivela per ciò solo inammissibile.
Occorre, infine, ribadire con forza che in nessun caso è consentito al ricorrente fondare la denuncia di vizio motivazionale sulla base di documenti non sottoposti al giudice del merito e prodotti la prima volta in sede di giudizio di cassazione, a ciò ostando la struttura e la funzione del giudizio di legittimità e il disposto dell’art. 372 c.p.c.
1.2.11. Diverso è il caso in cui il giudice abbia attinto le informazioni da un documento prodotto in causa. Il riferimento per relationem consente di identificare la fonte e l’accertamento di fatto può essere sindacato solo per vizio motivazionale, al pari del caso in cui il giudice d’appello abbia fatto riferimento alla decisione di primo grado e alle fonti da essa citate.
1.2.12. Ulteriore e delicata tematica è quella che riguarda la denuncia di mancata preventiva sottoposizione al contraddittorio delle COI acquisite officiosamente dal giudice, fatta valere come violazione dell’art. 101 c.p.c. e, appunto, del principio del contraddittorio.
È stato sostenuto che sia inammissibile il motivo di ricorso per cassazione con il quale si censuri l’omessa sottoposizione al contraddittorio delle COI acquisite d’ufficio, ove il motivo non indichi in quale modo l’omessa conoscenza delle COI da parte del richiedente abbia inficiato il giudizio conclusivo del giudice, né si indichino nel ricorso altre e diverse fonti di conoscenza che si pongano in contrasto con le informazioni acquisite dal tribunale, così rendendo la censura priva di specificità (Cass. n. 899/2021). Richiamate le considerazioni di carattere processuale già espresse e i principi affermati dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 36596/2021, ritiene il Collegio di dover dare continuità a quanto condivisibilmente affermato con la pronuncia di questa Corte n. 29056/2019, secondo cui, in tema di protezione internazionale, l’omessa sottoposizione al contraddittorio delle COI assunte d’ufficio dal giudice ad integrazione del racconto del richiedente, non suffragato dall’indicazione di pertinenti informazioni relative alla situazione del Paese di origine, non lede il diritto di difesa di quest’ultimo, poiché in tal caso l’attività di cooperazione istruttoria è integrativa dell’inerzia della parte e non ne diminuisce le garanzie processuali, a condizione che il Tribunale renda palese nella motivazione a quali informazioni abbia fatto riferimento, al fine di consentirne l’eventuale critica in sede di impugnazione; sussiste, invece, una violazione del diritto di difesa del richiedente quando costui abbia esplicitamente indicato le COI, ma il giudice ne utilizzi altre, di fonte diversa o più aggiornate, che depongano in senso opposto a quelle offerte dal ricorrente, senza prima sottoporle al contraddittorio.
Detta impostazione è coerente con la natura particolare delle COI, sopra illustrata, e non è lesiva del diritto di difesa del richiedente, nella sussistenza delle condizioni di cui si è appena detto.
1.2.13. È necessaria infine un’ultima precisazione, relativamente ai casi in cui il ricorrente lamenta un difetto di cooperazione istruttoria con riferimento all’allegazione di fatti persecutori o a un rischio di danno grave «individualizzato» di cui all’art.14, lett. a) e b), d.lgs. 251/2007, a proposito del quale il richiedente asilo non è stato ritenuto intrinsecamente credibile dal giudice del merito, dovendosi ritenere il motivo di ricorso inammissibile se non investe e non supera la predetta valutazione di non «credibilità intrinseca».
Diversamente occorre ragionare per la c.d. «credibilità estrinseca», che può essere correttamente valutata solo rapportando il racconto del richiedente, intrinsecamente solido e non contraddittorio o incongruente, con la realtà sociale, culturale o religiosa dell’ambiente di riferimento, operazione possibile solo acquisendo preventivamente idonee informazioni.
Un esempio: se il ricorrente sostiene di esser fuggito dalle minacce persecutorie di un setta segreta o di un cosiddetto cult, se il racconto non è creduto dal giudice perché il richiedente si è contraddetto sulla datazione dei fatti, o ha raccontato diverse versioni, o se il suo narrato non si regge logicamente, è del tutto inutile acquisire informazioni sull’operato della setta in questione: frustra probatur quod probatum non relevat. Diversamente, se il giudice dubita delle finalità o delle modalità operative della setta, o delle tecniche o degli ambienti di reclutamento, allora l’acquisizione delle COI appare necessaria e indispensabile.
Occorre dare continuità ai principi già al proposito condivisibilmente espressi (Cass. nn. 24575/2020; 6738/2021), secondo cui, in materia di protezione internazionale, una volta esclusa la credibilità intrinseca della narrazione offerta dal richiedente asilo alla luce di riscontrate contraddizioni, lacune e incongruenze, non deve procedersi al controllo della credibilità estrinseca – che attiene alla concordanza delle dichiarazioni con il quadro culturale, sociale, religioso e politico del Paese di provenienza, desumibile dalla consultazione di fonti internazionali meritevoli di credito – poiché tale controllo assolverebbe alla funzione meramente teorica di accreditare la mera possibilità astratta di eventi non provati riferiti in modo assolutamente non convincente dal richiedente. Infatti, ai fini della valutazione dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale, il giudizio sulla valutazione di credibilità del racconto del richiedente, che sia ben circostanziato ma inverosimile, può essere espresso solo all’esito dell’acquisizione di pertinenti informazioni sul suo paese di origine e delle sue condizioni personali, a differenza di quanto accade nell’ipotesi di racconto intrinsecamente inattendibile alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva, in cui essendo il racconto affetto da estrema genericità o da importanti contraddizioni interne, la ricerca delle COI è inutile, perché manca alla base una storia individuale rispetto alla quale valutare la coerenza esterna, la plausibilità ed il livello di rischio.
Infine, allorché si renda necessario indagare sulla credibilità estrinseca con riferimento all’allegazione di fatti persecutori o a un rischio di danno grave «individualizzato» di cui all’art. 14, lett. a) e b), d.lgs. 251/2007, ritenuti intrinsecamente credibili, il giudice dovrà procedere alla «cooperazione istruttoria» secondo i principi e criteri affermati nei capitoli precedenti: si tratta dello stesso adempimento ex art. 8 d.lgs. 25/2008, che però non deriva puramente e semplicemente dall’allegazione della situazione, ma anche da un quid pluris e cioè la credibilità intrinseca del racconto, come sopra intesa. In tali ipotesi varranno parimenti gli stessi principi esposti in tema di deduzione del vizio di cooperazione istruttoria in sede di legittimità.
1.2.14. Orbene, nel caso di specie, la corte d’appello, nel motivare il diniego della protezione sussidiaria, ha escluso che in Pakistan sussista una situazione di conflitto armato ai sensi dell’art. 14, lett. c), d.lgs. n. 251/2007 sulla base del sintetico rinvio a un’unica fonte sulle COI, ovverosia il «rapporto EASO Pakistan Security Situation pubblicato a ottobre 2019». Parte ricorrente lamenta innanzitutto che tale fonte di informazione non sia stata sottoposta al contraddittorio delle parti, come dimostra lo stesso fatto che le conclusioni erano state precisate davanti alla Corte territoriale all’udienza del 17.9.2019 (circostanza allegata nel ricorso e risultante anche dalla stessa sentenza impugnata), ovverosia prima della pubblicazione di quelle COI. Inoltre, parte ricorrente afferma di avere indicato nell’atto d’appello e nelle sue difese successive altre COI, alle quali la sentenza impugnata non fa alcun cenno («rapporto pubblicato il 18.6.2018 dall’Asylum Research Center»; rapporto «pubblicato nel 2018 da Amnesty International»; «rapporto pubblicato dall’EASO ad ottobre 2018»; «Human Rights Watch, Report Pakistan 2019»).
1.2.15. Sussiste, quindi, in base a quanto motivato in particolare al precedente punto 1.2.12, la denunciata lesione del diritto di difesa, posto che l’attività di cooperazione istruttoria svolta in violazione del principio del contraddittorio non è stata giustificata dall’inerzia della parte, la quale aveva invece indicato plurime COI qualificate e pertinenti, di cui il giudice di merito non ha tenuto conto in alcun modo.
La Corte, nell’accogliere il primo motivo di ricorso, ritiene pertanto di dover enunciare il seguente principio di diritto ex art. 384 c.p.c.: «In materia di protezione internazionale, l’omessa sottoposizione al contraddittorio delle informazioni sul Paese di origine (COI) assunte d’ufficio dal giudice ad integrazione del racconto del richiedente, non suffragato dall’indicazione di pertinenti informazioni relative alla situazione del Paese di origine, non lede il diritto di difesa di quest’ultimo, poiché in tal caso l’attività di cooperazione istruttoria è integrativa dell’inerzia della parte e non ne diminuisce le garanzie processuali, a condizione che il giudice renda palese nella motivazione a quali informazioni abbia fatto riferimento, al fine di consentirne l’eventuale critica in sede di impugnazione; sussiste, invece, una violazione del diritto di difesa del richiedente quando costui abbia esplicitamente indicato le COI, ma il giudice ne utilizzi altre, di fonte diversa o più aggiornate, che depongano in senso opposto a quelle offerte dal ricorrente, senza prima sottoporle al contraddittorio.»
2. Con il secondo e il terzo motivo di ricorso, M.Z. contesta il mancato riconoscimento della protezione per motivi umanitari, denunciando i seguenti vizi: «violazione dell’art. 360, n. 4, c.p.c., in relazione agli artt. 8 e 32, comma 3, d.lgs. n. 25/2008, 5, comma 6, 19 d.lgs. 286/1998 – nullità della sentenza – motivazione apparente in relazione alla domanda di riconoscimento della protezione umanitaria»; «violazione dell’art. 360, n. 3, c.p.c., in relazione agli artt. 8, 32, comma 3, d.lgs. n. 25/2008, 5, comma 6, 19 d.lgs. 286/1998 – violazione dei criteri legali per il riconoscimento della protezione umanitaria – omesso bilanciamento tra le prospettive di vita del ricorrente in Italia e in Pakistan».
2.1. L’accoglimento del primo motivo e la conseguente cassazione della sentenza impugnata determinano l’assorbimento dei rimanenti due motivi, posto che l’affermato principio di diritto impone al giudice del rinvio di riconsiderare, non solo il diniego della protezione sussidiaria, ma anche quello della domanda di protezione per motivi umanitari.
3. Anche la decisione sulle spese di lite relative a questo grado di legittimità e la relativa liquidazione vengono rimesse al giudice del rinvio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbiti i rimanenti, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Torino, perché decida, in diversa composizione, anche sulle spese di lite relative al presente grado di legittimità.