Il divieto di doppio giudizio, rappresentando esclusivamente un principio tendenziale cui si ispira oggi l'ordinamento internazionale, è derogabile.
Svolgimento del processo
l. Con sentenza pronunziata il 18 gennaio 2021 la Corte di assise di Milano ha dichiarato (omissis) colpevole (in concorso con (omissis) già giudicato con separato procedimento) colpevole di: (capo 1), omicidio volontario di(omissis) (omissis) , colpito alla tempia sinistra con un colpo di arma da fuoco materialmente sparato dal (omissis) (capo 2), tentato omicidio di (omissis). colpito alla coscia sinistra con un colpo di arma da fuoco sparato ad altezza d'uomo dal (omissis) (capo 3), detenzione e porto illegali di una pistola semiautomatica 9x21, detenzione di un caricatore per pistola semiautomatica bifilare, di altro caricatore per pistola semiautomatica monofilare, di una scatola portacolpi, in (omissis) (omissis) (capo 4), sequestro di persona di (omissis) (omissis) costretta sotto la minaccia di una pistola a salire sulla vettura condotta dal e occupata dal (omissis) e a trattenersi contro la sua volontà nell'appartamento dei due, in (omissis) dalle 2,30 del 3 settembre (omissis) alle 14,30 del 4 settembre (omissis);aveva dichiarato assorbite le imputazioni di cui ai capi 5, 6 e 7 (lesioni personali, violenza privata e violenza sessuale in danno della (omissis)) nel reato di cui al capo 4.
1.1.La Corte di assise di Milano - riuniti i predetti reati sotto il vincolo della continuazione - lo ha condannato alla pena di anni venticinque e mesi quattro di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali e di mantenimento durante la custodia cautelare in carcere; con la medesima sentenza, infine, il (omissis) è stato assolto dalla imputazione di cui al capo 8) della rubrica relativo alla detenzione e porto illegale di una pistola semiautomatica cal. 7,65, matricola 32496, modello Browing munita di silenziatore.
2. La Corte di assise di appello di Milano con sentenza del 24 novembre 2021 ha respinto l'appello proposto da ed ha quindi confermato la sopra indicata decisione della Corte di primo grado.
2.1. I motivi di gravame dell'imputato erano tre.
2.2. Con il primo era stata eccepita la nullità della sentenza di primo grado con riferimento all'art.178 cod. proc. pen.; con il secondo la nullità della sentenza impugnata per violazione degli artt.649 e 669 cod. proc. pen. e dell'art.9 della Convenzione Europea di Estradizione di Parigi del 1957; con l'ultimo motivo di appello era stata contestata l'entità della pena inflitta ritenuta eccessiva rispetto ai fatti ed era stata lamentata la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche.
Al riguardo la Corte territoriale ha escluso la sussistenza di un impedimento assoluto legato alle condizioni di salute dell'imputato non emergendo tale condizione dalla documentazione sanitaria allegata all'atto di appello.
Quanto poi al secondo motivo di gravame la Corte di assise di appello ha osservato che il processo celebrato in uno Stato che non appartiene alla Unione Europea non preclude la rinnovazione del giudizio per i medesimi fatti in Italia perché il ne bis in idem non è un principio generale di diritto internazionale, applicabile in quanto tale nell'ordinamento interno; infine, rispetto al trattamento sanzionatorio, la Corte territoriale ha respinto le relative censure osservando che non poteva ritenersi eccessiva una fissata nel minimo edittale e che non risultava possibile il riconoscimento delle generiche in considerazione dei gravissimi reati commessi dal (omissis) mentre era evaso.
3. Avverso la predetta sentenza per mezzo del difensore di fiducia avv. Roberto B., propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi, di seguito riportati nei limiti di cui all'art.173 disp. att. cod. proc. pen.
3.1. Con il primo lamenta la violazione di legge per non avere la Corte territoriale rilevato la impossibilità dell'imputato (a causa delle sue condizioni di salute e delle restrizioni agli spostamenti legate alla pandemia Covid-19) ad accedere nel territorio italiano per presenziare al giudizio di primo grado, in virtù del disposto di cui agli artt.420-ter, commi 1 e 3, cod. proc. pen.
3.2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell'art,14, comma 7, della Convenzione internazionale sui diritti civili e politici, dell'art.117, comma 1, Cost. e degli artt.731 e 739 cod. proc. pen. In particolare, egli evidenzia che il principio del ne bis in idem internazionale sussiste anche nei rapporti tra Italia ed Albania (nonostante quest' ultima non faccia parte dell'Unione Europea) poiché il divieto contenuto nella citata Convenzione si estende a tutti gli Stati aderenti e quindi anche ad Italia ed Albania.
3.3. Infine, con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell'art.143- bis cod. pen. con la conseguente nullità della sentenza impugnata non essendo stata disposta la traduzione della medesima.
Motivi della decisione
l. La Corte osserva che il ricorso è infondato e che, pertanto, deve essere respinto.
2. Anzitutto, con riferimento al primo motivo del ricorso, :i rileva che la Corte territoriale ha evidenziato che il difensore dell'odierno ricorrente - alla udienza del 14 ottobre 2020 - aveva chiesto un rinvio per legittimo impedimento dell'imputato legato alle sue gravi condizioni di salute in quanto affetto da patologia di natura oncologica e che tale richiesta era stata respinta poiché, sulla base della stessa documentazione, non vi era prova della lamentata malattia. Nella sentenza impugnata viene motivato - in modo adeguato e privo di vizi loqici - che il mancato riconoscimento del legittimo impedimento era giustificato proprio dalla stessa documentazione sanitaria nella quale non è stata confermata l'esistenza di una malattia di natura cancerogena e nemmeno l'asserita impossibilità di partecipare all'udienza personalmente od in video conferenza. Orbene, il ricorrente con la sua impugnazione vorrebbe una differente valutazione della prede·:ta documentazione sanitaria che, però, non è possibile in questa sede essendo stata già dettagliatamente vagliata in sede di merito.
3. Quanto al secondo motivo si osserva che questa Corte si è pronunciata più volte in senso contrario rispetto a quanto sostenuto dal ricorrente (vedi, da ultimo, Sez. 1, Sentenza n.14868/2020, non massimata).
3.1. In particolare è stato chiarito che «in caso di reato commesso nel territorio nazionale da un cittadino appartenente ad uno Stato in cui non vigono accordi idonei a derogare alla disciplina dell'art. 11 cod. pen., il processo celebrato in quello Stato non preclude la rinnovazione del qiudizio in Italia per i medesimi fatti, non essendo il principio del ne bis in idem principio generale del diritto internazionale, come tale applicabile nell'ordinamento interno>> (Sez. 1, n. 33564 V del 21/5/2019, Tavanxhiu, n.m.; Sez. 4, n. 3315 del 6/12/2016, dep. 2017, Shabani, Rv. 269222 - 01; Sez. 1, n. 29664 del 12/6/2014, P.c:;. in proc. Spalevic, Rv. 260537 - 01; Sez. 1, n. 20464 del 5/4/2013, N., Rv. 256162 - 01; Sez. 6, n. 44830 del 5 22/9/2004, Cuomo ed altri, Rv. 230595 - 01; Sez. 1, n. 12953 del 5/2/2004, Di Blasi, Rv. 227852 - 01).
E' inoltre opportuno ricordare che la Corte Costituzionale ha, in più occasioni, escluso che il divieto di bis in idem assuma valore di principio comune alla totalità degli ordinamenti statuali moderni e di norma del diritto internazionale generalmente riconosciuta, sottolineando che l'ordinamento italiano, come quelli della maggior parte degli Stati moderni, si ispira ai principi della territorialità ed obbligatorietà generale della legge penale secondo i criteri sta biliti dall'art. 6 e ss. cod. pen., alla stregua dei quali è prevista la possibilità di rinnovamento nello Stato del giudizio, indipendentemente dall'esito del processo già svolto all'estero, la cui sentenza, seppure di proscioglimento, non ha efficacia preclu:;iva all'applicazione della legge italiana (fra le più recenti, Sez. 1, n. 33564 del 21/5/2019, Tavanxhiu, cit.).
Questi principi, a cui si informano entrambe le disposizioni dell'art. 11 cod. pen. - norma ripetutamente giudicata conforme ai precetti costituzionali (Corte cast., n. 48 del 18/4/1967; n. 1 dell'l/2/1973; n. 289 del 25/5/1989) - trovano la loro obiettiva giustificazione nella difforme realtà della disciplina p12nale e processuale penale caratterizzante i diversi ordinamenti giuridici positivi (Corte cast., n. 69 dell'8/4/1976, che richiama la già citata n. 48/67). In sostanza, una volta affermato che il principio del ne bis in idem non costituisce né principio né consuetudine di diritto internazionale, ma, al più, un «principio tendenziale cui si ispira oggi l'ordinamento internazionale» a tutela della posizione del singolo «di fronte alle concorrenti potestà punitive degli Stati» (Corte cast., n. 58 del 1992), deve ritenersi che, ravvisata la giurisdizione italiana in base alle norme di diritto interno (art. 6 e 11 cod. pen.), queste possano recedere rispetto a quelle internazionali (che prevedano ipotesi di ne bis in idem) solo in presenza di convenzioni fra Stati, ratificate e rese esecutive, vincolanti unicamente gli Stati contraenti nei limiti dell'accordo raggiunto.
3.2. Non influisce su questa impostazione e, di conseguenza, sulla correttezza della decisione impugnata, l'evoluzione normativa e giurisprudenziale che ha condotto al riconoscimento, nel più circoscritto ambito eurounitario, del valore generale del principio del ne bis in idem (Sez. 6, n. 54467 del 15/11/2016, Resnely, Rv. 268931 - 01).
3.3. Nel ripercorrere, sinteticamente, detta evoluzione, occorre menzionare, in primo luogo, la Convenzione europea sulla validità internazionale dei giudizi repressivi, aperta alla firma a L'Aia il 28.5.1970, la Convenzione europea sulla trasmissione europea dei giudizi repressivi, aperta alla firma a Strasburgo il 15.5.1972, e la Convenzione tra gli Stati membri delle Comunità europee di Bruxelles del 25.5.1987, resa esecutiva in Italia con L. 16.10.1989, n. 350, in cui il principio in questione viene considerato come "effetto internazionale del giudicato reso in ciascuno degli Stati membri", una formulazione che sarà ripresa nella Convenzione di applicazione dell'Accordo di Schengen del 19.6.1990, recepita nell'ordinamento italiano con L. 30.9.. 1993, n. 388.
3.4. In particolare, l'art. 54 stabilisce che "'una persona che sia stata giudicata con sentenza definitiva in una Parte contraente non può essere sottoposta ad un procedimento penale per i medesimi fatti in un'altra Parte contraente, a condizione che, in caso di condanna, la pena sia stata eseguita o sia effettivamente in corso di esecuzione attualmente o, secondo la legge della Parte contr·aente di condanna, non possa essere più eseguita". In questo modo si attribuisce al giudicato nazionale un'efficacia preclusiva in ordine all'esercizio dell'azione penale per lo stesso fatto in qualunque altro Stato membro, sebbene l'operatività del principio venga limitata dalla previsione contenuta nell'art. 55, in cui si riconosce alle Parti contraenti la facoltà di escludere dall'applicazione convenzionale le decisioni relative a fatti commessi, anche in parte, sul territorio nazionale ovvero a reati contro la sicurezza o contro interessi essenziali della Parte contraente o, ancora, commessi da pubblici ufficiali in violazione dei doveri di ufficio. In ogni caso, il passo in avanti segnato dall'art. 54 è stato riconosciuto dalla giurisprudenza (Sez. 1, n. 28299 del 3/6/2004, Desiderio, Rv. 228779 - 01) e dalla dottrina, che ha rimarcato come con la Convenzione di Schengen si sia realizzata la sostanziale equiparazione tra le sentenze definitive pronunciate dagli Stati contraenti, giustificata sulla base della tendenziale "omogeneità degli ordinamenti dei Paesi firmatari dell'accordo per effetto della comune adesione ai principi generali del diritto comunitario e al quadro di garanzie sostanziali e processuali inerenti al rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali del cittadino europeo" (Sez. 6, n. 54467/2016, cit.).
3.5. Tuttavia, è con la Carta dei diritti fondamentali dell'U1ione europea (c.d. Carta di Nizza), proclamata una prima volta il 7.12.2000 a Nizza e una seconda volta, in una versione adattata, il 12.12.2007 a Strasburgo (da Parlamento, Consiglio e Commissione), che il principio del ne bis in idem, contenuto nell'art. 50 ("Nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell'Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge"), si consolida ulteriormente nella sua dimensione europea e viene configurato come un vero e proprio diritto a tutela dell'imputato; ciò a seguito delle modifiche introdotte dal Trattato di Lisbona, giusta le quali alla Carta di Nizza è conferita efficacia vincolante al pari dei Trattati UE e TFUE, ex art. 6, par. 1 Trattato UE ("ha lo stesso valore giuridico dei Trattati"). Essa è, dunque, diritto primario e rappresenta la forma più evoluta di protezione poiché la tutela disposta vale sia nell'ordinamento nazionale di ogni Stato membro, sia nei rapporti fra 121 gli ordinamenti nazionali, diversamente dall'art. 4 Protocollo n. 7 CEDU, che si applica solo all'interno della giurisdizione di uno Stato membro. Come si afferma nella "Spiegazione" relativa all'art. 50, l'applicazione del principio corrisponde alla CAAS (artt. 54 - 58), alla sentenza della Corte di Giustizia Europea dell'll.2.2003 nei procedimenti riuniti Giiziitok e Brugge e alle norme contenute in altre convenzioni comunitarie (art. 7 della Convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee, art. 10 della Convenzione relativa alla lotta contro la corruzione). Per quanto riquarda l'applicazione del principio all'interno di uno Stato membro, il diritto garantito - precisa la "Spiegazione" - ha lo stesso significato e la stessa portata del corrispondente diritto sancito dalla CEDU, e quindi dal Protocollo n. 7, in conformità alla clausola orizzontale di salvaguardia contenuta nell'art. 52, par. 3.
Limite all'applicazione del principio è l'ambito materiale, l'art. 51, par. 1 prevedendo che la Carta si applichi a istituzioni, organi e organismi dell'Unione e agli Stati "esclusivamente nell'attuazione dell diritto dell'Unione". Aderendo alle conclusioni rassegnate da parte della dottrina, la già richiamata Sez. 6, n. 54467/2016 ritiene, condivisibilmente, che l'art. 51 possa essere interpretato in senso estensivo, ovvero nei casi in cui sia rinvenibile anche solo un «elemento di collegamento», seppure «non in termini di puntuale attuazione o esecuzione del diritto dell'Unione», così come sostenuto dalla Commissione europea nella Comunicazione del 19.10.2010 e, in tempi più recenti, dalla giurisprudenza europea. A tale ultimo riguardo, va segnalato come la Corte di giustizia abbia giudicato attuazione «ogni normativa nazionale volta anche semplicemente a incidere su ambiti regolati dalle suddette fonti UE», specificando «che i principi generali dell'Unione europea vincolano gli Stati membri quando essi traspongono obblighi derivanti dal diritto UE (... ) ma anche quando adottano misure in deroga a tali obblighi», sicché «risultano sottoposti al vaglio di tali principi tutte le norme nazionali atte ad entrare nel campo di applicazione del diritto dell'Unione» (Corte giustizia, 29/5/1997, Kremzow; Corte giustizia, 22/11/2005, Mangold; Corte giustizia, 19/1/2010, Kucukdeveci; Corte giustizia, 26/2/2013, Akerberg Fransson).
3.6. Deve quindi affermarsi che il principio del ne bis in idem, che vieta la celebrazione di un secondo giudizio per fatti identici (ossia corrispondenti negli elementi costitutivi essenziali di condotta, volontà ed ,evento), presenta, attualmente, i seguenti distinti ambiti di operatività: 1) nell'ambito del diritto interno, esso trova la sua disciplina negli art.. 649 (per il giudizio di cognizione), 669 (per il giudizio di esecuzione) e 28 cod. proc. pen. (in relazione ai conflitti positivi di competenza): pur non essendo espressamente contemplato dalla Costituzione, viene ricondotto dalla giurisprudenza costituzionale agli artt. 24 e 111 Cost. 8 (Corte cost., sent. n. 501 del 2000 e sent. n. 129 del 2008) e viene riconosciuto da questa Corte di legittimità quale principio generale dell'ordinamento, adeguato alle esigenze di razionalità e funzionalità del sistema, principio dal quale il giudice, a norma dell'ari:. 12, comma 2, delle preleggi, non può prescindere nell'attività interpretativa (Sez. U, n. 34655 del 28/6/2005, Donati, Rv. 231800 - 01). 2) nell'ambito del diritto internazionale generale, anche nell'attuale momento storico - in cui permani ono "variazioni molteplici e spesso profonde da Stato a Stato" nella "valutazione sociale e politica dei fatti umani" (ancora valido è l'insegnamento di Corte Cost:. n. 48 del 1967) - esso assume, al più, valore di "principio tendenziale", ma non (ancora) valore di principio generale, applicabile, come tale, nell'ordinamento interno ex art. 10 Cost., sicché un processo celebrato nei confronti di un imputato straniero, in uno Stato in cui non vigono accordi idonei a derogare alla disciplina dell'art. 11 cod. pen., non preclude la rinnovazione del giudizio in Italia per gli stessi fatti; 3) nell'ambito del diritto europeo convenzionale (dalla Convenzione EDU), l'art. 4 del Protocollo n. 7 si occupa del principio solo in una prospettiva interna ai singoli Stati; 4) nell'ambito del diritto dell'Unione europea, infine, il ne bis in idem assume, ad oggi, in un'ottica di cooperazione giudiziaria sovranazionale fra Stati, valore di principio generale e, come tale, deve trovare pieno riconoscimento nell'ordinamento interno, atteso che, nella cornice dello "spazio giuridico europeo", «ogni sentenza emessa da uno Stato membro deve valere quale sentenza di ogni singolo St2to, sul presupposto che si tratta di ordinamenti fondati sul rispetto dei diritti umani e delle garanzie difensive che costituiscono il nucleo del giusto processo» (ancora Sez. 6, n. 54467 del 15/11/2016, Resnely, Rv. 268931 - 01).
La distinzione esposta trova un'efficace sintesi nella condivisibile affermazione, suggerita da autorevole dottrina, secondo la quale «Se manca la reciproca fiducia fra gli Stati ovvero una comunanza minima di valori (come è quella su cui si fonda l'art. 2 TUE, dedicato ai "valori della dignità umana, della libert; , della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze") o di norT1e penali simili o armonizzate che contribuirebbe all'eliminazione dei conflitti di giurisdizione e al riconoscimento dell'operatività, sul piano internazionale, del ne bis in idem, il bilanciamento fra interesse dello Stato e tutela del singolo rii;ulterà a favore del primo».
3.7. Alla evocata "comunanza di valori" che connota lo "spazio giuridico europeo" è ancora estranea, come noto, la Repubblica d'Albania, di cui è cittadino l'odierno ricorrente e, pertanto, appare corretta la decisione della Corte di assise di appello di Milano che ha respinto l'istanza dell'imputato poiché: 1) l'istante è cittadino albanese; 2) la Repubblica d'Albania non ha, ancora oggi, completato il processo di adesione all'Unione europea, sicché i suoi cittadini non possono invocare in loro favore, in casi come quello dli specie, l'applicazione del principio del ne bis in idem europeo, che assume valore di principio generale giuridico nel circoscritto ambito eurounitario; 3) fra i due Stati di Italia ed Albania non risultano conclusi accordi bilaterali che disciplinino l'applicazione reciproca del principio del ne bis in idem, sicché, in un caso come quello di specie, non è consentito derogare alla previsione dell'art. 11, comma 1, cod. pen., secondo la quale, nelle ipotesi contemplate dall'art. 6 cod. pen., la sentenza pronunciata nei confronti di un cittadino straniero in uno Stato estero non impedisce la celebrazione di altro giudizio per gli stessi fatti da parte dell'Autorità giudiziaria nazionale.
Né risulta possibile giungere a differenti conclusioni sulla base della rilevanza che assumerebbe, nella materia in discussione, l'art. 9 ("Ne bis in idem") della Convenzione europea di estradizione, aperta alla firma a Parigi il 13.12.1957 e ratificata sia dall'Italia (il 6/8/1963 ed entrata in vigore il 4.11.1963) che dall'Albania (il 19.5.1998 ed entrata in vigore il 17.8.1998). Infatti tale disposizione prevede che : «L'estradizione non sarà consentita quando l'individuo reclamato è stato definitivamente giudicato dalle autorità competenti della Parte richiesta per i fatti che motivano la domanda. Essa potrà essere rifiutata se le autorità competenti della Parte richiesta hanno deciso di non aprire un perseguimento penale o di chiuderne uno già avviato per gli stessi fatti».
Il punto è stato adeguatamente affrontato dalla Corte distrettuale, che in sintonia con quanto affermato in plurime occasioni da questa Corte (si vedano le già citate Sez. 1, n. 33564/2019, Tavanxhiu; Sez. 4, n. 3315/2017, Shabani; Sez. 1, n. 20464/2013, N.), ha correttamente osservato - diversamente da quanto adombrato in ricorso - che l'invocata Convenzione fa riferimento a fattispecie concrete diverse da quella in esame, disciplinando solamente metodiche e procedure estradizionali e, pertanto, non può reputarsi idonea ad essere letta in una prospettiva derogatoria dell'ordinamento interno.
4. Anche il terzo motivo è infondato considerato che in tema di traduzione degli atti, in mancanza di elementi specifici indicativi di un pregiudizio in ordine alla completa esplicazione del diritto di difesa,. l'omessa tradu2ione della sentenza di patteggiamento in lingua nota all'imputato alloglotta non integra di per sé causa di nullità della stessa, atteso che, dopo la modifica dell'art. 613 cod. proc. pen., ad opera della legge 23 giugno 2017, n. 103, l'imputato non ha più facoltà di proporre personalmente ricorso per cassazione (ex multis Cass. Sez. 5, Sentenza n. 32878 del 5/2/2019, Rv. 277111 - 02).
Al riguardo si osserva che il ricorrente non ha allegato specifici motivi in ordine al concreto pregiudizio che avrebbe patito per la mancata traduzione della sentenza di secondo grado, considerato che egli poteva contare su un difensore di fiducia e che il ricorso per cassazione nel suo interesse è stato comunque proposto tempestivamente.
5. Il ricorso, pertanto, deve essere respinto con condan 1a del ricorrente al pagamento delle spese processuali. Infine si dispone, in caso di diffusione della presente sentenza, l'omissione delle generalità e degli altri dati identificativi ai sensi dell'art. 52 del d.lgs. n. 196/2003 in considerazione dell'oggetto dell'imputazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Dispone, in caso di diffusione della presente sentenza, l'omissione delle generalità e degli altri dati identificativi ai sensi dell'art. 52 del d.lgs. n. 196/2003 in considerazione dell'oggetto dell'imputazione.