Se il conferente l'incarico rifiuti, anche ingiustificatamente, di concludere l'affare proposto dal mediatore, qualora nel contratto sia stato previsto un compenso identico (o vicino) alla somma stabilita per l'ipotesi di conclusione dell'affare, il giudice è chiamato a stabilire se tale clausola sia o meno vessatoria.
La Corte d'Appello riformava la decisione di primo grado, revocando il decreto ingiuntivo che era stato ottenuto dall'agenzia immobiliare per il pagamento di una certa somma a titolo di penale per non essersi la controparte presentata all'appuntamento fissato ai fini della stipula del contratto preliminare di compravendita dell'immobile. Nello specifico,...
Svolgimento del processo / Motivi della decisione
L'agenzia L.t.C. a Roma s.r.l. ha proposto ricorso, sulla scorta di tre motivi, per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Roma che, in riforma della pronuncia di primo grado del Tribunale di Roma, ha revocato il decreto ingiuntivo ottenuto dall'odierna ricorrente nei confronti della Sig.ra G.O. per il pagamento della somma di € 5.000 a titolo di penale per non essersi ella presentata all'appuntamento fissato per la stipula di un contratto preliminare di compravendita immobiliare; contratto costituente oggetto di una proposta che la stessa Sig.ra O. aveva formulato e che era stata accettata dal proprietario dell'immobile.
La corte d'appello, pur confermando il giudizio del tribunale secondo cui, in capo alla signora O., era effettivamente sorto l'obbligo di procedere alla stipula del contratto preliminare, ha tuttavia rigettato la domanda esercitata dall'agenzia in via monitoria sul duplice rilievo che (i brani virgolettati di seguito trascritti sono tratti dalle pagine 3 e 4 della sentenza impugnata):
- «la previsione dell'obbligo di un versamento al mediatore, pari alla provvigione non ancora maturata, non costituisca il compenso per l'attività svolta ma una vera e propria penale per il mancato guadagno»;
- detta penale andava giudicata nulla, ai sensi dell'articolo 34 del codice del consumo, in quanto «manifestamente sproporzionata ed eccessiva di ammontare identico a quello della provvigione prevista per il caso di positiva conclusione dell'affare nei termini previsti dalla proposta»; donde «l'inesistenza della pretesa creditoria»
La Sig.ra O. ha depositato controricorso.
La causa è stata discussa nella camera di consiglio del 24 maggio 2022.
Con il primo motivo di ricorso («Omesso esame di fatti e documenti controversi tra le parti e decisivi per il giudizio - art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. ») - la ricorrente, dopo aver precisato come dagli atti e dalla stessa sentenza di primo grado risultasse che l'importo della provvigione pattuita ammontava ad € 10.000, rappresentando quindi il doppio della penale convenuta, censura l'impugnata sentenza sostenendo che la corte d'appello non avrebbe preso in considerazione fatti esposti dall'odierna ricorrente, né esaminato i documenti da lei prodotti e la stessa sentenza di primo grado, conseguentemente fondando la propria decisione su un presupposto di fatto (che l'importo della penale corrispondesse all'importo dell'intera provvigione pattuita) che non emergeva dalle risultanze di causa ed era stato espressamente smentito dal primo giudice.
Il motivo va disatteso, perché esso si risolve in una sollecitazione alla rivalutazione di merito delle risultanze istruttorie che non può trovare ingresso nel giudizio di legittimità. La ricorrente, in sostanza, si duole della mancata considerazione delle motivazioni della sentenza del Tribunale di Roma e ciel contenuto di documenti (che non vengono trascritti, né sunteggiati) da lei prodotti nel fascicolo di primo grado. L'unico fatto decisivo menzionato nel motivo è che l'importo della provvigione sarebbe stato di € 10.000 e non di € 5.000 (cosicché la penale sarebbe stata pari non all'intero importo della provvigione,, ma alla metà cieli tale importo) ma - in disparte qualunque approfondimento sulla decisività di tale fatto - risulta tranciante la considerazione che detto fatto emergerebbe, secondo quanto esposta dalla stessa agenzia ricorrente, da un documento contenuto nel fascicolo da questa depositato nel giudizio di primo grado; documento, quindi, non offerto all'esame della corte di appello, essendo l'agenzia L.t.C. a Roma s.r.l. rimasta contumace nel giudizio di secondo grado.
Con il secondo motivo di ricorso («Violazione e falsa applicazione dell'art. 1332 c.c., anche in relazione del D.lgs. n. 206/2005 - art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.») la ricorrente attinge la seguente statuizione della sentenza impugnata: «mentre il conferente l'incarico al mediatore (mediazione atipica) non è obbligato a stipulare il contratto ed è tenuto, in caso di rifiuto a vendere al terzo reperito dal mediatore, a pagare, ove ciò sia previsto nell'incarico, a quest'ultimo un compenso per l'attività fino a quel momento svolta (Cass. 22357/2010), nell'ipotesi in cui sia il terzo rifiutare di concludere l'acquisto dopo l'accettazione del venditore è evidente che la previsione dell'obbligo di un versamento al mediatore - pari alla provvigione non ancora maturata - non costituisce il compenso per l'attività svolta ma una vera e propria penale per il mancato guadagno» (pag. 3 della sentenza impugnata).
La ricorrente censura tale affermazione argomentando di non comprendere la ragione per cui «la medesima previsione ritenuta legittima per il conferente l'incarico non possa trovare applicazione anche per il proponente l'acquisto» e comunque sostenendo che «con riferimento al terzo proponente l'acquisto, l'attività del mediatore può già ritenersi conclusa all'atto della procacciata accettazione della proposta stessa». Nel motivo di ricorso si deduce, quindi, che «l'attività del mediatore, nel caso di accettazione della proposta, è conclusa e quindi ben potrà parametrarsi il compenso, per l'illegittimo rifiuto a stipulare da parte della signora O., alla provvigione pattuita. A maggior ragione, quindi, non potrà definirsi eccessivo l'importo richiesto e pari alla metà del compenso!» (pagg.. 13/14 del ricorso).
Sotto altro aspetto nel motivo in esame si deduce la violazione dell'articolo 1322 c.c. in cui la corte d'appello sarebbe incorsa giudicando nullo il patto - meritevole di tutela, sottolinea la ricorrente, ai sensi, appunto, del disposto dell'articolo 1322 c.c. - con cui la signora O. si era impegnata al pagamento di una somma pecuniaria per l'ipotesi di proprio recesso successivo all'accettazione della sua proposta da parte del proprietario dell'immobile.
Anche il secondo mezzo di gravame va disatteso, perché non risulta pertinente alla ratio decidendi. La corte di appello non afferma che la pattuizione di un compenso a favore del mediatore per l'attività da costui svolta, in caso di mancata conclusione dell'affare, sarebbe lecita soltanto nel rapporto tra mediatore e venditore e non anche nel rapporto tra mediatore e compratore, né afferma che il patto che attribuisce al mediatore il diritto di trattenere l'importo versato al momento della formulazione della proposta dal promissario acquirente, nel caso in cui quest'ultimo rinunci all'acquisto, sia nullo ai sensi dell'articolo 1322 c.c. perché diretto a realizzare interessi non meritevoli di tutela. La corte capitolina ha ritenuto nullo quel patto perché lo ha qualificato istitutivo di una penale «manifestamente sproporzionata ed eccessiva» e lo ha giudicata vessatorio sul presupposto di fatto che il valore della penale fosse equivalente al valore della provvigione.
Tale ratio decidendi è giuridicamente corretta, in quanto si uniforma al principio già fissato da questa Suprema Corte nella sentenza n. 22357 del 03/11/2010 alla cui stregua «In tema di mediazione, qualora sia previsto in contratto - per il caso in cui il conferente l'incarico rifiuti, anche ingiustificatamente, di concludere l'affare propostogli dal mediatore - un compenso in misura identica (o vicina) a quella stabilita per l'ipotesi di conclusione dell'affare, il giudice deve stabilire se tale clausola determini uno squilibrio fra i diritti e gli obblighi delle parti e sia, quindi, vessatoria, ai sensi dell'art. 1469 bis, comma primo, cod. proc. civ. (ora art. 33, comma primo, codice del consumo), salvo che in tale pattuizione non sia chiarito che, in caso di mancata conclusione dell'affare per ingiustificato rifiuto, il compenso sia dovuto per l'attività sino a quel momento esplicata».
Non sussiste quindi il denunciato vizio di violazione di legge. L'agenzia ricorrente, in effetti, muove la propria doglianza sulla base di un presupposto di fatto (che l'importo della provvigione fosse di 5.000 e non di 10.000) che non emerge dalla sentenza impugnata ed anzi contrasta con l'espresso accertamento operato dalla corte distrettuale che l'importo di € 5.000 versato dalla Sig.ra O. all'agenzia al momento della formulazione della proposta era «identico a quello della provvigione prevista per il caso di positiva conclusione dell'affare nei termini previsti dalla proposta»; tale giudizio di fatto non è censurabile mediante il vizio di violazione di legge ex art. 360 n. 3 c.p.c., dedotto nel motivo in esame, potendo essere censurato in sede di legittimità soltanto con il mezzo di cui al n. 5 dell'articolo 360 c.p.c. (dedotto, ma non adeguatamente, nel primo motivo di ricorso).
Il ricorso è rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
Deve altresì darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della società ricorrente, del raddoppio del contributo unificato ex art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 115/02, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna la società ricorrente a rifondere alla controricorrente le spese del giudizio di cassazione, che liquida in € 2.300, oltre € 200 per esborsi e altri accessori di legge.
Dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della società ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.