Il dovere di specifica non viene meno a causa della circostanza che nello studio fosse presente una sola dipendente donna ad assistere i clienti.
Il Tribunale di Brindisi condannava un datore di lavoro all'ammenda di 1.200 euro a carico del ricorrente, che aveva commesso il reato previsto dall'
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 6 ottobre 2021, il Tribunale di Brindisi, all'esito del dibattimento celebrato a seguito di opposizione a decreto penale di condanna, per quanto qui interessa ha condannato G.P. alla pena di 1.200 euro di ammenda per il reato di cui all'art. 55, comma 4, d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, in relazione agli artt. 11, comma 1, d.lgs. n.151 del 2001 e 28, comma 2, lett. a), dello stesso d.lgs. 81/2008, per non aver elaborato un congruo documento di valutazione dei rischi (DVR) in relazione al proprio studio odontoiatrico, omettendo di valutare i rischi per la sicurezza e la salute delle lavoratrici, in particolare quelli di esposizione ad agenti fisici, chimici o biologici, processi o condizioni di lavoro di cui all'allegato C al d.lgs. 151/2001.
2. Avverso la suddetta sentenza, a mezzo del difensore di fiducia, l'imputato ha proposto ricorso per cassazione, lamentando la violazione delle disposizioni incriminatrici richiamate in imputazione, nonché degli artt. 3, 25, comma 2, 27, comma 3, Cast. e del Decreto interministeriale del 30 novembre 2012.
In particolare, il giudice avrebbe omesso di considerare che, poiché lo studio del ricorrente occupava un'unica lavoratrice e poiché il rischio di esposizione ad agenti chimici e biologici era basso, la valutazione dei rischi e l'individuazione delle misure di prevenzione e di protezione potevano essere effettuate secondo le procedure standardizzate di cui all'art 6, comma 8, lett. f), d.lgs. n. 81 del 2008.
Inoltre, dall'esame dei fatti e dalle dichiarazioni rese risulterebbe che nello studio non erano presenti lavoratrici in età fertile e che, comunque, il DVR conteneva, al riguardo, indicazioni sulle eventuali misure da adottare.
Infine, si lamenta che non era stato tenuto in considerazione un condivisibile precedente di merito che, in caso identico, era giunto ad epilogo assolutorio.
Motivi della decisione
1. In diritto giova premettere che, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, in tema di prevenzione degli infortuni, il datore di lavoro, avvalendosi della consulenza del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, ha l'obbligo giuridico di analizzare e individuare, secondo la propria esperienza e la migliore evoluzione della scienza tecnica, tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all'interno dell'azienda e, all'esito, deve redigere e sottoporre periodicamente ad aggiornamento il documento di valutazione dei rischi previsto dall'art. 28 del d.lgs. n. 81 del 2008, all'interno del quale è tenuto a indicare le misure precauzionali e i dispositivi di protezione adottati per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn e aa., Rv. 261109; Sez. 4, n. 20129 del 10/03/2016, Serafica e a., Rv. 267253).
Le sanzioni penali previste nel caso di omessa, o incompleta, valutazione dei rischi operano anche nei confronti dei datori di lavoro che occupino fino a dieci addetti, in quanto le modalità semplificate di adempimento degli obblighi in materia di valutazione dei rischi, previste per tali aziende, non esonerano il datore di lavoro dai relativi obblighi (Sez. 3, n. 23968 del 03/03/2011, La Carrubba, Rv. 250375). Anche in queste ipotesi, le modalità pur semplificate di adempimento dell'obbligo di valutazione richiedono l'individuazione degli specifici pericoli cui i lavoratori sono sottoposti e la specificazione delle misure di prevenzione da adottarsi (cfr. Sez. 3, n. 4063 del 04/10/2007, dep. 2008, Franzoni, Rv. 238539). Ed invero, il contenuto qualificante e minimo del documento di valutazione dei rischi, previsto dall'art. 28 del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, deve essere costituito, oltre che da una relazione sulla valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante l'attività lavorativa, anche dall'indicazione delle misure di prevenzione e di protezione attuate e dei dispositivi di protezione individuali adottati (Sez. 3, n. 12940 del 12/01/2021, Carpenteri, Rv. 281238).
1.1. L'art. 11, comma 1 del d.lgs. 151 del 2001 - decreto espressamente richiamato dall'art. 28, comma 1, d.lgs. 81/2008 - prevede, poi, un'ulteriore ed aggiuntiva valutazione a carico del datore di lavoro, con riferimento ai rischi per la sicurezza e la salute delle lavoratrici, in particolare i rischi di esposizione ad agenti fisici, chimici o biologici, processi o condizioni di lavoro di cui all'allegato C al medesimo testo normativo. La circostanza che i rischi non siano attuali, in quanto non vi sia tra il personale una donna in gravidanza, non esime il datore di lavoro dalla valutazione imposta dall'art. 11 del d.lgs. 151 del 2001, dovendo egli comunque compilare il DVR considerando tutti i rischi ipotetici e le misure di prevenzione da adottarsi nel caso di gravidanza. Né è consentito derogare alla previsione di legge adducendo - come invece il ricorrente pretende di fare - una presunta infertilità del personale dipendente dovuta all'età. A prescindere dal fatto che, nel caso di specie, tale situazione, al più da valutarsi alla data di redazione del DVR, è meramente allegata dal ricorrente e non risulta dalla sentenza impugnata (né da atti processuali che siano stati indicati), è assorbente il rilievo che, per l'art. 6, comma 2, d.lgs. 151/2001, le misure per la tutela della sicurezza e della salute delle lavoratrici durante il periodo di gravidanza e fino a sette mesi di età del figlio previste dal capo secondo del decreto, nel quale è ricompreso l'art. 11, si applicano «altresì alle lavoratrici che hanno ricevuto bambini in adozione o in affidamento, fino al compimento dei sette mesi di età», ciò che ulteriormente conferma come la valutazione di quei profili di rischio vada comunque effettuata dal datore di lavoro che, come nella specie, occupi personale di genere femminile.
1.2. Quanto al precedente richiamato in ricorso, a tacer d'altro lo stesso non è pertinente, essendo riferito al diverso reato di violazione degli obblighi di informazione dei lavoratori sui rischi da radiazioni ionizzanti, di cui all'art. 61, comma 3, lett. e), d.lgs. 17 marzo 1995, n. 220, sanzionato dal successivo art. 139, comma 1, lett. a), e oggi sostituito dalle nuove disposizioni dettate dal d.lgs. 31 luglio 2020, n. 101.
2. Ciò considerato in diritto, osserva il Collegio che la sentenza impugnata ha correttamente affermato che una adeguata valutazione del rischio deve analizzare il pericolo connesso alle lavorazioni o all'ambiente di lavoro non solo in modo generico, ma in relazione alla concreta situazione dell'impresa ed alla casistica effettivamente verificabile, ed ha ritenuto che il DVR adottato dal ricorrente non rispettasse detto principio di specificità, così violando (quantomeno, osserva il Collegio) l'art. 28, comma 2, lett. a), d.lgs. 81/2008, sanzionato con la pena della sola ammenda nella più contenuta misura prevista dal successivo art. 55, comma 4.
In particolare, prendendo atto che l'imputato era titolare di uno studio odontoiatrico ed aveva alle proprie dipendenze una donna con mansioni di assistenza clienti, la sentenza impugnata attesta, con valutazione di merito in questa sede non censurabile, che con riguardo alle lavoratrici in stato di gravidanza il DVR contiene valutazioni «in termini del tutto generici, senza che vi sia alcun riferimento concreto alla mansione svolta dalla dipendente, senza alcuna specifica individuazione dei fattori di rischio correlati alle mansioni ed all'attività svolta» e anche le misure di prevenzione e protezione sono indicate in modo parimenti generico ed all'evidenza insoddisfacente (si parla di modifiche dei ritmi lavorativi ed eventuale mutamento delle mansioni «se richiesto dal medico competente o se obbligatorio per legge»). Tra i rischi specificamente indicati del documento compaiono - in modo del tutto incongruo rispetto all'attività svolta - «esposizione al rumore, a scuotimenti e vibrazioni, a lavori con macchina mossa a pedale», sicché il giudice di merito ha concluso per la «incompletezza del documento...non contenente la valutazione di tutti i rischi specifici...redatto in maniera "standardizzata" (un tac simile per più usi), tale da non svolgere, in alcuna misura, la funzione di spiegare i rischi specifici del lavoro e gli strumenti disposti per evitare che si possano realizzare». Si tratta di motivazione non manifestamente illogica, che il ricorso neppure specificamente attacca.
Generica, infine, è l'allegazione circa il fatto che sarebbero state seguite le procedure standardizzate previste dal decreto interministeriale 30 novembre 2012, non risultando ciò dalla sentenza impugnata e non avendo il ricorrente contestato il travisamento della prova, né allegato quali sarebbero state le procedure standard approvate dalla Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro nella specie osservate.
A fronte di ciò, ci si può qui limitare ad osservare che lo schema allegato al citato decreto interministeriale mira a semplificare la procedura di valutazione dei rischi nelle aziende che occupano sino a dieci dipendenti, ma non abbandona certo - anzi, la richiama - l'esigenza di specificità calata nella concreta realtà lavorativa cui il documento si riferisce. Basti considerare come lo schema allegato: al Passo n. 1 richieda la descrizione dell'azienda, del ciclo lavorativo e delle attività e mansioni svolte dai lavoratori; al Passo n. 2 preveda l'individuazione dei pericoli presenti in azienda; al Passo n. 3 postuli la valutazione dei rischi associati ai pericoli individuati e la identificazione delle misure di prevenzione e protezione attuate con particolare riguardo alle mansioni ricoperte dalle persone esposte e degli ambienti di lavoro interessati in relazione ai pericoli individuati.
3. Il ricorso, da ritenersi nel complesso infondato, deve pertanto essere rigettato con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.