Elemento essenziale del delitto è la limitazione della libertà psichica mediante la prospettazione del pericolo che un male ingiusto possa essere cagionato dall'agente alla vittima.
Svolgimento del processo
l. Con la sentenza impugnata del 21 aprile 2021, il Tribunale di Oristano ha confermato la decisione del Giudice di pace in sede del 2 marzo 2020, con la quale è stata affermata la responsabilità penale di S. F. per i reati di cui agli artt. 581e 612 cod. pen., commessi il 9 luglio e 1'8 agosto 2013, in danno di M. S. e C. S., oltre statuizioni accessorie.
2. Avverso la sentenza indicata ha proposto ricorso l'imputato, con atto a firma del difensore, Avv. R. M., affidando le proprie censure a cinque motivi, di seguito enunciati nei limiti di cui all'art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen..
2.1. Con il primo motivo, deduce violazione di legge in riferimento agli artt. 64, 210 e 197-bis cod. proc. pen. per essere state utilizzate le dichiarazioni rese dalla persona offesa M. S., costituita parte civile, benché la difensa ne avesse documentato lo status di imputato di reato connesso, consumato in danno del F. e per il quale aveva riportato condanna.
2.2. Con il secondo motivo, deduce violazione dell'art. 612 cod. pen. in relazione ai fatti sub a), per essere l'espressione profferita "aspettate un poco che ve lo faccio vedere io" priva di portata intimidatoria, in considerazione del concreto contesto in cui si svolsero i fatti del luglio 2013 e, in particolare, della sottesa contestazione riguardo l'uso dell'abbeveratoio e della qualità delle parti.
2.3. Con il terzo motivo, articola analoga censura quanto ai fatti dell'agosto 2013, risultando, anche in tal caso, l'espressione "vattene, non ti è ancora bastato" inidonea alla coartazione della libertà di autodeterminazione della persona offesa, tenuto conto della mancata contestazione dell'uso di armi, dello spontaneo allontanamento dell'imputato, della reazione lesiva e minacciosa del S..
2.4. Il quarto motivo contesta violazione della legge penale in relazione al reato di percosse in danno di C. S., in difetto di prova dell'elemento soggettivo del reato ed in presenza di una mera condotta finalizzata a sfilarle dalle mani un bidone.
2.5. Il quinto motivo contesta la condanna al risarcimento del danno, statuita in assenza della dimostrazione del pregiudizio derivante da reato.
3. Con requisitoria scritta ex art. 23 d.l. n. 137 del 30 aprile 2022, il Procuratore generale ha concluso per l'inammissibilità del ricorso.
4. Con memoria scritta del 23 maggio 2022, il difensore ha rassegnato le conclusioni.
Motivi della decisione
Il ricorso è inammissibile.
1. Il primo motivo è proposto fuori dei casi previsti dalla legge, in quanto contiene censure prospettate per la prima volta con il ricorso di legittimità.
1.1. Premesso che non sono deducibili con il ricorso per cassazione questioni che non abbiano costituito oggetto dei motivi di gravame, dovendosi evitare il rischio che in sede di legittimità sia annullato il provvedimento impugnato con riferimento ad un punto della decisione rispetto al quale si configura "a priori" un inevitabile difetto di motivazione per essere stato intenzionalmente sottratto alla cognizione del giudice di appello (ex multis Sez. 2, n. 29707 del 08/03/2017, Galdi, Rv. 270316), va qui rilevato come la questione relativa all'(in)utilizzabilità delle dichiarazioni rese dal S. non risulti proposta con il gravame, come si rileva dall'incontestata sintesi dei motivi d'appello resa nella sentenza impugnata.
1.2. Né la predetta questione si inscrive tra quelle rilevabili ex officio ai sensi dell'art. 609, comma 2, cod. proc. pen..
La questione dell'inutilizzabilità delle dichiarazioni rese senza le necessarie garanzie difensive da chi sin dall'inizio doveva essere sentito in qualità di imputato o indagato non può essere proposta per la prima volta in sede di legittimità se richiede valutazioni di fatto - come nella specie - su cui è necessario il previo vaglio, in contraddittorio, da parte del giudice di merito (Sez. 6, n. 18889 del 28/02/2017, Tornasi, Rv. 269891).
1.3. In ogni caso, va qui condiviso l'orientamento secondo cui, in tema di prova dichiarativa, il mancato avvertimento di cui all'art. 64, comma 3, lett. c), cod. proc. pen. all'imputato di reato probatoriamente collegato costituito parte civile, che renda testimonianza con l'assistenza del difensore nominato per l'esercizio dell'azione civile, non determina l'inutilizzabilità delle relative dichiarazioni, in quanto la scelta del medesimo di deporre contro l'imputato è implicita nell'atto costitutivo e nella presenza in dibattimento per rendere testimonianza (Sez. 1, n. 40705 del 10/01/2018, Capitanio, Rv. 274337).
Sotto il versante dell'attendibilità, infine, il motivo è generico in quanto si risolve nella formulazione di censure sulla base della mera constatazione formale della qualità processuale in cui sono state rese, senza confrontarsi con la valutazione svolta sul punto dal Tribunale (Sez. 5, n. 32640 del 16/04/2018. M., Rv. 273904).
Il primo motivo è, pertanto, proposto fuori dei casi consentiti.
2. Il secondo ed il terzo motivo che, per la complementarietà delle censure, possono essere congiuntamente trattati, sono generici e manifestamente infondati.
2.1. Le doglianze del ricorrente fondano, essenzialmente, sulla contestazione della attitudine intimidatoria delle espressioni profferite - nei due episodi in contestazione - all'indirizzo delle persone offese, valorizzando il contesto fattuale e la reciprocità delle contestazioni, insorte riguardo il prelievo idrico da un abbeveratoio: quanto ai fatti del luglio 2013, assume il ricorrente che l'espressione "aspettate un po' che vi faccio vedere io" sarebbe rimasta assorbita, quale motus linguae di supporto, nella contestuale azione posta in essere in danno di C. S., alla quale l'imputato aveva sottratto il secchio d'acqua appena riempito, restando priva di efficacia intimidatoria autonoma, anche in considerazione delle condizioni fisiche dell'imputato, incapace di darvi seguito; quanto all'episodio occorso nell'agosto dello stesso anno, la frase "vattene, ancora non ti è bastato?" sarebbe depotenziata non solo dalla mancata contestazione dell'uso di armi, invece asseritamente brandite, ma anche dalla complessiva condotta dell'imputato, allontanatosi nell'immediatezza e rimasto vittima, a sua volta, di lesioni e minacce.
Trattasi di deduzioni da un lato versate in fatto e, dall'altro, erronee in diritto.
2.2. Nella qualificazione giuridica del fatto, il Tribunale ha fatto corretta applicazione dei consolidati principi, enunciati da questa Corte (ex multis Sez. 5, n. 45502 del 22/04/2014, Scognamillo, Rv. 261678), per cui, nel reato di minaccia, elemento essenziale è la limitazione della libertà psichica mediante la prospettazione del pericolo che un male ingiusto possa essere cagionato dall'autore alla vittima, senza che sia necessario che uno stato di intimidazione si verifichi concretamente in quest'ultima, essendo sufficiente la sola attitudine della condotta ad intimorire, restando irrilevante, invece, l'indeterminatezza del male minacciato, purché questo sia ingiusto e possa essere dedotto dalla situazione contingente.
In linea con la natura di reato di pericolo e di mera condotta, è, invero, necessaria la verifica, ex ante ed in concreto, dell'attitudine minatoria della condotta, che integra il delitto di cui all'art. 612 cod. pen. quando l'agente prospetti un'attività aggressiva illegittima, ove valutata nel contesto e nel momento in cui è stata proferita, avuto riguardo ai toni e alla cornice di riferimento, non rilevando che il soggetto passivo si sia sentito effettivamente intimidito (Sez. 5, n. 11708 del 15/10/2019, dep. 2020, Bonucchi, Rv. 278925; Sez. 5, n. 9392 del 16/12/2019, dep. 2020, Di Maggio, Rv. 278664; Sez. 5, n. 6756 del 11/10/2019, dep. 2020, Giuliano, Rv. 278740; Sez. 2, n. 21684 del 12/02/2019, Bernasconi, Rv. 275819).
2.3. Nel caso in esame, il Tribunale ha reputato che l'espressione "aspettate un po' che vi faccio vedere io", rivolta dall'imputato alle persone offese, oltre a prospettare - per l'inequivocabile tenore semantico della locuzione, peraltro accompagnata dal correlativo passaggio all'azione in danno di C. S. - un male ingiusto, fosse caratterizzata da attitudine intimidatoria per essere la stessa collocata in un più ampio contesto di invettive, originate dalla controversa accessibilità all'abbeveratoio.
E, a maggior ragione, la successiva minaccia, accompagnata dall'esibizione di un bastone - di cui il ricorrente non contesta l'uso, bensì il mero deficit della contestazione della relativa aggravante - è stata reputata dotata della stessa attitudine, in quanto esplicitamente evocativa di un pregresso episodio nel quale, peraltro, all'invettiva verbale erano seguiti atti di violenza alla persona.
Sul punto, è appena il caso di rilevare come il pericolo debba essere riguardato non già nella prospettiva di una lesione effettivamente rispondente al danno minacciato, bensì a qualsivoglia iniziativa pregiudizievole ingiustamente rivolta alla persona offesa e suscettibile di essere realizzata, anche con modalità meno gravi.
E siffatta argomentazione, rappresentata - come già rilevato - attraverso un percorso giustificativo che non ha mancato di esplorare tutti gli elementi di contorno, confutando l'irrealizzabilità della minaccia, prospettata dall'imputato, non evidenzia margini di irragionevolezza o arbitrarietà, sindacabili nella presente sede di legittimità.
Il ricorrente, per contro, finisce per ricostruire la fattispecie in termini di reato di evento, introducendo una personale rivalutazione della prova che finisce per richiedere un inammissibile sindacato sul merito della regiudicanda.
I motivi sono, pertanto, manifestamente infondati.
3. Il quarto motivo, con il quale si contesta il dolo di percosse, è assertivo e generico.
3.1. La sentenza impugnata ha dato atto non solo del violento strappo del bidone che C. S. impugnava, dopo averlo riempito, ma del successivo impatto del medesimo, provocato dall'imputato, contro il corpo della persona offesa, in tal modo esplicitando non già la mera accettazione dell'evento, ma la volontà diretta a percuotere.
E siffatta ricostruzione, avversata solo in via assertiva dal ricorrente, non evidenzia margine alcuno di irragionevolezza, in presenza di un'azione mirata al violento impatto corporeo mediante un oggetto metallico, che esplicita la coscienza e volontà di percuotere il soggetto passivo (V. Sez. 5, n. 8004 del 13/01/2021, C., Rv. 280672).
3.1. Va, pertanto, qui ribadito che il reato di percosse richiede soltanto il dolo generico, ossia la coscienza e la volontà di tenere una condotta violenta, tale da cagionare una sensazione dolorosa al soggetto passivo, mentre sono irrilevanti gli antecedenti psichici della condotta, ossia il movente del comportamento tipico descritto dalla norma penale (Sez. 1, n. 4326 del 31/01/1979, Gabriele, Rv. 141959).
4. Il quinto motivo è aspecifico.
Ai fini della condanna generica al risarcimento dei danni, non è, invero, necessaria la prova della concreta esistenza di pregiudizi risarcibili, essendo sufficiente l'accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e dell'esistenza di un nesso di causalità tra questo e il pregiudizio lamentato, desumibile anche presuntivamente (Sez. 4, n. 32899 del 08/01/2021, Castaldo, Rv. 281997).
Si tratta di un orientamento del tutto consolidato, che ha avuto modo di affinarsi anche in alcuni specifici aspetti. Così si è affermato come, in tema di esercizio dell'azione civile nel processo penale, la parte civile possa limitarsi ad allegare genericamente di aver subito un danno dal reato, senza incorrere in alcuna nullità, in quanto il giudice ha sempre la possibilità di pronunciare condanna generica, là dove ritenga che le prove acquisite non consentano la liquidazione del danno, con conseguenti effetti sull'onere di allegazione e prova spettante alla parte civile (Sez. 4, n. 6380 del 20/01/2017, Regispani, Rv. 26913201); ed anche che la condanna generica al risarcimento dei danni contenuta nella sentenza penale, pur presupponendo che il giudice abbia riconosciuto il relativo diritto alla costituita parte civile, non comporta alcuna indagine in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, postulando soltanto l'accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e dell'esistenza - desumibile anche presuntivamente, con criterio di semplice probabilità - di un nesso di causalità tra questo ed il pregiudizio lamentato, restando perciò impregiudicato l'accertamento riservato al giudice civile sulla liquidazione e l'entità del danno, ivi compresa la possibilità di escludere l'esistenza stessa di un danno eziologicamente collegato all'evento illecito (Sez. 3, n. 36350 del 23/03/2015, Bertini e altri, Rv. 26563701).
In definitiva, la condanna generica costituisce una mera "declaratoria juris", da cui esula ogni accertamento relativo sia alla misura sia alla stessa esistenza del danno, il quale è rimesso al giudice della liquidazione (Sez. 4, n. 12175 del 03/04/2016, dep. 2017, Bordogna, Rv. 270386; Sez. 6, n. 9266 del 26/04/1994, Mondino ed altro, Rv. 199071).
Il ricorso è, pertanto, inammissibile, con conseguente preclusione al rilievo della prescrizione, maturata successivamente alla sentenza impugnata.
5. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, oltre al pagamento della somma, che stimasi equo determinare in Euro 3000,00, in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.