Inoltre, a seguito della modifica dell'art. 314 c.p.p., il silenzio serbato dall'imputato in sede di interrogatorio non rileva più quale comportamento ostativo all'insorgenza del diritto alla riparazione.
La Corte d'Appello di Roma rigettava l'istanza di equa riparazione presentata dall'attuale ricorrente per la dedotta ingiusta detenzione sofferta agli arresti domiciliari. Nello specifico, il ricorrente veniva tratto in arresto per il reato di furto in abitazione, per aver esortato un minore ad introdursi nel balcone...
Svolgimento del processo
1. Con ordinanza del 20/10/2020, la Corte di appello di Roma ha rigettato l'istanza di equa riparazione presentata da G. D. per la dedotta ingiusta detenzione sofferta agli arresti domiciliari dal 12/4/2017 al 26/5/2017.
Il ricorrente veniva tratto in arresto per il reato di furto in abitazione, per avere determinato un minore ad introdursi nel balcone dell'abitazione di T.P. e ad impossessarsi di un paio di scarpe di proprietà di C.A.. All'esito dell'udienza ex art. 391 cod. proc. pen., l'arresto del G. non era convalidato; il giudice disponeva comunque l'applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari a carico di quest'ultimo.
Con sentenza emessa in data 26/5/2017, irrevocabile il 17/10/2017, il Tribunale di Velletri assolveva l'imputato perché il fatto non costituisce reato.
La Corte di merito, dopo avere richiamato i principi di diritto valevoli in materia, ha ritenuto che il ricorrente avesse dato causa, con il comportamento serbato, all'adozione della misura a suo carico, inducendo l'Autorità in errore circa la sua partecipazione alla commissione del reato.
2. Avverso la suddetta ordinanza ha proposto impugnazione l'interessato, a mezzo di difensore, articolando un motivo unico di ricorso contenente diverse doglianze.
I) Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'art. 314 cod. proc. pen.
La Corte territoriale, nel valutare la richiesta di riparazione, non avrebbe fatto buon governo dei principi che regolano la materia.
Ha ritenuto che il G., avvalendosi della facoltà di non rispondere, abbia concorso a dare causa alla detenzione subita, senza specificare, in diritto, se la sua condotta sia stata connotata da dolo o colpa grave, come richiesto dall'art. 314 cod.proc.pen.
Pertanto sarebbe incorsa nella inosservanza della norma richiamata.
Il richiedente, lamenta la difesa, non ha in alcun modo dato causa all'ingiusta detenzione, avendo, già all'udienza del 14 aprile 2017, chiesto di essere ammesso al rito abbreviato subordinato alla richiesta di acquisizione della testimonianza della persona offesa, istanza che il Tribunale di Velletri respingeva inopinatamente.
Celebrato il giudizio direttissimo, il ricorrente era assolto sulla base delle dichiarazioni della persona offesa, risultate determinanti a questo fine.
Nessun rilievo avrebbe dovuto attribuire la Corte di merito al silenzio serbato dal ricorrente, ciò in quanto egli non poteva riferire circostanze, ignote agli inquirenti, utili ad attribuire un diverso significato agli elementi posti a fondamento del provvedimento cautelare; inoltre, lamenta la difesa, non è stata indicata nel provvedimento impugnato l'entità della colpa.
3. Il Procuratore Generale, con requisitoria scritta, ha chiesto che il ricorso sia dichiarato inammissibile.
La difesa ha depositato tempestiva memoria, segnalando come, a seguito della introduzione della modifica dell'art. 314 cod. proc. pen. apportata dal d.lgs. 8 novembre 2021, n. 188, in vigore dal 14 dicembre 2021, l'esercizio da parte dell'imputato della facoltà difensiva prevista dall'art. 64, comma 3, lett. b), cod. proc. pen., non rilevi quale comportamento ostativo alla insorgenza del diritto alla riparazione. Ha quindi evidenziato l'irrilevanza del silenzio serbato dal richiedente nell'ambito dell'interrogatorio di garanzia, insistendo nel richiedere l'annullamento dell'ordinanza impugnata.
Il Ministero resistente, a mezzo dell'Avvocatura di Stato, ha chiesto che il ricorso sia respinto, ponendo in evidenza come l'assenza di dichiarazioni provenienti dal ricorrente abbia ingenerato il sospetto negli inquirenti della fondatezza dell'ipotesi accusatoria.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.
2. E' d'uopo premettere come, secondo orientamento consolidato espresso da questa Corte in materia, debba ritenersi ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione, ai sensi del dell'art. 314, comma 1, cod. proc. pen., quella condotta che, pur tesa ad altri risultati, ponga in essere, per evidente, macroscopica negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari, una situazione tale da costituire una non voluta, ma prevedibile, ragione di intervento dell'Autorità giudiziaria che si sostanzi nell'adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale o nella mancata revoca di un provvedimento già emesso (in puntuali termini, Sez. U., n. 43/96 del 13/12/1995, Sarnataro e altri, Rv. 203637; Sez.4, n.43302 del 23/10/2008, Rv.242034 ).
A tal riguardo, la colpa grave può concretizzarsi in comportamenti processuali o di tipo extraprocessuale, come la grave leggerezza o la rilevante trascuratezza, tenuti sia anteriormente che successivamente al momento restrittivo della libertà personale, suscettibili di esplicare un'efficacia sinergica rispetto all'evento detenzione. Ne deriva che, ai fini dell'applicazione della suddetta disciplina, deve essere analizzato e valutato il comportamento serbato dal richiedente.
Dunque il giudizio da compiersi in materia di riparazione per ingiusta detenzione, come ribadito costantemente da questa Corte, richiede che la deliberazione sia fondata sull'analisi di fatti concreti e precisi perché si stabilisca, con valutazione da effettuarsi "ex ante", non se la condotta serbata dal richiedente integri gli estremi di reato - valutazione che compete al giudice della cognizione - ma solo se questa sia stata il presupposto che abbia ingenerato, ancorché in presenza di errore dell'Autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di causa ad effetto (così Sez. U., n. 32383 del 27/5/2010, D'Ambrosia).
Non è superfluo aggiungere l'ulteriore principio costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui il giudice della riparazione, nella valutazione da compiersi nell'ambito di tale giudizio, incontra il solo limite di non poter ritenere dimostrate circostanze escluse in sede di cognizione (così, ex multis, Sez. 4, n. 12228 del 10/01/2017, Rv. 270039). Pertanto, con riferimento a tale profilo, è necessario che il giudice si confronti con il contenuto della pronuncia assolutoria al fine di verificare quali circostanze possano essere utilizzate nell'ambito del giudizio riparatorio.
Deve anche aggiungersi come, a seguito della modifica dell'art. 314 cod. proc. pen. ad opera dell'art. 4, comma 4, lett. b), d.lgs. 8 novembre 2021, n. 188, l'esercizio della facoltà difensiva prevista dall'art. 64, comma 3, lett. b), cod. proc. pen. da parte dell'imputato non rilevi quale comportamento ostativo alla insorgenza del diritto alla riparazione.
3. Tutto ciò premesso, occorre rilevare come l'ordinanza impugnata sia sostenuta da adeguata motivazione.
La Corte di merito ha evidenziato, con particolare riferimento ai comportamenti serbati dal richiedente, come il G. fosse stato sorpreso dalla polizia in prossimità del luogo del furto. La persona offesa Tozzi Paolo, sentito nell'immediatezza del fatto, riferì agli agenti di avere nitidamente ascoltato il ricorrente esortare il minore ad impossessarsi delle scarpe lasciate sul balcone. Tale ultima circostanza è stata confermata in dibattimento dal T. e non è stata esclusa nella pronuncia assolutoria (cfr. pag. 3 dell'ordinanza impugnata).
La condotta evidenziata, afferma correttamente la Corte di appello, con argomentare logico e coerente, ha rappresentato una concausa dell'adozione del provvedimento restrittivo a carico del richiedente, essendo idonea ad ingenerare nell'Autorità l'erroneo convincimento della partecipazione del G. all'azione furtiva.
Tanto è sufficiente per ritenere integrata la sussistenza di una condizione
ostativa al riconoscimento dell'indennizzo, anche prescindendo dal silenzio serbato dal ricorrente nel corso dell'interrogatorio di garanzia. Tale ultima circostanza, sebbene utilizzata dalla Corte di merito in motivazione per suffragare il diniego del riconoscimento dell'indennizzo, non costituisce l'unico elemento su cui è incentrata la decisione e non assume rilievo di centralità nella economia della motivazione offerta. Ed invero, nel caso che occupa, sono stati valorizzati anche ulteriori elementi autonomamente deponenti per una condotta gravemente colposa del G., idonei a superare la prova di resistenza a cui deve essere sottoposto il provvedimento per saggiarne la tenuta alla luce della modifica normativa medio tempore intervenuta.
4. Deve rammentarsi in proposito come, a seguito della modifica dell'art. 314 cod. proc. pen. ad opera dell'art. 4, comma 4, lett. b), d.lgs. 8 novembre 2021, n. 188, il silenzio serbato dall'indagato o imputato in interrogatorio, nell'esercizio della facoltà difensiva prevista dall'art. 64, comma 3, lett. b), cod. proc. pen., non rilevi più quale comportamento ostativo alla insorgenza del diritto alla riparazione (cfr. in argomento Sez. 4, n. 8615 del 08/02/2022, Z., Rv. 283017; Sez. 4, n. 19621 del 12/04/2022, L., Rv. 283241).
La modifica normativa rende superato il precedente orientamento di questa Corte, che qualificava, sia pure a determinate condizioni, gravemente colposa la condotta di chi, in sede di interrogatorio, si fosse avvalso della facoltà di non rispondere.
La c.d. "prova di resistenza" è un principio a cui può farsi ricorso nella generalità dei casi, anche in sede di legittimità, per saggiare la validità del ragionamento seguito nella motivazione del provvedimento impugnato. Si tratta di operazione logica, che consiste nella figurata esclusione dell'argomentazione viziata o non pertinente dal ragionamento che sostiene il provvedimento, tendente a verificare se la scelta di una determinata soluzione sarebbe stata la stessa anche senza l'utilizzazione dell'elemento escluso, per la presenza di altre prove o argomentazioni ritenute sufficienti a giustificare il medesimo convincimento (Sez. 5 n. 569 del 18/11/2003, Rv. 226972; Sez. 6 n. 10094 del 22/2/2005, Rv. 231832).
In applicazione di tale principio, dalla lettura dell'ordinanza impugnata emerge come risultino a carico del richiedente ulteriori elementi idonei a rivelare la colpa grave ostativa al riconoscimento dell'indennizzo (presenza sul luogo del fatto, esortazione rivolta al minore di impossessarsi delle scarpe esposte sul balcone della persona offesa).
Nel presente caso, dunque, l'elemento del silenzio serbato in interrogatorio non ha rivestito carattere decisivo nell'economia della motivazione, avendo il giudice della riparazione giustificato il diniego sulla base di ulteriori comportamenti idonei a rivelare l'apporto sinergico rispetto all'evento detentivo. Ciò posto, può ricavarsi da quanto precede il seguente principio: in materia di riparazione per ingiusta detenzione, a seguito della modifica apportata all'art. 314 cod. proc. pen. per effetto dell'art. 4, comma 4, lett. b), d.lgs. 8 novembre 2021, n. 188, ove il diniego del riconoscimento dell'indennizzo non sia incentrato esclusivamente sull'essersi il richiedente avvalso della facoltà di non rispondere in sede di interrogatorio, la motivazione del provvedimento impugnato dovrà essere sottoposta alla c.d. "prova di resistenza", onde verificare la sufficienza e l'adeguatezza degli ulteriori elementi considerati in motivazione a sostenere la decisione assunta.
5. Quanto all'entità della colpa, risulta implicita la considerazione, nella trama del discorso giustificativo, della connotazione di gravità di essa: la presenza sul posto e l'esortazione rivolta al minore, nitidamente ascoltata dal testimone, sono stati ritenuti elementi suscettibili d'influire fortemente sulla decisione assunta dall'Autorità in ordine allo status libertatis del ricorrente, rivelando grave imprudenza.
6. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. Ricorrono giusti motivi per compensare le spese di costituzione del Ministero dell'Economia e delle Finanze: le conclusioni rassegnate dall'Avvocatura, che non tengono conto dell'intervenuta modifica legislativa dell'art. 314 cod. proc. pen., risultano eccentriche rispetto al mutato assetto normativo che disciplina l'istituto. Si dispone l'oscuramento dati.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Spese compensate tra le parti.