Risposta negativa. La Cassazione intende aderire all'indirizzo che ritiene inutilizzabili le dichiarazioni in questione al fine di tutelare i diritti difensivi riconducibili al principio fondamentale nemo tenetur se detergere in funzione della corretta applicazione dell'art. 350, c. 7, c.p.p..
La Corte d'Appello di Salerno confermava la sentenza di primo grado con la quale il GIP del Tribunale, in esito a rito abbreviato, aveva condannato l'attuale ricorrente per i reati di tentato omicidio aggravato, tentata violenza sessuale aggravata e maltrattamenti in famiglia.
In particolare, la Corte territoriale respingeva l'eccezione difensiva di...
Svolgimento del processo
1. Con sentenza resa in data 18 dicembre 2020, la Corte di appello di Salerno confermava la decisione del 7 aprile 2020, con la quale, il G.i.p. del Tribunale della stessa sede, in esito a rito abbreviato, aveva condannato C.L.F. per i reati di tentato omicidio aggravato, maltrattamenti in famiglia e tentata violenza sessuale aggravata, commessi in danno della moglie C.M. il 22 ottobre 2019 in (omissis).
Il giudice di primo grado aveva fondato l'affermazione di responsabilità sulle dichiarazioni rese dall'imputato nell'immediatezza dei fatti, sulla deposizione della persona offesa nonché sugli accertamenti svolti dai Carabinieri.
1.1. La Corte di appello, nell'affrontare i motivi di gravame, respingeva, in primo luogo, l'eccezione difensiva di inutilizzabilità delle dichiarazioni confessorie rese dall'imputato mentre veniva condotto in caserma a bordo dell'auto degli operanti, contenute in un'annotazione di polizia giudiziaria e non sottoscritte dal dichiarante, osservando, in sintonia con il primo giudice, che l'inutilizzabilità delle dichiarazioni spontanee, a norma dell'art. 350, comma 7, cod. proc. pen., doveva intendersi limitata alla fase dibattimentale e non estesa al rito abbreviato.
1.2. Disattendeva, poi, la Corte suddetta la richiesta di derubricazione del delitto di tentato omicidio in quello di lesioni.
Richiamando il contenuto del referto ospedaliero di pronto soccorso, i giudici del gravame rimarcavano che la persona offesa aveva subito, quale conseguenza dell'aggressione del marito che le aveva stretto un cavo elettrico intorno al collo, un arresto cardio-circolatorio e che solo grazie al massaggio cardiaco ricevuto da uno dei militari intervenuti sulla scena del crimine aveva ripreso a respirare, giungendo, peraltro, in ospedale in uno stato di insufficienza respiratoria; del resto, le violenze subite dalla M. risultavano dimostrate dagli ematomi riscontrati, dalle tracce ematiche rilevate nel cavo orale e dal sangue che perse dalla bocca, tutte conseguenze derivate dal tentativo di strangolamento.
La Corte di Salerno reputava infondata anche la doglianza dedotta sui tempi relativi alla ipossia e alla perdita di coscienza, atteso che non si sapeva quanto tempo prima dell'intervento dei Carabinieri si fosse arrestata la condotta dell'imputato, né si conosceva l'esatta durata dell'azione illecita, in un primo tempo sostanziatasi in un tentativo di violenza sessuale e, poi, tradottasi nel tentativo di strangolamento e soffocamento.
Certo è che, al momento dell'intervento dei militari, il corpo della donna giaceva sul letto apparentemente privo di vita e che la vittima era stata salvata solo grazie alla tempestiva iniziativa dell'operante prima descritta, sicché la condotta dell'imputato doveva considerarsi pienamente idonea, sul piano oggettivo, a provocare la morte della persona offesa.
L'animus necandi era reso palese dalle dichiarazioni rese dal L.F. alla presenza dei Carabinieri, ai quali l'uomo espresse il suo rammarico per non essere riuscito ad attuare il suo proposito delittuoso, ribadendo la sua intenzione di uccidere la moglie e spiegando di non aver utilizzato un machete, che gli avrebbe certamente consentito di conseguire il suo scopo, solo perché "si sarebbe sparso troppo sangue".
Diversamente da quanto sostenuto dalla difesa, nessun accertamento in ordine allo stato di incapacità dell'imputato doveva essere espletato, in assenza di produzione di alcuna certificazione medica attestante patologie o vizi di mente.
Infine, nessuna rilevanza sui fatti come ricostruiti poteva essere attribuita alle parole di amore e di riconciliazione proferite dalla persona offesa nei confronti del marito e trasfuse in una memoria difensiva acquisita.
1.3. Infondata doveva ritenersi la richiesta difensiva di assoluzione del L.F. dai reati di maltrattamenti in famiglia e di tentata violenza sessuale aggravata.
Le dichiarazioni rese dalla persona offesa costituivano prova sufficiente a giustificare l'affermazione di responsabilità dell'imputato: il racconto della M., logico e privo di contraddizioni, era, del resto, corroborato dal quadro degli elementi acquisiti dagli investigatori al momento dell'intervento e definitivamente confermato dalle stesse parole pronunciate dall'accusato, il quale, all'arrivo dei Carabinieri, venne trovato fermo e impassibile, sull'uscio dell'abitazione, mentre la donna, alla quale pensava di aver tolto la vita, giaceva supina sul letto.
1.3.1. Quanto, in particolare, al reato di maltrattamenti, il narrato della M. aveva trovato conferma nelle affermazioni rese dal figlio della coppia G.L.F., il quale riferì di aver assistito, durante il periodo di convivenza con i genitori (in seguito andò a vivere in Germania), a numerosi litigi tra loro, aggiungendo di essere spesso intervenuto in difesa della madre.
Anche M.C.M., sorella della vittima, per quanto non avesse mai assistito a litigi, raccontò di essere andata a trovare, una ventina di giorni prima dei fatti, la sorella, la quale le confidò che il marito le aveva scagliato contro un vaso senza colpirla.
1.3.2. Quanto al delitto di tentata violenza sessuale, diversamente da quanto dedotto dalla difesa, le fotografie in atti ritraevano la persona offesa distesa sul letto con la gonna alzata oltre il ginocchio che le lasciava le gambe scoperte, in coerenza con il narrato della donna, la quale aveva riferito i fatti con logicità, senza manifestare alcun intento calunniatorio nei confronti del marito.
1.4. La Corte di appello giudicava, poi, infondata la richiesta difensiva di assorbimento del reato di tentata violenza sessuale in quello di tentato omicidio, posto che, essendovi stata soluzione di continuità tra i due momenti, doveva applicarsi, nel caso di specie, l'art. 81 e non l'art. 84 cod. pen.
1.5. Venendo al trattamento sanzionatorio, la Corte territoriale confermava il diniego di riconoscimento delle attenuanti generiche già opposto dal primo giudice, in assenza di elementi positivi da apprezzare a fronte della gravità dei fatti e dell'assenza di segni di resipiscenza palesati dall'imputato.
La pena-base, d'altra parte, superava di poco il minimo edittale e gli aumenti apportati per la continuazione con i reati-satellite dovevano stimarsi congrui e proporzionati ai fatti di causa.
2. Ha proposto ricorso per cassazione l'interessato, a mezzo del difensore, sviluppando i seguenti motivi.
2.1. Violazione dell'art. 350, comma 7, cod. proc. pen. e vizio di motivazione in relazione al primo motivo di appello.
Assume il difensore che le dichiarazioni non sottoscritte, sintetizzate nel verbale redatto dalla polizia giudiziaria, erano state rese dal L.F. quando erano già emersi indizi di reità a suo carico, quindi in violazione del disposto di cui all'art. 63 cod. proc. pen., motivo per cui erano affette da inutilizzabilità patologica.
2.2. Vizio di motivazione sulla individuazione della responsabilità penale, sulla valutazione del fatto e delle prove.
La Corte di merito aveva fondato il suo convincimento in ordine alla sussistenza del reato di tentato omicidio, più che sui "riscontri oggettivi", sulla valutazione delle dichiarazioni rese dall'imputato, tuttavia non utilizzabili.
Gli elementi oggettivi, invece, deponevano per la sussistenza del reato di lesioni.
Al momento dell'intervento dei Carabinieri, il L.F. aveva già desistito dall'azione delittuosa.
Era viziata da contraddittorietà la motivazione, laddove, da un lato, aveva posto in rilievo l'incertezza sulla desistenza volontaria dell'imputato e sulla durata dell'azione e, dall'altro, aveva affermato la certezza dell'idoneità dell'azione aggressiva a cagionare la morte della persona offesa.
Non potendosi stabilire una priorità temporale di una condotta delittuosa rispetto all'altra, doveva cadere de plano anche l'aggravante di cui all'art. 576, n. 5), cod. pen.
In realtà, la possibile diversa ricostruzione dei fatti induceva ad escludere l'idoneità degli atti ad integrare il delitto di omicidio.
La Corte di merito, inoltre, non aveva valutato il comportamento di desistenza dell'imputato e aveva ancorato l'elemento soggettivo del reato alle dichiarazioni confessorie rese dal L.F., ancorché inutilizzabili, senza ritenere di disporre una perizia psichiatrica sull'imputato alla luce di quanto dal medesimo dichiarato in sede di interrogatorio a proposito dell'assunzione di psicofarmaci.
Immotivatamente la Corte territoriale aveva ritenuto irrilevante sul piano probatorio lo scritto, acquisito al processo, con il quale la M. "in qualche modo" si scusava con il marito per l'accusa di violenza sessuale mossa nei suoi confronti, spiegando di averlo fatto "perché impaurita" e aggiungendo di essersi resa conto di quanto i suoi comportamenti lo avessero esasperato.
Anche la prova del reato di violenza sessuale si fondava, peraltro, sempre sulle dichiarazioni rese dalla persona offesa - eh: veniva, però, inspiegabilmente creduta solo quando accusava - non potendo, di certo, costituire un appagante riscontro del narrato della donna la foto che la ritraeva con la gonna appena alzata sopra il ginocchio.
Analogamente doveva dirsi per il reato di maltrattamenti, per la dimostrazione del quale la motivazione appariva del tutto inadeguata.
2.3. Violazione di legge e vizio di motivazione sulla individuazione della pena
applicabile. Inadeguato si appalesava il diniego delle attenuanti generiche, fondato essenzialmente sulle dichiarazioni rese dall'imputato che non potevano essere utilizzate.
Nel confermare l'entità della pena inflitta in primo grado, la Corte di appello aveva, con eccesso di discrezionalità, violato il canone di proporzionalità rispetto alla effettiva gravità dei fatti.
Motivi della decisione
1. La sentenza impugnata va annullata senza rinvio limitatamente al mancato assorbimento del delitto di tentata violenza sessuale aggravata sub capo C) in quello di tentato omicidio aggravato, dal che consegue l'eliminazione della pena irrogata per il delitto assorbito a titolo di aumento ex art. 81, cpv., cod. pen. e la rideterminazione del trattamento sanzionatorio nella misura più avanti indicata.
Nel resto, il ricorso va rigettato perché, nel complesso, infondato.
2. Va subito affrontata la questione di natura processuale, dedotta con il primo motivo di ricorso, concernente l'utilizzabilità, nel giudizio abbreviato, delle dichiarazioni spontanee rese dall'indagato, non sottoscritte, contenute in un'annotazione di polizia giudiziaria.
2.1. Giova premettere che, nel giudizio abbreviato, soprattutto se non subordinato a integrazioni probatorie, la peculiarità del rito speciale implica la necessaria utilizzazione di tutte le prove in relazione alla consistenza e completezza delle quali il giudice abbia ritenuto di poter decidere allo stato degli atti, essendo onere dell'interessato eccepire in limine (cioè prima dell'instaurazione del procedimento) la loro eventuale illegittima acquisizione, onde impedirne l'apprezzamento da parte del giudice ai fini della valutazione di anticipata definibilità della res iudicanda. Se l'imputato opta per l'adozione del rito speciale, senza sollevare contestazioni o senza che il giudice ritenga di formulare rilievi d'ufficio, egli non può, poi, dolersi della utilizzazione di atti facenti parte del fascicolo del Pubblico ministero. Una volta introdotto il rito e, quindi, delimitata con certezza e con il concorso della volontà delle parti la piattaforma probatoria ai fini della decisione, non è più consentita la formulazione di eccezioni sulla validità degli atti o sull'utilizzabilità dei dati probatori contenuti nel fascicolo del Pubblico ministero, salvo che i dati medesimi siano stati acquisiti in violazione di specifici divieti normativi, così da essere affetti da radicale nullità e inutilizzabilità (c.d. "patologica"), rilevabili anche d'ufficio in ogni stato e grado del processo (Sez. U, n. 16 d el 21/06/2000, Tammaro, Rv. 216246).
2.2. Come chiarito dalla costante giurisprudenza di legittimità, le dichiarazioni spontanee rese dall'indagato alla polizia giudiziaria o, comunque, da questa recepite (con riguardo a un colloquio tra l'indagato e un terzo: Sez. 1, n. 15760, del 20/1/2017, Capezzera, Rv. 269573), sono pienamente utilizzabili nella fase delle indagini preliminari e, per ciò stesso, nel giudizio abbreviato, perché l'art. 350, comma 7, cod. proc. pen. ne limita l'inutilizzabilità esclusivamente al dibattimento (Sez. U, n. 1150 del 25/9/2008 dep. 2009, Correnti, Rv. 241884; Sez. 5, n. 32015 del 15/3/2018, Carlucci, Rv. 273642); deve, peraltro, emergere con chiarezza che l'indagato abbia scelto di rendere dette dichiarazioni liberamente, ossia senza alcuna coercizione o sollecitazione (tra le più recenti, Sez. 4, n. 2124 del 27/10/2020, dep. 2021, Minauro, Rv. 280242; Sez. 1, n. 15197 dell'8/11/2019, dep. 2020, Fornaro, Rv. 280242).
Va sottolineato, al riguardo, che, diversamente da quanto sostenuto in ricorso, alle dichiarazioni spontanee rese ex art. 350, comma 7, cod. proc. pen. dal soggetto indagato non si applicano le disposizioni dell'art. 63, comma 1, e dell'art. 64, cod. proc. pen., giacché la prima concerne l'esame di persona non imputata o non sottoposta a indagini, mentre la seconda attiene all'interrogatorio, atto diverso dalle spontanee dichiarazioni (Sez. 3, n. 29641 del 14/3/2018, Ermo, Rv. 273209; Sez. 6, n. 34151 del 27/6/2008, Vanese, Rv. 241466; Sez. 5, n. 12445 del 23/2/2005, Di Stadio, Rv. 231689).
2.3. Va rammentato che la polizia giudiziaria, a norma dell'art. 357, comma 2, cod. proc. pen., deve redigere verbale, tra l'altro, degli atti non ripetibili compiuti e delle dichiarazioni spontanee ricevute dalla persona nei cui confronti vengono svolte indagini.
Pur non essendo richiesto che la polizia giudiziaria rediga un autonomo verbale per ciascuna delle attività svolte, specialmente se in contestualità spazio-temporale, resta fermo che le dichiarazioni spontaneamente rese dall'indagato, proprio perché allo stesso riferibili come espressione della sua volontà di rendere una dichiarazione, devono trovare confezione formale in un verbale che sia dal medesimo sottoscritto (v. art. 357, comma 2, lettera b), cod. proc. pen.).
Si è precisato, a tale riguardo, che nell'ipotesi in cui le dichiarazioni vengano rese alla polizia giudiziaria mentre procede a perquisizione o sequestro, le stesse ben possono essere inserite nel relativo verbale (Sez. 6, n. 8675 del 26/10/2011 dep. 2012, Labonia, Rv. 252279), ma proprio perché quest'ultimo atto viene sottoscritto dall'indagato.
2.4. Affine a quello trattato, ma diverso, è il tema - che specificamente qui interessa - della utilizzabilità, nel giudizio abbreviato, di dichiarazioni spontanee rese dall'indagato, contenute in un'annotazione di polizia giudiziaria e non sottoscritte dal dichiarante.
Sull'argomento, si sono sviluppati due contrastanti orientamenti ermeneutici.
2.4.1. Il primo, favorevole alla utilizzabilità delle dichiarazioni oggetto di disamina, trova espressione, fra quelle massimate, nelle sentenze Sez. 3, n. 15798 del 30/4/2020,
Musolino, Rv. 279422, Sez. 1, n. 33821 del 20/6/2014, Maniglia, Rv. 263218 e Sez. 1,i,//··>, 15437 del 16/3/2010, Osmanovic, Rv. 246837.
Nella più articolata di esse, la sentenza "Musolino" del 30/4/2020, si osserva, sul punto: "[ ...] Costituisce opinione del Collegio che, ai fini de/l'applicazione di misure cautelari, le spontanee dichiarazioni rese da un coindagato in fase di indagine alla polizia giudiziaria, in assenza di garanzie difensive, e non verbalizzate, ma riportate nelle informative ovvero nelle annotazioni e relazioni di servizio, sono valide ed utilizzabili sempre che sia possibile accertare
la libertà del dichiarante nel decidere se rendere le stesse.
Invero, le regole che prevedono e disciplinano la redazione del verbale in caso di informazioni assunte da persone informate sui fatti e di spontanee dichiarazioni rese dalla persona nei cui confronti sono svolte le indagini sono identiche. Ciò, precisamente, è reso evidente dall'art. 357, comma 2, lett. b), cod. proc. pen., che accomuna, sotto tale specifico profilo, «sommarie informazioni rese e dichiarazioni spontanee ricevute dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini», nonché dall'assenza di ulteriori e differenziate disposizioni per le due ipotesi.
Né tale conclusione può essere posta in discussione perché le spontanee dichiarazioni sono rese in assenza delle garanzie difensive da assicurare alfa persona nei cui confronti sono svolte le indagini. In proposito, è sufficiente rilevare come costituisca principio assolutamente consolidato quello secondo cui alle dichiarazioni spontanee rese ex art. 350, comma 7, cod. proc. pen. dal soggetto indagato non si applicano le disposizioni dell'art. 63, comma 1, cod. proc. pen. e dell'art. 64, stesso codice, giacché la prima concerne l'esame di persona non imputata o non sottoposta ad indagini, mentre la seconda attiene all'interrogatorio, atto diverso dalle spontanee dichiarazioni[ ... ]".
2.4.2. Il secondo orientamento, contrario alla utilizzabilità delle dichiarazioni in questione, trova espressione, fra quelle oggetto di massimazione, nelle sentenze Sez. 6, n. 14843 del 17/2/2021, Ferrante, Rv. 280880, Sez. 1, n. 12752 del 27/02/2019, P.G. in proc. Marchese, Rv. 276176 e Sez. 6, n. 8675 del 26/10/2011, dep. 2012, Labonia, Rv. 252279.
In tali decisioni viene affermato il principio della non utilizzabilità delle dichiarazioni spontanee rese dall'indagato, non sottoscritte, contenute in un'annotazione di polizia giudiziaria, essenzialmente perché solo la sottoscrizione apposta dall'indagato in calce al verbale confezionato dall'organo di polizia giudiziaria consente di ritenere ad esso riferibile il narrato, contenuto nell'atto, da intendersi come coerente espressione della sua volontà di rendere una dichiarazione.
2.5. Ritiene il Collegio di dare continuità a quest'ultimo orientamento.
2.5.1. Non può condividersi la sostanziale "parificazione", sostenuta dall'orientamento contrastante, quanto all'utilizzabilità nella fase procedimentale e nei riti a prova contratta, delle sommarie informazioni testimoniali e delle dichiarazioni spontanee rese dall'indagato senza assistenza difensiva, nei casi in cui entrambe le tipologie di dichiarazioni siano contenute in un atto di polizia giudiziaria non sottoscritto dal dichiarante.
Non è sufficiente valorizzare, a dimostrazione dell'assunto, che, quanto alle modalità di verbalizzazione, l'art. 357, comma 2, lett. b), cod. proc. pen., accomuna «sommarie, informazioni rese e dichiarazioni spontanee ricevute dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini», né può ritenersi condivisibile l'affermazione secondo la quale non vi sarebbero "ulteriori e differenziate disposizioni per le due ipotesi".
Ed invero, della netta distinzione tra le due situazioni ha dato atto, nella sua giurisprudenza più recente, questa stessa Corte, che ha affermato, in più occasioni, la utilizzabilità, nella fase procedimentale e nei riti a prova contratta, delle sommarie informazioni rese dalla persona offesa o da terzi, ancorché annotate ai sensi dell'art. 357, comma 1, cod. proc. pen. (tra le più recenti, Sez. 1, n. 38602 del 23/6/2021, Aulisio, Rv. 282123; Sez. 1, n. 35260 del 6/11/2020, Forestieri, Rv. 280224; Sez. 6, n. 51503 dell'll/10/2018, F., Rv. 274155; v. anche Sez. 1, n. 15563 del 22/1/2009, Perrotta e altri, Rv. 243734).
Si è condivisibilmente osservato, nei richiamati arresti, che, nel caso di sommarie informazioni non verbalizzate, ma solo riportate nella informativa di reato o in un'annotazione, e cioè, documentate in forme diverse da quelle previste dall'art. 351 cod. proc. pen., la loro utilizzazione nelle indagini e nel giudizio abbreviato non può essere preclusa, stante anche la atipicità degli atti di indagine della polizia giudiziaria, in assenza di qualsiasi previsione di nullità o di inutilizzabilità generale di cui all'art. 191 cod. proc. pen. ovvero di inutilizzabilità specifica, previsione esistente, viceversa, nel caso di cui all'art. 350, commi 6 e 7, cod. proc. pen., che riguardano la violazione di diritti difensivi imprescindibili.
Si è precisato, al riguardo, che tale conclusione è confermata dalla scelta del legislatore, il quale, nel prevedere, all'art. 195 cod. proc. pen., il divieto di testimonianza della polizia giudiziaria sulle dichiarazioni rese "da testimoni con le modalità di cui agli articoli 351 e 357, comma 2, lettere a) e b)", l'ha, invece, consentita "negli altri casi", da identificarsi con le ipotesi in cui le dichiarazioni siano state rese da terzi e percepite al di fuori di uno specifico contesto procedimentale di acquisizione, in una situazione operativa eccezionale o di straordinaria urgenza e, quindi, al di fuori di un dialogo tra teste e ufficiale o agente di polizia giudiziaria, ciascuno nella propria qualità (Sez. U, n. 36747 del 28/5/2003, Torcasio ed altro, Rv. 225469; v. anche, fra le decisioni successive delle sezioni semplici, Sez. 1, n. 25295 del 27/2/2014, P.G. in proc. Accetta ed altro, Rv. 259780).
Si è, pertanto, conclusivamente, affermato che, in assenza di un divieto di documentazione mediante annotazione delle informazioni testimoniali acquisite dalla polizia giudiziaria, sono utilizzabili, per l'adozione di misure cautelari e nel giudizio abbreviato, le dichiarazioni rese da persone informate sui fatti riportate dalla polizia giudiziaria in annotazioni o relazioni di servizio, redatte e sottoscritte dall'ufficiale di polizia giudiziaria operante, ancorché non oggetto di verbalizzazione (Sez. 1, n. 38602/2021, cit.).
2.5.2. Le esposte considerazioni inducono il Collegio a risolvere la questione processuale prospettata nel primo motivo di ricorso non nel senso ritenuto dal ricorrente, che ha erroneamente dedotto la violazione dell'art. 63 cod. proc. pen., non ravvisabile per quanto
già detto (par. 2.2.), ma aderendo all'orientamento, oggi maggioritario, secondo il quale, per , tutelare diritti difensivi imprescindibili e riconducibili al principio fondamentale nemo tenetur se detegere in funzione della corretta applicazione dell'art. 350, comma 7, cod. proc. pen., devono ritenersi inutilizzabili, nella fase procedimentale e nel giudizio abbreviato (che qui rileva), le spontanee dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria dalla persona sottoposta a indagini ove non inserite, come accaduto nel caso di specie, in un atto sottoscritto dal dichiarante.
2.6. Ci si deve, a questo punto, chiedere se la mancata declaratoria di inutilizzabilità (patologica), nei gradi di merito, delle dichiarazioni spontanee di natura confessoria rese dal L.F.a bordo dell'autovettura dei Carabinieri nel tragitto compiuto verso la Casa circondariale salernitana, possa assumere una decisiva rilevanza sulla conclusiva affermazione di responsabilità per il reato di tentato omicidio.
La risposta è desumibile dall'insegnamento di questa Corte, secondo il quale, nell'ipotesi in cui con il ricorso per cassazione si lamenti l'inutilizzabilità di un elemento a carico, il motivo di impugnazione deve illustrare, a pena di inammissibilità per aspecificità, l'incidenza dell'eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta "prova di resistenza", in quanto gli elementi di prova acquisiti illegittimamente diventano irrilevanti ed ininfluenti se, nonostante la loro espunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l'identico convincimento (Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 2017, La Gumina e altro, Rv. 269218; Sez. 6, n. 18764 del 5/2/2014, Barilari, Rv. 259452); d'altro canto, il giudice dell'impugnazione non è tenuto a dichiarare preventivamente l'inutilizzabilità della prova contestata qualora ritenga di poterne prescindere per la decisione, ricorrendo al cosiddetto "criterio di resistenza", applicabile anche nel giudizio di legittimità (Sez. 2, n. 30271 dell'll/5/2017, De Matteis, Rv. 270303).
Nel caso in esame, il primo motivo di ricorso si esaurisce nello stigmatizzare la dedotta violazione di legge processuale, senza occuparsi di illustrare l'influenza dell'eventuale eliminazioni delle dichiarazioni spontanee rese dall'imputato ai fini della cosiddetta "prova di resistenza", salvo, poi, nel secondo motivo, sostenere, ma in modo generico, che la prova dell'animus necandi sarebbe stata fondata dalla Corte di appello di Salerno esclusivamente sulle dichiarazioni inutilizzabili dell'imputato.
Diversamente da quanto dedotto in ricorso, emerge, in realtà, dalla motivazione "integrata" delle due sentenze di merito (valorizzabile in caso di c.d. "doppia conforme") che, a proposito della sussistenza degli elementi costitutivi del delitto di tentato omicidio (idoneità e univocità degli atti, dolo), le dichiarazioni spontanee confessorie rese dal L.F. sono state richiamate dai giudici territoriali solo ad abundantiam, rispetto a un compendio probatorio ritenuto, con logico argomentare, già di per sé concludente, siccome imperniato sulle dichiarazioni della persona offesa, sul contenuto del referto ospedaliero di pronto soccorso e sulla descrizione della scena del crimine, con particolare riferimento alle drammatiche condizioni in cui fu trovata la vittima, ricavabile dagli atti di polizia giudiziaria: compendio probatorio che, pertanto, andava a integrare una implicita "prova di resistenza" capace di
superare, rendendola irrilevante, la valutazione della dedotta questione di inutilizzabilità patologica.
2.7. Manifestamente infondate, nonché meramente reiterative di motivi di gravame adeguatamente confutati, sono, di conseguenza, le censure, formulare nel secondo motivo di ricorso, che stigmatizzano la mancata derubricazione del fatto sub A) nel reato di lesioni personali, ipotizzando, fra l'altro, la ravvisabilità della desistenza di cui all'art. 56, comma terzo, cod. pen.
Sul punto, per economia espositiva, si richiama la sintesi della motivazione resa in sede di merito riportata al par. 1.2. del 'ritenuto in fatto'.
Ci si limita a ricordare che, nei reati a forma libera, come l'omicidio, la desistenza non è configurabile una volta che siano posti in essere gli atti da cui origina il meccanismo causale capace di produrre l'evento (tra le più recenti, Sez. 5, n. 17241 del 20/1/2020, P., Rv. 279170), sicché del tutto correttamente la Corte di merito ha escluso la ricorrenza dell'esimente, nel caso di specie, tenuto conto del fatto che la vittima venne trovata in stato di arresto cardio-circolatorio, con un cavo elettrico intorno al collo (su cui erano presenti ematomi) e con tracce ematiche rilevate nel cavo orale, e venne rianimata solo grazie al provvidenziale intervento di un Carabiniere, a seguito del quale, dopo aver ripreso a respirare, la predetta iniziò a vomitare sangue: tutti segni rivelatori di un tentativo di strangolamento compiuto.
2.8. Generiche e rivalutative devono considerarsi le censure mosse alla sentenza con riferimento ai reati di tentata violenza sessuale e maltrattamenti, attesa la argomentata valutazione di attendibilità, operata dai giudici territoriali, delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, le quali, secondo consolidata tradizione giurisprudenziale (a partire da Sez. U, n. 41461 del 19/7/2012, Bell'Arte ed altri, Rv. 253214), possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità dell'imputato, previa, appunto, motivata verifica della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto, nella specie suffragata dal narrato di terzi.
Su tali punti, si richiama la sintesi operata ai paragrafi 1.3., 1.3.1. e 1.3.2. della superiore esposizione in fatto.
2.9. Aspecifico, perché non correlato alla ratio decidendi, è il motivo sul diniego delle attenuanti generiche e sulla entità della pena, a fronte di una motivazione (particolarmente diffusa quella del giudice di primo grado) dei giudici di merito scevra da vizi logico-giuridici e correttamente ancorata alla estrema gravità dei fatti, alla cinica indifferenza palesata dall'imputato nell'immediatezza e dopo gli eventi delittuosi, alla collocazione del delitto più grave in un contesto di sopraffazione reiterata e sistematica della persona offesa; elementi rispetto ai quali il dato formale della incensuratezza dell'imputato è stato giustamente considerato recessivo.
3. Il ricorrente non ha riproposto in questa sede il motivo di appello con cui si doleva del mancato assorbimento del delitto di tentata violenza sessuale in quello di tentato omicidio, che la Corte di appello di Salerno ha respinto incorrendo in un errore di diritto.
Tale errore deve ritenersi, peraltro, rilevabile d'ufficio, ai sensi dell'art. 609, comma 2, cod. proc. pen., in quanto, in conseguenza di esso, la pena, nel suo complesso, risulterebbe illegale. La Corte di merito non ha, invero, tenuto conto dell'orientamento espresso da questa Corte, cui il Collegio intende dare continuità, secondo il quale il delitto di violenza sessuale, considerato come circostanza della forma aggravata dell'omicidio, se commesso in un unico contesto temporale - come pacificamente emerso nel caso di specie - non concorre formalmente con esso, ma in esso resta assorbito, confluendo nella figura del reato complesso in senso stretto di cui all'art. 84, comma primo, cod. pen. (Sez. 1, n. 29167 del 26/5/2017, Nwajiobi, Rv. 270281; Sez. 1, n. 12680 del 29/1/2008, Giorni, Rv. 2393651; Sez. 1, n. 6775 del 28/1/2005, P.G. in proc. Erra ed altri, Rv. 230149).
Il principio è stato definitivamente affermato da Sez. U, n. 38402 del 15/7/2021, P.G. in proc. Magistri, Rv. 281973, a proposito di un caso di omicidio aggravato ai sensi dell'art. 576, primo comma, n. 5.1 cod. pen., commesso a seguito del delitto di atti persecutori da parte dell'agente nei confronti della medesima vittima.
Va, quindi, annullata senza rinvio la sentenza impugnata, limitatamente al reato di tentata violenza sessuale aggravata di cui al capo C), perché il fatto non sussiste.
Va, di conseguenza, eliminata, ai sensi dell'art. 620, lett. I), cod. proc. pen., la pena irrogata a titolo di aumento per la continuazione per il suddetto reato di cui al capo C) (mesi sei di reclusione), così da pervenire, in riferimento ai reati residui di cui ai capi A) e B), operata la riduzione di un terzo per il rito sulla pena ad essi relativa (anni quattordici e mesi sei di reclusione: v. pag. 13 della sentenza di primo grado), ad una pena finale rideterminata nella misura di anni nove e mesi otto di reclusione. Nel resto, come detto, il ricorso va rigettato.
Segue la formula di oscuramento dati nei termini di cui in dispositivo.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata in relazione al reato di cui al capo C) perché il fatto non sussiste, elimina la pena irrogata a titolo di aumento per la continuazione per tale reato e ridetermina, per i reati di cui ai capi A) e B), la pena in anni nove e mesi otto di reclusione. Rigetta nel resto il ricorso.