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6 ottobre 2022
“Strumentalizza” le confidenze fatte dal figlio minore e accusa la madre di abusi sessuali pur sapendola innocente: è calunnia?
Colpevole di calunnia il padre che, definendosi “turbato” da alcune frasi riportate dal figlio, ha accusato la madre di abusi sessuali seppur consapevole del fatto che le manovre operate dalla donna erano dovute alla necessità di gestire una disfunzione sofferta dal piccolo.
La Redazione
La Corte d'Appello confermava la sentenza del Giudice di Pace che aveva condannato l'imputato in ordine al delitto di calunnia, per aver egli, con esposto alle autorità competenti e con dichiarazioni rese ai carabinieri, accusato la madre del loro figlio comune, nato da una precedente relazione sentimentale tra i due, di atti sessuali sul minore. Accuse da cui era addirittura scaturita l'apertura di un procedimento penale a carico della donna, poi archiviato. Nello specifico, all'uomo era stato contestato di aver dato peso ad una delle frasi che gli erano state riportate dal figlio - "la mamma gli toccava sempre le parti intime” - così lasciando ipotizzare la matrice sessuale delle azioni, omettendo consapevolmente di comunicare che il bambino, a causa di una infezione delle vie urinarie, necessitava di appositi “esercizi di ginnastica”
 
Contro tale decisione, l'uomo ricorre in Cassazione contestando, tra più motivi, la sussistenza nel caso in esame degli elementi oggettivo e soggettivo necessari per la configurabilità del delitto oggetto di addebito, essendosi egli semplicemente limitato a riportare agli assistenti sociali un fatto di cui era stato testimone.
 
In risposta alla doglianza, la Suprema Corte chiarisce innanzitutto che la calunnia è un reato di pericolo. Ai fini della sua integrazione, quindi, non è necessaria una denuncia in senso formale, bensì è sufficiente che il soggetto, rivolgendosi in qualsiasi forma all'autorità giudiziaria, esponga fatti concretanti gli estremi di un delitto e li addebiti a colui che sa innocente. Inoltre, non sussiste il dolo solo quando la falsa incolpazione consegue ad un convincimento dell'agente in ordine a profili essenzialmente valutativi o interpretativi della condotta denunciata, sempre che tale valutazione non risulti fraudolenta o consapevolmente forzata.
 
Presupposto ciò, la censura avanzata dal ricorrente è da considerare infondata. Nel caso di specie, la prova della sussistenza dell'elemento psicologico che ha sostenuto l'iniziativa calunniatrice contestata - dapprima con la presentazione di un esposto indirizzato all'autorità giudiziaria, poi con la conferma di quanto detto in occasione del suo ascolto da parte del PM – va rinvenuta nel fatto che l'uomo, nel corso del procedimento penale aperto a carico della donna, abbia reso una dichiarazione dimostratasi poi smaccatamente falsa. Egli si era infatti giustificato affermando di essere rimasto sconvolto da confidenze fattegli piccolo, non avendo mai saputo che lo stesso necessitasse di cure specifiche per una infezione all'organo genitale, e di aver perciò deciso di riferire quanto appreso alle autorità competenti. Le investigazioni, tuttavia, hanno inequivocabilmente dimostrato il contrario, ovvero che la pediatra che aveva in cura il piccolo aveva informato entrambi i genitori dell'infezione alle vie urinarie sofferta dal bambino nonché della necessità di praticargli determinate operazioni, tanto che anche il padre, in alcuni frangenti, si era direttamente occupato della questione. Fatto senz'altro in grado di provare l'atteggiamento in mala fede tenuto.

Per questa ragioni, con sentenza n. 37850 del 6 ottobre, la Cassazione respinge il ricorso.