La normativa intende valorizzare l'esistenza non di vincoli con consanguinei dimoranti in patria, ma di una rete relazionale tuttora viva e persistente con i membri della famiglia rimasti nel paese d'origine.
Il Tribunale di Roma confermava il provvedimento con cui la Commissione territoriale aveva negato il riconoscimento della protezione internazionale all'attuale ricorrente, ritenendo infondato il rischio di persecuzione in caso rimpatrio. In sede di richiesta, la ricorrente affermava di essersi allontana dal paese di origine da oltre vent'anni...
Svolgimento del processo
1. Il Tribunale di Roma, con decreto in data 11 gennaio 2022, rigettava il ricorso proposto da E.A., cittadina della Nigeria, avverso il provvedimento emesso dalla locale Commissione territoriale di diniego di riconoscimento della protezione internazionale.
La richiedente asilo aveva dichiarato di essersi allontanata dal paese di origine nel 1998, unitamente al compagno, che era venuto a mancare durante la traversata in mare, e di temere, in caso di rimpatrio, di essere vessata dai familiari di quest’ultimo, che la accusavano della sua morte, oltre che di incorrere in difficoltà economiche e di non poter curare le complicazioni mediche riscontrate in Italia.
Il collegio di merito riteneva – fra l’altro e per quanto qui di interesse – che non potesse ritenersi fondato il rischio di persecuzione allegato in ricorso in caso di rimpatrio, in quanto i fatti narrati risalivano a quindici anni addietro e non potevano essere considerati ancora attuali, constatando, peraltro, che la ricorrente non aveva mai riportato alcun episodio rilevante e specificamente circostanziato.
Escludeva che potesse ravvisarsi un rischio di persecuzione in caso di rimpatrio in ragione della condizione dell’A. di donna rimasta sola senza alcun significativo legame familiare, in quanto la ricorrente era già una donna pienamente matura che da tempo si era allontanata dal paese di origine, manifestando così un grado di emancipazione e autonomia non usuale per quella realtà.
Rilevava, peraltro, che la richiedente asilo era stata condannata per uno dei reati ostativi al riconoscimento della protezione internazionale, ex artt. 12 e 16, lett. c) e d-bis), d. lgs. 251/2007, rimanendo così preclusa .la possibilità di riconoscere lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria a mente dell’art. 14, lett. a) e b), d. lgs. 251/2007.
Reputava, infine, che l’A., pur essendo arrivata in Italia sin dal 2001, non avesse dimostrato di aver maturato un sufficiente grado di inserimento sociale in Italia o di essere soggetta a una condizione di vulnerabilità medica meritevole di tutela.
2. Per la cassazione di questa ordinanza ha proposto ricorso E.A. prospettando due motivi di doglianza.
Il Ministero dell’Interno si è costituito al di fuori dei termini di cui all’art. 370 cod. proc. civ. al fine dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione della causa.
Parte ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380-bis cod. proc. civ..
Motivi della decisione
3. Il primo motivo di ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., l’omesso esame di fatti decisivi (costituiti dal rischio di subire, in caso di rimpatrio, trattamenti degradanti e discriminazioni gravi in ragione della condizione di donna senza figli, stigmatizzata da un percorso comune alle vittime di tratta, che marchierebbe la ricorrente come donna “consumata” e pertanto “inutile, triste e vergognosa”) e rilevanti ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria ex art. 14, lett. b), d. lgs. 251/2007.
4. Il motivo è inammissibile.
Il tribunale ha escluso la rilevanza della condizione addotta dalla richiedente asilo ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, non solo “in assenza di una individualizzazione dell’agente persecutore/di danno che possa effettivamente rilevare negativamente sulla vita della richiedente” ed in assenza di “alcun profilo personale che possa esporla ad un maggiore e qualificato rischio anche in riferimento all’asserito stigma sociale”, ma anche perché l’istante era stata condannata, con sentenza irrevocabile, per uno dei reati ostativi al riconoscimento della protezione internazionale (cfr. pag. 3 del decreto impugnato).
Si tratta di una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata.
L'omessa impugnazione dell’ultima di esse, espressamente ritenuta assorbente da parte del collegio di merito, rende inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa alle altre, le quali, essendo divenuta definitiva l'autonoma motivazione non impugnata, in nessun caso potrebbero produrre l'annullamento della decisione impugnata (v. Cass. 9752/2017; Cass., Sez. U., 7931/2013).
5. Il secondo motivo di ricorso lamenta la violazione degli artt. 3 e 8 CEDU, 5, comma 6, 19, commi 1.1 e 1.2, T.U.I. e 32, comma 3, d. lgs. 25/2008: il tribunale, nel decidere sulla domanda di protezione speciale, non ha verificato la situazione del paese di origine della richiedente asilo alla luce dei parametri previsti dall’art. 19, comma 1.1.,
T.U.I. ed ha ritenuto assente un radicamento senza considerare la durata del soggiorno in Italia e il tempo trascorso dalla fuga, la recisione dei legami con il contesto di provenienza e le documentate patologie ginecologiche di cui soffre l’A..
6. Il motivo, a giudizio di questo collegio, è fondato, nei termini che si vanno ad illustrare.
6.1 Secondo la più recente giurisprudenza di questa Corte in tema di protezione internazionale "speciale", la seconda parte dell'art. 19, comma 1.1, d. lgs. 286/1998, come modificato dal d.l. 130/2020, convertito con l. 173/2020 (a mente del quale ai fini della valutazione del rischio di violazione del diritto al rispetto della vita e familiare del migrante “si tiene conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell'interessato, del suo effettivo inserimento sociale in Italia, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale nonché dell'esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo paese d'origine”), attribuisce diretto rilievo all'integrazione sociale e familiare in Italia del richiedente asilo, da valutare tenendo conto della natura e dell'effettività dei suoi vincoli familiari, del suo inserimento sociale in Italia, della durata del suo soggiorno e dell'esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo paese d'origine, senza che occorra procedere a un giudizio di comparazione con le condizioni esistenti in tale paese, neppure nelle forme della comparazione attenuata con proporzionalità inversa (Cass. 18455/2022).
La censura in esame, laddove sostiene che la domanda sia stata respinta “senza considerare la durata del soggiorno in Italia e il tempo trascorso dalla fuga (oltre vent’anni), né la recisione con il paese di provenienza” (pag. 20 del ricorso), lamenta nella sostanza – e come tale va qualificata – anche l’assenza di una motivazione o la sussistenza di una motivazione soltanto apparente (vale a dire non utile a rendere percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento; cfr. Cass., Sez. U., 22232/2016) in ordine ad alcuni aspetti che la normativa di nuovo conio individua come determinanti per il riconoscimento della protezione speciale.
6.2 Il giudice di merito, dopo aver registrato la presenza della richiedente asilo sul territorio nazionale dal 2001, ha ritenuto che questa protratta permanenza non valesse al riconoscimento della protezione speciale, in assenza di alcuna prova che attestasse un’integrazione lavorativa, sociale o culturale e risultando, invece, dimostrata la pronunzia di una sentenza di condanna, oramai definitiva, a quattro anni di carcere “per la commissione di reato grave”, che non poteva far ritenere sussistente un effettivo inserimento nel paese ospitante e documentava, al contrario, un isolamento e una difficoltà di inserimento della richiedente nel tessuto sociale italiano.
Ora, se è ben vero che l’inserimento di un migrante all’interno del tessuto sociale del paese ospitante non può che comportare la condivisione dei valori che la comunità nazionale ha posto a suo fondamento e il rispetto dei medesimi, occorre però considerare che non tutti i reati sono indice di una simile estraneità ai principi cardine della nostra società (si pensi, ad esempio, a molti casi di reati colposi). Pertanto, il giudice di merito, ove intenda sostenere che la commissione di un reato dimostri il mancato inserimento del migrante nel contesto sociale italiano, deve circostanziare la propria affermazione e spiegare quale sia il reato commesso e perché lo stesso sia espressivo di una condotta di vita in contrasto con i valori fondanti il vivere civile italiano, tenendo conto anche dell’epoca di commissione del reato e delle vicende personali successive.
Spiegazione, questa, che manca del tutto all’interno del decreto impugnato, che si limita a registrare la condanna della richiedente asilo a quattro anni di detenzione “per la commissione di un reato grave” mentre alcuna valutazione è stata compiuta sulla distanza temporale della condotta criminosa e sull’avere la odierna ricorrente scontato la pena per il reato commesso.
6.3 Analogo vizio affligge il riferimento all’esistenza di “legami familiari” della migrante con il suo paese d'origine.
La norma, con una simile dizione, intende valorizzare l’esistenza non di vincoli con consanguinei dimoranti in patria, ma di una rete relazionale tuttora viva e persistente con i membri della famiglia rimasti nel paese d'origine.
Occorreva quindi verificare non tanto il fatto che il nucleo familiare dell’istante continuasse a risiedere nel paese di origine, come ha fatto il collegio di merito, ma piuttosto che la richiedente asilo continuasse ad avere un “legame” relazionale con lo stesso, anche alla luce della durata del suo soggiorno all’interno del paese ospitante ovvero se tale legame sia ormai affievolito e se il nucleo familiare di riferimento sia ormai diventato la sorella e i nipoti con cui convive da anni in Italia.
6.4 Il tribunale ha constatato che la ricorrente, rispetto alle sue condizioni di salute, non aveva “depositato (o dedotto) nulla che potesse far ritenere sussistente una vulnerabilità medica meritevole di tutela”.
A fronte di questo accertamento ¿ che rientra nel giudizio di fatto demandato al giudice di merito ¿ la doglianza in esame, sotto questo specifico profilo, intende nella sostanza proporre una diversa lettura dei fatti di causa, traducendosi in un’inammissibile richiesta di rivisitazione del merito (Cass. 8758/2017).
7. Il provvedimento impugnato andrà dunque cassato nei limiti indicati, con rinvio al Tribunale di Roma, il quale, nel procedere a nuovo esame della causa, si atterrà ai principi sopra illustrati, avendo cura anche di provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso nei termini di cui in motivazione, dichiara inammissibile il primo, cassa il decreto impugnato in relazione al motivo accolto e rinvia la causa al Tribunale di Roma in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spE. del giudizio di legittimità.