Condannato il convivente more uxorio della zia materna, affidataria della persona offesa, in quanto il rapporto di affidamento per ragioni di cura e custodia coinvolgeva di fatto anche lui.
La Corte d'Appello di Milano accoglieva parzialmente il gravame proposto dall'imputato, riqualificando il reato continuato di violenza sessuale nel delitto di cui all'
Contro tale decisione, l'imputato...
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 28 ottobre 2021, la Corte d'appello di Milano, accogliendo parzialmente il gravame proposto dall'imputato, ha riqualificato il reato continuato di violenza sessuale contestato al capo B) nel delitto di cui all'art. 609 quater cod. pen. e, praticato l'aumento per la continuazione interna e con il reato di violenza sessuale contestato al capo A) - in motivazione ritenuto di minore gravità - lo ha condannato alla pena di anni tre, mesi nove e giorni 10 di reclusione, confermando nel resto la sentenza impugnata (che, tra l'altro, a fronte della condanna ad anni cinque di reclusione, aveva applicato le pene accessorie dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici e dell'interdizione legale durante l'espiazione della pena).
2. Avverso la sentenza di appello, a mezzo del difensore fiduciario, l'imputato ha proposto ricorso per cassazione, lamentando, con il primo motivo, il vizio di motivazione per travisamento ed omessa valutazione delle prove con riguardo al tentativo di penetrazione anale del 30 maggio 2020 contestato al capo B, ritenuto punibile, benché la minore consenziente avesse già compiuto quattordici anni, sull'errato presupposto che la stessa fosse stata affidata all'imputato per ragioni di cura e custodia.
Il ricorrente osserva che, diversamente da quanto ritenuto dalla sentenza impugnata, ciò non era mai accaduto, né in occasione del bacio ritenuto integrante il reato di violenza sessuale di cui al capo A) - essendo quel fatto avvenuto presso l'abitazione della minore, ove la stessa era stata affidata alla nonna materna, quel giorno presente - né in occasione degli atti sessuali compiuti con il consenso della giovane contestati al capo B, essendo questi bensì avvenuti presso la casa ove l'imputato viveva, ma quando nell'abitazione era presente la sua convivente more uxorio, zia materna della persona offesa, alla quale soltanto quest'ultima era stata dai suoi genitori affidata.
3. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta inosservanza dell'art. 597 cod. proc. pen. e contraddittorietà della motivazione per essere stato praticato, nella rideterminazione della pena conseguente alla riqualificazione del reato di cui al capo B, un aumento a titolo di continuazione con il delitto previsto al capo A superiore a quello inflitto in primo grado, vale a dire quantificato in tre mesi di reclusione anziché in due, essendosi peraltro ritenuta, con riguardo alla violenza sessuale, l'ipotesi attenuata ai cui al terzo comma dell'art. 609 bis cod. pen.
4. Con il terzo motivo di ricorso si deduce inosservanza della legge penale per essere state confermate le pene accessorie dell'interdizione dai pubblici uffici e dell'interdizione legale benché in grado di appello la pena fosse stata ridotta in misura inferiore ad anni cinque di reclusione.
Motivi della decisione
1. Il primo motivo di ricorso non è fondato.
1.1. La sentenza impugnata (pag. 11) attesta che «non è corretto sostenere che A. fosse affidata esclusivamente alla zia materna, dal momento che, in plurimi episodi, la zia era assente e la nipote trascorreva il pomeriggio in compagnia del solo imputato». Con accertamento di fatto qui non sindacabile - non viziato da travisamento della prova, come più oltre si dirà (infra, sub § 1.3) - il giudice di merito ha ritenuto che allorquando era ospitata nella casa che l'imputato condivideva con la convivente more uxorio, zia materna della minore, e con la figlia della coppia (cugina della persona offesa), il rapporto di affidamento per ragioni di cura e custodia coinvolgeva anche l'imputato, che la bambina chiamava, e considerava, "zio".
1.2. La conclusione raggiunta dalla Corte territoriale è conforme al consolidato principio, affermato in casi analoghi, giusta il quale il rapporto di affidamento per ragioni di educazione, di istruzione, di vigilanza o di custodia, che assume rilievo in tema di reati sessuali relativi a minorenni, attiene a qualunque rapporto fiduciario, anche temporaneo od occasionale, che si instaura tra affidante e affidatario mediante una relazione biunivoca e che comprende sia l'ipotesi in cui sia il minore a fidarsi dell'adulto, sia quella in cui il minore sia affidato all'adulto da un altro adulto per specifiche ragioni (Sez. 3, n. 43705 del 24/09/2019, F., Rv. 278088; Sez. 3, n. 5933 del 12/09/2018, dep. 2019, B., Rv. 275832; Sez. 3, n. 11559 del 12/10/2016, dep. 2017, V., Rv. 269171). Va peraltro ribadito che la condizione di affidamento in custodia del minore, prevista per il reato di atti sessuali con minorenne (art. 609-quater, comma primo, n. 2, cod. pen.), prescinde da un atto di formale affidamento da parte del genitore della vittima al reo, in quanto costituisce un dato fattuale che prescinde da rapporti formali tra l'affidatario e il soggetto avente la potestà sul minore, potendo, appunto, avere anche carattere temporaneo e occasionale (Sez. 3, n. 2835 del 13/10/2011, dep. 2012, B., Rv. 251890).
Del resto, come anche si ricava dal confronto tra la previsione di cui all'art. 609 quater, primo comma, n. 2, cod. pen. e quella di cui al secondo comma della disposizione - che delinea le condizioni per la punibilità di atti sessuali commessi con minore che abbia compiuto i sedici anni - la prima non esige la dimostrazione di una particolare forma di strumentalizzazione del rapporto esistente tra l'agente e la vittima (che nella seconda fattispecie è invece descritta come "abuso dei poteri connessi alla posizione"). Per integrare il disvalore penale connesso alla fattispecie qui in esame è dunque sufficiente che gli atti sessuali siano commessi con un soggetto nei confronti del quale sia predicabile, anche di fatto, la titolarità dei doveri connessi al rapporto di affidamento pur occasionalmente instauratosi con un minore di età compresa tra quattordici e sedici anni. La conseguente situazione di soggezione morale di quest'ultimo è stata dal legislatore evidentemente ritenuta idonea a viziare quella pienezza e libertà del consenso all'atto sessuale che lo rende ordinariamente lecito se il minore abbia almeno compiuto i quattordici anni di età. Laddove - come nella specie - quel rapporto sia configurabile, per ciò solo sussiste la rilevanza penale del fatto.
1.3. Tenendo anche conto della delineata ratio, si comprende la ragione per cui la disposizione penale non richiede l'accertamento che altro soggetto titolare di analogo (o anche più stretto) rapporto di affidamento con il minore non possa intervenire a proteggerlo (perché non presente sul luogo o per qualsiasi altra ragione). Non rileva, pertanto, se, in occasione del compimento degli atti sessuali (di quello di specie come di altri contestati all'imputato), la zia materna fosse o meno presente in casa, donde la genericità della doglianza sul travisamento della prova addotto sul punto in ricorso. Il generico richiamo al verbale di audizione protetta ivi effettuato non sarebbe comunque idoneo a ritenere fondata la censura neppure in fatto e, per altro verso, l'affermazione contenuta a pag. 11 della sentenza e più sopra riportata non può essere intesa nel senso - presupposto invece dal ricorrente - che in occasione degli altri atti sessuali compiuti la zia materna fosse sempre fuori casa.
1.4. La ratio decidendi della decisione più sopra esaminata è adeguata e sufficiente rispetto al rigetto dell'analoga doglianza proposta con il gravame di merito, sicché non rileva valutare se l'altra argomentazione al proposito spesa dalla Corte territoriale - quella giusta la quale il primo atto sessuale, oggetto di contestazione al capo A), sarebbe avvenuto presso l'abitazione dell'imputato - si fondi su un travisamento probatorio (secondo il ricorrente la bambina si trovava infatti a casa propria, affidata alla nonna materna). Vale, infatti, il principio secondo cui è affetta da difetto di specificità, con violazione dell'art. 581 cod. proc. pen., la doglianza del ricorso per cassazione con cui si critichi una sola delle rationes decidendi poste a fondamento della decisione, ove siano entrambe autonome ed autosufficienti (Sez. 3, n. 2754 del 06/12/2017, dep. 2018, Bimonte, Rv. 272448; Sez. 3, n. 30021 del 14/07/2011, F., Rv. 250972; Sez. 3, n. 30013 del 14/07/2011, Melis e Bimonte, non massimata); sotto altro angolo visuale, ricorre negli stessi casi il difetto di concreto interesse ad impugnare, in quanto l'eventuale apprezzamento favorevole della doglianza non condurrebbe comunque all'accoglimento del ricorso (Sez. 6, n. 7200 del 08/02/2013, Koci, Rv. 254506).
2. Il secondo motivo di ricorso è fondato.
Dopo aver riqualificato il reato di cui al capo B), contestato ed in primo grado ritenuto quale violenza sessuale continuata, nel delitto continuato di atti sessuali con minorenne, la Corte territoriale ha ridotto la pena per tale addebito in forza delle già ritenute circostanze attenuanti generiche (che in primo grado erano state giudicate equivalenti alla contestata aggravante di cui all'art. 609 ter, primo comma, n. 1, cod. pen.), praticando poi, per quanto qui interessa, un aumento per la continuazione con il delitto di violenza sessuale di cui al capo A) di mesi tre di reclusione. In tal modo, tuttavia, non essendovi stato sul punto gravame del pubblico ministero, il giudice d'appello ha violato il divieto di reformatio in peius, poiché il primo giudice aveva al proposito fissato l'aumento in soli mesi due di reclusione. Tra l'altro, non solo la pena per il reato più grave è stata ridotta, ma la stessa sentenza riconosce al reato satellite un modesto disvalore penale, addirittura qualificandolo, in motivazione, come fatto di minore gravità ex art. 609 bis, ultimo comma, cod. pen. (sia pure senza aver effettuato, in dispositivo, l'espresso riconosci mento dell'ipotesi attenuata).
A fronte di questa chiara valutazione di merito della Corte territoriale, reputa dunque il Collegio di poter effettuare l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata con riguardo all'aumento stabilito a titolo di continuazione per il reato satellite di cui al capo B) e di conseguentemente rideterminarlo nella misura - intangibile in peius - di mesi due di reclusione quale già riconosciuta in primo grado. La pena complessiva va conseguentemente rideterminata in anni tre, mesi otto e giorni venti di reclusione (pena base per il reato di cui al capo B con riduzione per le attenuanti generiche e aumento per la continuazione interna, come da sentenza, in anni cinque e mesi cinque di reclusione, con aumento per la continuazione con il capo A ad anni cinque e mesi sette di reclusione, così ridotta per il rito).
3. E' fondato anche il terzo motivo di ricorso.
Avendo rideterminato la pena in misura superiore ad anni tre ed inferiore ad anni cinque di reclusione - ciò è in questa sede è stato confermato, sia pur con l'ulteriore riduzione di cui si è detto - la Corte territoriale avrebbe conseguentemente dovuto eliminare la pena accessoria dell'interdizione legale, non prevista dall'art. 32 cod. pen., e sostituire l'interdizione perpetua dai pubblici uffici con l'interdizione temporanea per la durata di anni cinque ai sensi dell'art. 29, primo comma, cod. pen.
Trattandosi di conseguenze ope legis, la sentenza impugnata va annullata senza rinvio anche su questo punto, adottandosi in questa sede le dovute statuizioni omesse in secondo grado.
4. Il ricorso va rigettato nel resto e, poiché i motivi accolti non incidono sulle questioni di carattere civile, l'imputato va condannato alla rifusione, in favore dello Stato, delle spese sostenute nel grado dalla parte civile ammessa al gratuito patrocinio, senza necessità di procedere alla liquidazione dei compensi, spettando questa al giudice che ha emesso la sentenza passata in giudicato in sede di emissione del decreto di pagamento ai sensi degli artt. 82 e 83 d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (v. Sez. U, ord. n. 5464 del 26/09/2019, De Falco, Rv. 277760 - 01).
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alle pene accessorie dell'interdizione legale, che elimina, dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici, che sostituisce con quella temporanea per anni cinque, e all'aumento per la continuazione con il reato di cui al capo A), aumento che fissa nella misura di mesi due di reclusione, così rideterminando la pena complessiva in anni tre, mesi otto e giorni venti di reclusione.
Rigetta il ricorso nel resto.
Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di Milano con separato decreto di pagamento ai sensi degli artt. 82 e 83 d.P.R. 115/2002, disponendo il pagamento in favore dello Stato.