È illegittima la discrezionalità della P.A. esercitata con forme di “automaticità” del giudizio di diniego della cittadinanza per via della “non veritiera” autocertificazione e della sussistenza di un solo precedente penale risalente nel tempo e relativo a una condotta di non particolare allarme sociale di recente depenalizzata.
Il ricorrente impugnava il provvedimento con cui l'Amministrazione aveva a lui negato la cittadinanza in ragione del mancato inserimento nella comunità nazionale, considerando, da un lato, l'assenza di elementi utili forniti dallo stesso dopo il preavviso di diniego e, dall'altro, la condanna penale intervenuta per l'importazione abusiva di 5 stecche di sigarette dal proprio Paese di origine, oltre al fatto che egli non aveva fornito alcuna autocertificazione circa la sua posizione giudiziaria al momento della presentazione dell'istanza. Dal canto suo, il ricorrente rilevava che la condanna risaliva a ben 11 anni prima, oltre al fatto che riguardava un reato di basso allarme sociale che oggi risulta depenalizzato.
Con il parere n. 1709 del 19 ottobre 2022, il Consiglio di Stato dichiara il ricorso meritevole di accoglimento, esprimendo il tal senso il parere circa il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.
A tal proposito, il Consiglio di Stato ribadisce che la concessione della cittadinanza soggiace ad una valutazione di opportunità politico-amministrativa altamente discrezionale rispetto alla quale la posizione del richiedente ha consistenza di interesse legittimo. Per questo, la discrezionalità della P.A. si esercita mediante apprezzamenti accurati sulla personalità e sulla condotta di vita del naturalizzando allo scopo di valutare quale sia la probabilità che egli possa arrecare in futuro pregiudizio alla sicurezza dello Stato. In tale ottica, anche i fatti depenalizzati ovvero oggetto di archiviazione in sede penale possono considerarsi rivelatori di una adesione non piena ai valori della convivenza civile rilevanti per la sicurezza e la vita sociale.
Ciò posto, il Consiglio evidenzia che proprio per il particolare rigore che connota la concessione della cittadinanza, l'Amministrazione è chiamata a svolgere un'accurata ed estesa istruttoria che si accompagna ad un provvedimento la cui motivazione deve correlarsi alla tipologia di comportamento ritenuto ostativo, alla natura penale del fatto, alla sua gravità, allo stadio del procedimento e al fatto che la condotta sia stata posta in essere a distanza di tempo rispetto al momento in cui è stata proposta e delibata l'istanza.
Ora, nel caso di specie, come osserva il Consiglio di Stato, è venuta a mancare una motivazione ampia e sufficiente circa il diniego, poiché essa non ha svolto alcuna correlazione con gli elementi sopra evidenziati, essendo stata ricondotta unicamente al fatto oggetto di condanna in sede penale, senza però considerare che quest'ultima da sola non può rappresentare automaticamente un fatto ostativo alla concessione della cittadinanza.
Inoltre, il Consiglio di Stato ha precisato che nella materia in oggetto assume rilevanza la distinzione tra dichiarazione “mendace”, “erronea”, “omissiva” o “reticente” che va accertata caso per caso, distinzione che risiede nella condotta del dichiarante: mentre il falso infatti non può essere meramente colposo, bensì doloso, la condotta meramente omissiva o semplicemente erronea è invece priva del carattere “offensivo” della fede pubblica oggetto di tutela delle norme penali.
Con riferimento al caso di specie, la dichiarazione del richiedente non sembra presentare i caratteri della dichiarazione “mendace”, considerando che è credibile che egli non fosse ben cosciente delle conseguenze penali del fatto commesso e che non fosse a conoscenza della condanna intervenuta, oltre al fatto che ignorasse le previsioni di legge circa la mancata annotazione delle condanne penali emesse per decreto nelle certificazioni del casellario. Per queste ragioni, egli può ritenersi in buona fede quando affermava di aver confidato nella veridicità e completezza delle menzionate certificazioni, alle quali si è attenuto nel rendere l'autocertificazione.
In conclusione, considerando che tutti gli elementi illustrati avrebbero meritato un approfondimento istruttorio e motivazionale da parte della P.A., il ricorso viene accolto.
Consiglio di Stato, sez. I, parere 19 ottobre 2022, n. 1709
Premesso
1.- Con ricorso depositato direttamente dalla parte il 12 giugno 2020, trasmesso al Ministero a mezzo di raccomandata a/r il 30 settembre 2019, il ricorrente impugna, denunciandone l’illegittimità, il diniego di cittadinanza di cui al provvedimento prot. -omissis- del 15.5.2019, notificato all’interessato il 10 giugno 2019, a seguito di istanza ai sensi dell’art. 9, comma 1, lett f) l. 91/1992, presentata il 24.12.1014.
2.- Il provvedimento motiva il diniego con il mancato inserimento del ricorrente nella comunità nazionale, stante la mancanza di elementi utili forniti dallo stesso a seguito del preavviso di diniego con nota del 31.8.2018, con cui erano stati indicati i motivi ostativi ad una valutazione favorevole, ovvero la condanna, con decreto penale del G.I.P. presso il Tribunale di - omissis -del 22.2.2007, esecutivo il 27.4.2007, per i reati di cui all’art. 291 bis d.P.R. 43/1973 (per violazione del T.U. leggi doganali) e art. 70 d.P.R. 633/1972 (per violazione delle norme sull’IVA), nonché l’omessa autocertificazione della propria effettiva posizione giudiziaria all’atto della presentazione dell’istanza.
3.- In data 6 novembre 2018, il ricorrente presentava le proprie deduzioni e osservazioni nel procedimento, rilevando che la condanna è risalente nel tempo, concerne un reato di basso allarme sociale (importazione abusiva di 5 stecche di sigarette dal proprio Paese di origine), fatto oggi depenalizzato (al pari della violazione dell’art. 70 T.U.IVA), ai sensi del D.lgs. n. 8/2016, ed il reato era già estinto per decorso del termine di cui all’art. 460, comma 5, c.p.p. al momento della domanda di concessione della cittadinanza.
4.- Il ricorrente denuncia la violazione di legge e il difetto di motivazione del diniego.
5.- Il Ministero insiste nella relazione per il rigetto del ricorso.
Considerato
1.- Il ricorso merita accoglimento.
2.- In via generale, la Sezione non può che ricordare come, per consolidata giurisprudenza, la concessione della cittadinanza, irrevocabile una volta intervenuta, è subordinata ad una valutazione di opportunità politico-amministrativa altamente discrezionale, rispetto alla quale la posizione soggettiva del richiedente non è di diritto soggettivo, ma ha consistenza di interesse legittimo, atteso che l'attribuzione del nuovo status di cittadino comporta l'inserimento dello straniero, a tutti gli effetti, nella collettività nazionale e l'acquisizione a pieno titolo, da parte dello stesso, dei diritti e dei doveri che competono ai suoi membri, tra i quali quelli connessi all'obbligo di concorrere alla realizzazione delle finalità che lo Stato persegue (ex plurimis, Consiglio di Stato, sez. I, parere n. 943/2022; sez. III, 7/1/2022, n. 104, 1/03/2021, n.1705 e 8/10/2021, n.6720).
2.1. - La valutazione discrezionale dell’Amministrazione si traduce in un apprezzamento di opportunità sulla base di un complesso di circostanze atte a dimostrare l'avvenuta stabile integrazione del soggetto interessato nel tessuto sociale sotto il profilo delle condizioni lavorative, economiche, familiari e di irreprensibilità della condotta, tra cui particolare rilievo assume il comportamento tenuto dal richiedente nel rispetto delle regole della convivenza civile e non solo di quelle di rilevanza penale (Consiglio di Stato sez. I, 943/2022 e n. 1959/2020; sez. VI, 20/05/2011, n.3006).
2.2. - Si è affermato che la discrezionalità dell’Amministrazione si esercita con accurati apprezzamenti sulla personalità e la condotta di vita del naturalizzando, al fine di valutare quale sia la probabilità che questi possa in futuro arrecare pregiudizio alla sicurezza dello Stato per una mancata piena adesione ai valori fondamentali del nostro ordinamento (Consiglio di Stato sez. III, 27/02/2019, n.1390).
2.3. - Pertanto, anche fatti depenalizzati, oppure oggetto di archiviazione in sede penale, ad es. per decorrenza dei termini di prescrizione, e, più in generale, comportamenti che possono assumere un significato apprezzabile ai fini del grado di integrazione del richiedente nella comunità sociale, indipendentemente da ogni conseguenza penale o sanzionatoria, possono essere considerati rivelatori di una non piena adesione ai valori della convivenza civile rilevanti per la sicurezza e/o l’ordinato svolgimento della vita sociale (Consiglio di Stato, Sez. I, parere n. 806/2022; Sez. III, n. 1705 dell’1.3.2021).
2.4.- Tuttavia, proprio per il particolare rigore che caratterizza la concessione di cittadinanza, grava sull’Amministrazione l’obbligo di una completa rappresentazione della realtà, tramite un’accurata ed estesa istruttoria, di cui la motivazione del provvedimento deve dare contezza, con trasparenza, coerenza, logicità e comprensibilità al fine di consentire il sindacato di legittimità sull’esercizio della discrezionalità stessa, che, per quanto ampia, non può sconfinare in arbitrio ( Consiglio di Stati, Sez. I, parere n. 806/2022; Sez. III, n. 8022/2021).
2.5. - L’ampiezza e la profondità dell’obbligo di motivazione del provvedimento di diniego devono correlarsi alla tipologia di comportamento ritenuto ostativo, alla natura penale del fatto, alla gravità dello stesso, alla circostanza che lo stesso sia stato commesso a distanza di tempo dal momento in cui l’istanza viene proposta e delibata, allo stadio del procedimento.
Pertanto, nel caso di condanna con sentenza, a fortiori se passata in giudicato, l’obbligo motivazionale può essere minore rispetto a quello, invece, che deve caratterizzare una mera comunicazione di notizia di reato o una denuncia, della quale il ricorrente potrebbe non essere al corrente (Consiglio di Stato, Sez. I, pareri nn. 710 e 713/2022).
2.6. - In tale quadro, anche la riabilitazione del condannato ex art. 178 c.p. e la dichiarazione di cessazione degli effetti penali del reato ex art. 445, comma 2, c.p.p. (per non avere il condannato commesso nei cinque o due anni - a seconda dei casi - successivi al passaggio in giudicato della sentenza altri delitti della stessa indole) non impediscono la valutazione del fatto medesimo sul piano amministrativo, essendo in tale sede la valutazione finalizzata a scopi autonomi e diversi da quella del giudice penale che ha concesso la riabilitazione del condannato, sebbene non per questo l’Amministrazione può esimersi da una considerazione in concreto del fatto, delle sue modalità, del suo effettivo disvalore sociale (Consiglio di Stato sez. III, 23/11/2018, n.5638 e 13/11/2018, n. 6374).
2.7. - Quanto sopra argomentato rende indifferente il rito, all'esito del quale il giudice penale è pervenuto ad una statuizione di condanna, rilevando invece l’apprezzamento del fatto oggetto di condanna, del grado di allarme sociale che vi si riconnette e del giudizio prognostico sulla integrazione sociale del ricorrente.
3.- Tanto premesso, nel caso in esame, è mancata l’ampia e sufficiente motivazione del provvedimento di diniego correlata alla tipologia di comportamento ritenuto ostativo, alle modalità e caratteristiche del fatto penalmente perseguito, apprezzato in concreto, alla gravità dello stesso e al suo disvalore sociale, alla pena comminata e alla concessione di attenuanti generiche, alla circostanza che si tratti di unico episodio nel periodo di lungo soggiorno del ricorrente in Italia e che sia stato commesso a distanza di tempo (circa 11 anni) dal momento in cui l’istanza è stata esaminata, al fatto che il reato sia stato dichiarato estinto con sentenza del Tribunale di - omissis -in data 18.2.2019, come il ricorrente ha comunicato all’Amministrazione con la memoria integrativa trasmessa il 25 febbraio 2019, prima dell’adozione del provvedimento impugnato.
3.1.- Invero, non sembra ragionevole che, pur nell’esercizio della propria ampia discrezionalità, l’Amministrazione riconduca la valutazione negativa sull’inserimento del ricorrente nel sistema di valori della nostra società, in difetto di altri elementi ostativi, anche riferibili alla situazione economica e personale del ricorrente, al fatto oggetto di condanna consistente nell’importazione abusiva di 5 stecche di sigarette dal proprio Paese di origine (quantità minima, inferiore a 10 Kg, per cui opera oggi la depenalizzazione di cui al D.lgs. n. 8 del 2016, art. 1, commi 1 e 2, sia per la violazione di cui all’art. 291 bis, comma 2, che per la fattispecie relativa all’art. 70 del DPR n. 633 del 1972; cfr. Cass. Sez. Pen., Sez III, n. 35146 del 23.2.2017) e, per di più, senza svolgere alcuna considerazione in ordine alle ragioni per cui, in concreto, tale fatto, risalente ad oltre i dieci anni normativamente rilevanti ai fini della presumibile integrazione del soggetto, non lascerebbe ritenere avvenuta tale integrazione.
La sola condanna penale, senza il minimo apprezzamento in concreto del fatto sotto il profilo rilevante in sede amministrativa, non può rappresentare di per sé automatico fatto ostativo alla concessione della cittadinanza.
4.- Anche l’ulteriore circostanza che il ricorrente abbia omesso di dichiarare la condanna riportata nell’autocertificazione allegata alla domanda di cittadinanza, ad avviso del Collegio, avrebbe dovuto essere valutata discrezionalmente, nella specifica fattispecie, alla luce delle giustificazioni addotte dall’interessato nelle sue osservazioni.
4.1. - L’Amministrazione, stante il suo ampio potere discrezionale, adeguatamente motivando, può legittimamente negare la concessione della cittadinanza italiana al cittadino straniero nel caso in cui l’autocertificazione resa ai fini del conseguimento della cittadinanza non sia veritiera con riguardo al precedente penale non dichiarato (Consiglio di Stato, Sez. I, n. 702/2022).
4.2.- Com’è noto, in proposito la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha affermato che l’art. 75 del D.P.R. n. 445/2000, da cui discende che “il dichiarante decade dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera”, si inserisce in un contesto in cui alla dichiarazione sullo status o sul possesso di determinati requisiti è attribuita funzione probatoria, da cui discende il dovere del dichiarante di affermare il vero (Consiglio di Stato, Sez. V, 9 aprile 2013, n. 1933; V, 27 aprile 2012, n. 2447; TAR Lombardia, MI, sez. III, 08/01/2021, n.49).
Ne consegue che la dichiarazione "non veritiera", al di là dei profili penali, nell'ambito della disciplina dettata dalla l. n. 445 del 2000, preclude al dichiarante il raggiungimento dello scopo cui era indirizzata la dichiarazione o comporta la decadenza dall'utilitas conseguita per effetto del mendacio.
Si è affermato che, nell'ambito della l. n. 445 del 2000, in cui la "dichiarazione falsa o non veritiera" opera come fatto, perde rilevanza l'elemento soggettivo, ovvero il dolo o la colpa del dichiarante, e, in conseguenza, non rileverebbero le doglianze del dichiarante in ordine alla mancanza di colpevolezza nell’omettere di dichiarare il precedente penale.
La comminatoria di decadenza è la naturale conseguenza dell'inidoneità della dichiarazione non veritiera a raggiungere l'effetto cui era preordinata e la norma in parola non richiede alcuna valutazione circa il dolo o la grave colpa, facendo invece leva sul principio di auto responsabilità (Cons. Stato, Sez. V, 03/02/2016, n.404, 24 luglio 2014 n. 3934).
4.3. - Tuttavia, questione diversa è quella della individuazione del "beneficio" o dei "benefici" rispetto ai quali opera la decadenza.
Come ben precisa la sentenza della Sez. V del Consiglio di Stato 09/04/2013, n. 1933, “il beneficio o i benefici rispetto al quale opera la sanzione della decadenza di cui all'art. 75 sono solo quelli immediatamente perseguiti con la dichiarazione non veritiera e non già quelli indirettamente ricollegabili al mendacio”.
La questione va risolta in base alla disciplina sostanziale di settore (ad esempio in materia di contratti pubblici, la sanzione dell'esclusione dalla gara, conseguente alla dichiarazione falsa o non veritiera del partecipante è prevista dalla legge in materia di contratti pubblici, e non è effetto dell'art. 75, l. n. 445 del 1998).
4.4. - Deve rilevarsi che, nella disciplina dettata dall’art. 9, comma 1, lett. f) legge n. 91/92, la dichiarazione del richiedente riguardante i precedenti penali non comporta per espressa previsione del legislatore l’acquisizione del beneficio (cosicchè l’autocertificazione non veritiera ne determinerebbe, ex art. 75 d.P.R. n. 445/2000, l’automatica decadenza).
L’autocertificazione ha lo scopo di portare a conoscenza dell’Amministrazione una serie di elementi di valutazione riguardanti la situazione personale ed economica del richiedente rilevanti ai fini di apprezzarne l’avvenuta integrazione in Italia, tale da poterne affermare la compiuta appartenenza alla comunità nazionale, e l’assenza di cause ostative collegate a ragioni di sicurezza della Repubblica e all’ordine pubblico.
In quest’ambito, può assumere rilevanza l’elemento soggettivo del richiedente e la distinzione tra dichiarazione “mendace”, “erronea”, “omissiva” o “reticente”, da accertarsi in concreto, caso per caso.
4.5. - La distinzione tra le fattispecie di dichiarazione “non veritiera” appena ricordate non risiede nell'oggetto della dichiarazione, che è sempre lo stesso (le pregresse vicende), quanto, piuttosto, nella condotta del dichiarante (cfr. Cons. Stato, Sez. V, n. 2986 del 12.5.2020; n. 2407 del 12.4.2019 e n. 7492 del 4.11.2019).
Mentre il concetto di “falso”, nell'ordinamento vigente, si desume dal codice penale, nel senso di “attività o dichiarazione consapevolmente rivolta a fornire una rappresentazione non veritiera” e dunque “il falso non può essere meramente colposo, ma deve essere doloso”; invece, la mera condotta colposamente omissiva o semplicemente erronea è priva di quel carattere “offensivo” della fede pubblica tutelata dalle norme penali e che giustifica anche la ratio della disciplina volta a semplificare l'azione amministrativa per cui la “decadenza dai benefici” direttamente conseguiti per effetto dell’autocertificazione sarebbe automatica (cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., 28 agosto 2020, n. 16; Cons. Stato, Sez. V, 12 maggio 2020 n. 2976).
4.6. - Nel caso in esame, la dichiarazione resa dal ricorrente non solo non comporta l’acquisizione diretta del beneficio (acquisto dello status di cittadino), ma sembra anche non presentare i caratteri della dichiarazione “mendace”, potenzialmente configurabile come reato, come lascia intendere l’Amministrazione, a causa dell'incertezza nella corretta individuazione della fattispecie concreta.
Il comportamento del ricorrente sembra, da una serie di indici sintomatici, mancare di dolo e di colpa, in quanto giustificato dall’inconsapevolezza della condanna, avendo dichiarato il ricorrente di non aver avuto conoscenza del decreto penale (se non in occasione della comunicazione ex art. 10 bis delle ragioni ostative alla concessione di cittadinanza da parte del Ministero dell’interno) e di non aver ricevuto richieste di pagamento o procedimenti di esazioni relativi a somme da pagare in conseguenza del provvedimento di condanna riportata.
Il ricorrente, tenuto conto della tipologia del fatto commesso, delle cui conseguenze penali è credibile che non fosse ben cosciente, nonché della mancata conoscenza della condanna intervenuta, e, non ultimo, della ignoranza delle previsioni di legge concernenti la mancata annotazione delle condanne penali emesse per decreto nelle certificazioni del casellario, ben può ritenersi in buona fede allorché afferma di aver confidato nella veridicità e completezza delle certificazioni rilasciate dall’Ufficio del Casellario Giudiziario, cui si è attenuto nel rendere l’autodichiarazione.
Sembra, pertanto, che sia mancata nel ricorrente non solo l’intenzione di ingannare, ma anche la consapevolezza del disvalore sociale della propria autodichiarazione o, comunque, la volontà della trasfigurazione del vero nella consapevolezza di porre in essere una condotta dotata di rilevanza giuridica.
4.7.- Pertanto, tali elementi, accuratamente ponderati, avrebbero meritato un approfondimento istruttorio e motivazionale da parte dell’Amministrazione, al pari della gravità e del disvalore del fatto oggetto di condanna penale, non potendosi ritenere esercitata legittimamente la discrezionalità attraverso forme di “automaticità” del giudizio di diniego della cittadinanza per la “non veritiera” autocertificazione e per l’esistenza di un solo risalente precedente penale, concernente un comportamento di non particolare allarme sociale, di recente depenalizzato.
5.- L’Amministrazione, in definitiva, era tenuta ad espletare, con piena cognizione di causa, le valutazioni di sua competenza.
6.- In conclusione, il ricorso va accolto.
P.Q.M.
esprime il parere che il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica sia accolto.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'art. 52, comma 1 D. Lgs. 30 giugno 2003 n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare il ricorrente.