Infondata la censura del ricorrente in merito all'impossibilità di accertare l'effettiva sottoscrizione della SCIA senza l'acquisizione del documento informatico in originale.
La Corte d'Appello di Lecce confermava la pronuncia di primo grado con la quale il Tribunale aveva giudicato l'imputato colpevole del delitto ex art. 76
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Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 27/10/2021, la Corte di appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, confermava la pronuncia emessa il 30/11/2020 dal locale Tribunale, con la quale M.M. era stato giudicato colpevole del delitto di cui all'art. 76, d.P.R. n. 445 del 2000, in relazione all'art. 483 cod. pen., e condannato alla pena di sei mesi di reclusione.
2. Propone ricorso per cassazione il M., a mezzo del proprio difensore, deducendo i seguenti motivi:
- illogicità e contraddittorietà della motivazione. La Corte di appello, dopo aver disposto la rinnovazione istruttoria con richiesta di acquisizione dell'originale del documento in oggetto, avrebbe deciso sulla base di una mera copia della stessa SCIA, nella quale, tuttavia, non vi sarebbe alcuna firma digitale; con la conseguenza che non sarebbe possibile attribuire il documento proprio al ricorrente. Difetterebbe, dunque, ogni accertamento in merito all'effettiva sottoscrizione della dichiarazione, quel che sarebbe stato possibile soltanto acquisendo il documento informatico in originale e leggendolo con strumento idoneo;
- violazione dell'art. 195, comma 7, cod. proc. pen. La Corte di appello avrebbe erroneamente rigettato l'eccezione di inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dalla teste Sanesi, sebbene espressamente de relato, non avendo - la stessa - gestito alcun passaggio della pratica, né, peraltro, saputo indicare il nome del funzionario che se ne era occupato;
- inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 483 cod. pen. Ricostruita l'evoluzione normativa, si lamenta che il falso ideologico in dichiarazione sostitutiva non potrebbe integrare il delitto di cui alla norma citata, mancando il requisito della falsa attestazione in atto pubblico; anche a voler ammettere il valore pubblicistico della presentazione della stessa dichiarazione, questo non varrebbe comunque a riconoscerle la natura di atto pubblico, sebbene resa nell'ambito di un procedimento amministrativo. L'atto, inoltre, sarebbe formato dal privato, non dal pubblico ufficiale nell'esercizio delle funzioni, che, infatti, costituirebbe il mero destinatario della dichiarazione medesima; non vi sarebbe, dunque, alcuna attestazione fatta al pubblico ufficiale.
Motivi della decisione
3. Il ricorso risulta manifestamente infondato.
4. Non può essere accolta, in primo luogo, la censura che lamenta il vizio di motivazione in ordine alla rinnovazione istruttoria e conseguente acquisizione della SCIA indicata in rubrica, in copia anziché in originale.
4.1. La Corte di appello, pronunciandosi sul punto, ha evidenziato che il documento informatico così acquisito doveva ritenersi sottoscritto digitalmente proprio dal ricorrente; al riguardo, la sentenza ha evidenziato che tale sottoscrizione era stata apposta con firma digitale o con la carta nazionale dei servizi, come previsto per legge, e che, in ogni caso, la modalità impiegata rinviava esclusivamente e con certezza al M.. Lei teste S., inoltre, aveva riferito del controllo circa la presenza di una valida firma digitale, effettuato dal sistema in automatico, con verifica del termine di validità della stessa sottoscrizione.
4.2. Ebbene, a fronte di una motivazione così logica e rigorosa, la difesa lamenta che la mancata acquisizione della SCIA in originale impedirebbe comunque di accertare chi avesse effettivamente apposto la firma digitale in calce al documento informatico, non essendo sufficiente a tal fine una mera "schermata" riassuntiva; questa tesi, tuttavia, oltre a trascurare le considerazioni che precedono, non considera un ulteriore profilo logico evidenziato dalla Corte di appello, ossia che il ricorrente non aveva addotto alcun elemento concreto per sostenere l'ipotesi che a firmare digitalmente la SCIA fosse stata un'altra persona, seppure con il consenso dell'interessato, né che la stessa si-fosse eventualmente (ed arbitrariamente) allontanata dalle prescrizioni ricevute su quanto dichiarare nell'atto.
4.3. D'altronde, neanche nel ricorso si sostiene mai, in modo espresso o implicito, che la firma digitale sarebbe stata apposta da un terzo, ma solo che non vi sarebbe prova certa per attribuirla proprio al ricorrente e che, anzi, sarebbe mancato ogni accertamento da parte del Pubblico Ministero; un argomento di puro merito, dunque, non consentito in questa sed,, , e che non permette di superare le congrue considerazioni della Corte di appello, che - muovendo dalla manifesta riferibilità del documento proprio e solo al M. - avrebbero, nel caso, preteso un'adeguata prova di segno opposto da parte della difesa.
5. In senso contrario, peraltro, non vale neppure quanto lamentato nel secondo motivo di ricorso, con riguardo all'eccezione di inutilizzabilità della deposizione della teste S., ai sensi dell'art. 195, comma 7, cod. proc. pen. Come adeguatamente sostenuto dal Giudice di appello, ancora con motivazione immune da vizi, la teste - responsabile dell'ufficio destinatario della dichiarazione - aveva infatti riferito che il sistema informatico ricevente esegue in automatico un controllo di validità della firma digitale apposta sulla dichiarazione, così ulteriormente confermando la riferibilità del documento proprio al ricorrente; ne risulta, dunque, la palese infondatezza dell'eccezione sollevata in appello e reiterata in questa sede, dato che la teste aveva riferito una circostanza per scienza diretta, non de relato. Quanto, poi, alla mancata indicazione dell'istruttore della pratica, mai escusso, questa evidentemente non rivestiva alcun rilievo, dato che l'unica questione oggetto del giudizio concerneva - e concerne - la riferibilità al ricorrente di una firma digitale, non fisica.
6. In ordine, infine, alla terza questione, che vorrebbe, escluso dal caso in esame l'art. 483 cod. pen., in assenza di una attestazione (falsa) resa al pubblico ufficiale in atto pubblico, si richiama la costante giurisprudenza di questa Corte. In particolare, è stato più volte affermato che integra il delitto di falso ideologico commesso dal privato in atto pubblico la condotta di chi, in una dichiarazione sostitutiva di atto notorio, resa ai sensi dell’art. 46, d.P.R. n. 445 del 2000 ed allegata all'istanza preordinata ad ottenere l'iscrizione in un albo o registro, attesta falsamente di non avere mai riportato condanne penali (tra le altre, Sez. 5, n. 48681 del 6/6/2014, Sola, Rv. 261278), come nel caso di specie; negli stessi termini, e tra le numerose altre, integra il reato colui che, gravato da una condanna a pena detentiva superiore a tre anni, attesti falsamente, in sede di autocertificazione preordinata all'ammissione agli esami per il conseguimento della patente nautica, di essere in possesso dei richiesti requisiti morali (Sez. 5, n. 18680 dell'8/2/2021, Scarfò, Rv. 281043. Come confermato, a contrario, da Sez. 5, n. 305 del 20/9/2021, Trezza, Rv. 282641, per cui il reato non è integrato da chi, ad esempio, all'atto di iscrizione in un albo professionale, nel sottoscrivere una dichiarazione di atto notorio, ometta di indicare le iscrizioni relative a condanne definitive, delle quali sia stata ordinata la non menzione nel certificato penale. O, ancora, da Sez. 5, n. 838 del 20/10/2020, Perri, Rv. 281028, che esclude il reato quando, ancora in sede di dichiarazione sostitutiva, l'agente ometta di menzionare un'applicazione della pena su richiesta, poiché il dichiarante non è tenuto a riferire nulla di più di quanto risulti dal certificato penale.).
6.1. Quanto precede, sul presupposto - maggioritario in sede di legittimità e qui da ribadire - che le dichiarazioni sostitutive rese ai sensi degli artt. 46 e 47, d.P.R. n. 445 del 2000, in base all'art. 76, stesso decreto (richiamato in rubrica), sono considerate come fatte al pubblico ufficiale (tra le altre, Sez. 3, n. 6347 del 4/10/2018, R, Rv. 274858). Con la precisazione, rilevante nel caso di specie e correttamente richiamata anche nella sentenza, che il concetto di atto pubblico è, agli effetti della tutela penale, più ampio di quello desumibile dall'art. 2699 cod. civ., dovendo rientrare in questa nozione anche gli atti preparatori di una fattispecie documentale complessa, come gli atti di impulso di procedure amministrative, a prescindere che il loro contenuto venga integralmente trasfuso nell'atto finale del pubblico ufficiale o ne venga a costituire solo il presupposto implicito necessario (Sez. 5, n. 37880 dell'8/9/2021, Musso, Rv. 282028).
7. Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.