La disciplina prevista dall'art. 1, commi 661-676, della Legge n. 160/2019 sembra contrastare con il principio di eguaglianza tributaria laddove colpisce fiscalmente le bibite contenenti edulcoranti, ma non anche gli altri prodotti alimentari aventi le medesime sostanze.
Con separati atti, alcuni ricorrenti sono insorti davanti al TAR Lazio contro il Decreto MEF del 12 maggio 2021, recante «Imposta di consumo sulle bevande edulcorate» (“sugar tax”), adottato ai sensi dell'
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TAR Lazio, sez. II, sentenza (ud. 26 ottobre 2022) 14 novembre 2022, n. 14918
Svolgimento del processo
(1.1) Il ricorso iscritto al numero di ruolo 7766/2021
Con il ricorso iscritto nel registro generale del 2021 con il numero 7766, le tre ricorrenti – premesso di essere la prima (Assobibe) un’associazione di categoria raggruppante le imprese produttrici e distributrici di bevande analcoliche in Italia, mentre la seconda e la terza due imprese iscritte a detta associazione (F. S.p.A. e R. Drinks S.r.l.) – insorgono avverso il decreto del Ministero dell’economia e delle finanze del 12 maggio 2021 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 125 del 27 maggio 2021), adottato ai sensi dell’art. 1, comma 675, legge 27 dicembre 2019, n. 160.
Quest’ultima norma di legge ha introdotto in Italia una nuova imposta sul consumo (c.d. “sugar tax”) che – al dichiarato scopo di contrastare il diabete, l’obesità ed altri specifici effetti dannosi per la salute umana – colpisce le bevande analcoliche contenenti sostanze edulcoranti, id est qualsiasi tipo di zucchero aggiunto - diverso dagli zuccheri già presenti in natura in una determinata bevanda - atto a conferire un sapore dolce alla bibita.
Il summenzionato decreto del Ministero dell’economia e delle finanze del 12 maggio 2021 (nel prosieguo anche il “Decreto”) è stato adottato allo scopo di dare attuazione concreta all’insieme di regole contenute nei commi 661-676 del citato art. 1 della legge 27 dicembre 2019, n. 160.
I rilievi censori mossi dalle ricorrenti all’indirizzo dell’avversato Decreto possono ascriversi a due distinte categorie, e cioè da un lato profili di illegittimità derivata incentrati sull’incostituzionalità e antieuronitarietà della norma di legge su cui il Decreto poggia, dall’altro lato profili di illegittimità propria per vizi autonomi (o per meglio dire endo-provvedimentali) slegati dall’incostituzionalità e antieuronitarietà della base legale.
Quanto alla prospettata illegittimità derivata, le ricorrenti instano anzitutto per una rimessione alla Corte Costituzionale della questione di legittimità costituzionale del summenzionato art. 1, commi 661-676, della legge 27 dicembre 2019, n. 160 (su cui come visto poggia il Decreto impugnato) per violazione degli artt. 3 e 41 della Costituzione, ovviamente previa delibazione della sua rilevanza e non manifesta infondatezza. La richiesta di rimessione degli atti alla Corte Costituzionale poggia sui seguenti argomenti:
(i) violazione del principio di uguaglianza e/o ragionevolezza ex art. 3 della Costituzione – letto nella sua duplice accezione di eguaglianza sostanziale e proporzionalità – in quanto la nuova imposta de qua va a colpire indifferentemente tutte le bevande analcoliche contenenti additivi edulcoranti (anche noti come “zuccheri aggiunti”), indipendentemente dall’origine naturale o sintetica di tali additivi, così trascurando il fatto che gli edulcoranti sintetici – a differenza di quelli naturali – sono non soltanto privi di calorie ma anche sottoposti a “limiti massimi di impiego per ogni categoria alimentare” prestabiliti a livello euro-unitario. A quest’ultimo riguardo, parte ricorrente cita l’esempio dell’aspartame, deducendo che “la quantità massima utilizzabile di un edulcorante artificiale, come, ad esempio, l’aspartame, è di 600 mg/l (v. allegato II al Regolamento, p. 263, doc. 5) mentre la dose massima giornaliera, espressa in base al peso corporeo, è di 40 mg/kg, fissata nel 1984 dal Comitato scientifico dell’alimentazione umana, “Scientific Committee on Food - SCF”, le cui competenze sono state trasferite all’Autorità europea per la sicurezza alimentare - “EFSA” nel 2002 la quale ha confermato il predetto limite”. Sostiene parte ricorrente, quindi, che l’applicazione indifferenziata della c.d. “sugar tax” agli edulcoranti naturali e a quelli sintetici contrasterebbe sia con il parametro dell’eguaglianza tributaria (disincentivando nella stessa misura il consumo di due categorie di additivi rispettivamente ipercalorici ed ipocalorici, questi ultimi quindi del tutto irragionevolmente), sia il parametro di proporzionalità sub specie di idoneità della misura allo scopo (atteso che l’obiettivo della lotta all’obesità e al diabete non può essere certamente realizzato con la disincentivazione del consumo di quelle sostanze edulcoranti - come per l’appunto gli zuccheri sintetici - che sono prive di qualsiasi apporto calorico);
(ii) violazione del principio di uguaglianza e/o ragionevolezza ex art. 3 della Costituzione – letto ancora una volta nella sua duplice accezione di eguaglianza sostanziale e proporzionalità – in quanto il nuovo prelievo fiscale introduce un’irragionevole disparità di trattamento rispetto a situazioni sostanzialmente uguali. Espongono in particolare le ricorrenti che “se l’intenzione del legislatore era quella di limitare il consumo degli edulcoranti, naturali e sintetici, non sussiste alcun motivo logico per il quale questi vengono tassati solamente se essi sono utilizzati nelle bevande (il cui consumo come sopra chiarito è irrilevante nel nostro Paese) e non anche negli altri alimenti. Le sostanze in questione, proprie perché in grado di conferire un gusto dolce sono molto utilizzati nei cibi: dolci, biscotti, chewingum, gelati, cioccolatini etc. La scelta quindi di contrastare il consumo degli edulcoranti colpendo solo le bibite appare irragionevole, discriminatoria e, in ogni caso, non idonea a raggiungere il fine prefissato dalla disposizione tenuto conto del minimo impatto che le bibite edulcorate hanno sulla dieta italiana”;
(iii) violazione del principio di uguaglianza e/o ragionevolezza ex art. 3 della Costituzione, visto questa volta esclusivamente sotto l’angolo prospettico del principio di proporzionalità nella sua meccanica c.d. trifasica (idoneità, necessità e proporzionalità in senso stretto della nuova norma impositiva). In particolare:
- per quel che riguarda l’idoneità del nuovo prelievo fiscale rispetto all’obiettivo che esso persegue (id est la riduzione di obesità, diabete ed altri effetti collaterali connessi al consumo di edulcoranti sintetici), tale presupposto sarebbe eliso in radice non soltanto dal fatto che il prelievo colpisce irragionevolmente pure le sostanze ipocaloriche (id est gli edulcoranti sintetici), ma anche dal fatto che il consumo di bevande analcoliche in Italia è del tutto irrisorio. Al riguardo, parte ricorrente evidenzia che “in Italia, il consumo delle c.d. “soft drink” (altra denominazione delle bevande edulcorate oggetto della nuova imposta) è il più basso d’Europa (secondo solo alla Grecia) e del mondo, pertanto non esiste, in radice, il presupposto “colpito” dalla nuova imposizione (consumo eccessivo delle bevande edulcorate)”, e che “non c’è una correlazione tra consumo di tali bevande e aumento di casi di obesità o diabete. Peraltro, l’irragionevolezza dell’istituzione di un’imposta sul consumo delle bevande edulcoranti per finalità salutistiche trova conferma anche dall’esperienza degli altri Paesi. In Finlandia e in Norvegia, dove l’imposta è in vigore da oltre vent’anni, non si sono registrati benefici, mentre in Francia i risultati sono stati minimi, con riduzione di 3 calorie al giorno per consumatore rispetto ad una media di 2.000/2.500. Risulta particolarmente significativa l’esperienza della Danimarca, dove l’imposta in questione è stata eliminata nel 2012 dopo appena due anni per assenza di alcun impatto positivo né sulla riduzione dei consumi, che sono rimasti comunque molto sostenuti, né tantomeno sulla salute (per il confronto con gli altri Paesi dell’Unione Europea v. doc. 10, pag. 6 e doc. 11, pag. 76 seg.)”;
- per quel che riguarda invece il requisito della necessità e proporzionalità in senso stretto della c.d. “sugar tax”, tale presupposto sarebbe escluso dal fatto che l’imposta “determina gravi ripercussioni economiche e sociali nel settore in questione. Da uno studio di TradeLab del 2019 (doc. 16) emerge che le imprese del settore rappresentato da Assobibe patirebbero una contrazione del 10% del fatturato a causa di questa imposta che, oltre a togliere liquidità ogni mese per i versamenti dell’imposta determina una contrazione di attività e vendite, stimata nel 10% nel periodo pre-Covid e nel 16% per il biennio 2022-2023 alla luce di nuove stime Nomisma elaborate nel 2021 (doc. 11, pag. 67 seg.). A queste stime vanno aggiunti i costi di adeguamento amministrativo, precedenti all’entrata in vigore, prevista per il 1 gennaio 2022, per la conformità ai dettami imposti dal decreto attuativo”. Sempre nel senso di escludere il parametro della necessità del nuovo prelievo fiscale, parte ricorrente soggiunge che l’obiettivo dichiarato dal legislatore con la relazione illustrativa (cfr. relazione illustrativa al disegno di legge di bilancio integrato 2020-2022, Atti parlamentari, Senato della Repubblica, n. 1586) è quello di disincentivare il consumo delle sole bevande con contenuto “elevato” di sostanze edulcoranti. Ne discende che la norma contenuta nel comma 666 della legge 160 del 2019, laddove prevede una “soglia di dolcezza” (al di sotto della quale l’imposta non si applica) eccessivamente bassa - pari “a 25 grammi per litro” per i prodotti finiti e a 125 grammi per chilogrammo “per i prodotti predisposti ad essere utilizzati previa diluizione” - finirebbe sostanzialmente per disincentivare non soltanto il consumo di bevande con contenuto “elevato” di sostanze edulcoranti, ma anche il consumo di bevande con qualsiasi minimo contenuto edulcorante. Pertanto, una soluzione alternativa percorribile, ma meno gravosa, erroneamente non considerata dal legislatore, sarebbe stata quella di fissare una soglia di dolcezza più elevata e meno irragionevole.
Identificati i profili censori incentrati sull’asserita illegittimità costituzionale della legge di cui il Decreto impugnato costituisce attuazione, va soggiunto che parte ricorrente si duole, in via subordinata, anche di una possibile illegittimità eurounitaria di tale legge, per contrasto con gli artt. 49, 56 e 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE).
Tenuto conto, infatti, che l’imposta non si applica alle esportazioni (comma 666), parte ricorrente sostiene che tale esenzione comporterebbe un forte svantaggio per le imprese italiane che operano solo (o comunque prevalentemente) nel territorio nazionale, costrette a vendere i propri prodotti ad un prezzo superiore rispetto a quello offerto dalle imprese che esportano (non incise dall’imposta) o a quello offerto per gli stessi prodotti negli altri Stati membri, determinandosi così un’alterazione della concorrenza a svantaggio delle imprese italiane che operano nel territorio nazionale.
In coerenza con quanto precede – ed in subordine rispetto alla richiesta di incidente di costituzionalità – parte ricorrente insta affinché il Collegio sollevi ai sensi dell’art. 267 del TFUE, davanti alla Corte di giustizia dell’Unione Europea, la seguente questione pregiudiziale: “se gli artt. 49, 56 e 101 TFUE nonché i principi di libertà di stabilimento, libera prestazione dei servizi e di libera concorrenza ostino a una disposizione legislativa nazionale quale l’art. 1, commi 661-676, della legge n. 160/2019 che introduce un’imposta sulle bevande analcoliche contenenti sostanze edulcoranti applicabile solo nel mercato dello Stato membro che ha emanato la predetta disposizione”.
Identificate le questioni di legittimità costituzionale ed eurounitaria sollevate in relazione alla disciplina di legge di cui il Decreto costituisce attuazione, vanno richiamati, a questo punto, i profili censori incentrati sull’illegittimità propria di detto Decreto, e cioè sui suoi vizi “autonomi” slegati dall’incidente di costituzionalità.
A sostegno della domanda di annullamento, in particolare, si afferma che il Decreto avrebbe introdotto – in fase di determinazione delle modalità di versamento e accertamento della nuova imposta – adempimenti amministrativi e contabili eccessivamente gravosi e sproporzionati a carico dei produttori di bevande analcoliche contenenti sostanze edulcoranti.
Ciò in spregio del fatto che la c.d. “sugar tax” è un’imposta sul consumo, sicchè essa non avrebbe dovuto imporre nuovi oneri a carico del produttore, salvo quelli strettamente indispensabili al versamento dell’imposta.
(1.2) Il ricorso iscritto al numero di ruolo 7874/2021
Con il ricorso iscritto nel registro generale del 2021 con il n. 7874, la società S. S.r.l. – premesso di essere la società che si occupa nel territorio siciliano della produzione e commercializzazione delle bevande a marchio The Coca-Cola Company – insorge avverso il medesimo Decreto del MEF del 12 maggio 2021 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 125 del 27 maggio 2021) avversato nel summenzionato giudizio contraddistinto dal NRG 7766 del 2021.
Anche i rilievi censori mossi da S. S.r.l. all’indirizzo dell’avversato Decreto investono da un lato profili di illegittimità derivata incentrati sull’incostituzionalità e antieuronitarietà della norma di legge su cui il Decreto poggia e, dall’altro lato, profili di illegittimità propria per vizi autonomi.
Quanto ai primi, S. S.r.l. sostiene che la base legale del Decreto è viziata dai seguenti profili di incostituzionalità:
- violazione dell’art. 3 della Costituzione nella sua duplice accezione di eguaglianza tributaria e ragionevolezza. Quanto all’eguaglianza tributaria, essa sarebbe lesa dalla sperequazione tra bevande contenenti sostanze edulcoranti (incise dalla “sugar tax”) e altri prodotti alimentari diversi dalle bevande aventi le medesime sostanze (non incisi invece dalla “sugar tax”). Quanto alla ragionevolezza, essa sarebbe lesa dal contraddittorio perseguimento, da parte del legislatore fiscale, di due obiettivi ontologicamente confliggenti, ossia da un lato l’obiettivo di ridurre la domanda di mercato di certi prodotti dannosi per la salute e, dall’altro lato, l’obiettivo di incrementare gli introiti dello Stato. Irragionevole sarebbe, in tesi, anche la scelta legislativa di cercare di disincentivare il consumo di certi prodotti con un’imposta che, però, impatta più sul produttore che sul consumatore, nonché di intervenire su un settore di consumo che in Italia non raggiunge le soglie di criticità di altri paesi europei;
- violazione dell’art. 3 della Costituzione in rapporto al principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 della Costituzione, atteso che l’imposta è liquidata “in base alla quantità di edulcorante, naturale o sintetico, presente nel prodotto, per cui il soggetto obbligato (il fabbricante, il soggetto nazionale che provvede al condizionamento, l’acquirente e l’importatore) è tenuto al pagamento di un’imposta finale che pesa sul proprio bilancio in modo del tutto indipendente dagli introiti” (cfr. pag. 17 del ricorso introduttivo di S. S.r.l.);
- violazione dell’art. 41 della Costituzione, atteso che di fronte ad un’imposizione di questo tipo, gli operatori del settore si troverebbero nell’impossibilità di pianificare correttamente i propri investimenti e di adeguare le strutture aziendali alla nuova imposizione.
S. S.r.l. lamenta inoltre la contrarietà della nuova imposta al diritto euro-unitario, nonché in via subordinata l’illegittimità “autonoma” del Decreto impugnato (a prescindere dall’incostituzionalità o illegittimità comunitaria della base legale) sulla scorta di argomentazioni sostanzialmente corrispondenti a quelle già esposte nel primo ricorso NRG 7766/2021.
(1.3) Le difese sviluppate dalle amministrazioni resistenti in entrambi i giudizi
Le Amministrazioni resistenti si sono ritualmente costituite in giudizio contestando i due ricorsi e chiedendone la reiezione, eccependo in particolare che:
- i due gravami sarebbero anzitutto inammissibili per un duplice ordine di ragioni, e cioè da un lato perché difetterebbe l’interesse ad agire delle ricorrenti, stante l’assenza di lesività del Decreto impugnato, il quale recherebbe statuizioni normative generali e astratte, e dall’altro lato perché ci sarebbe un difetto di giurisdizione del Giudice amministrativo adìto ex art. 7, primo comma, c.p.a., atteso che il gravame è essenzialmente rivolto a censurare un atto politico, quale per l’appunto sarebbe l’atto legislativo di cui il Decreto costituisce attuazione;
- in ogni caso la questione di legittimità costituzionale sarebbe infondata, atteso che: (i) il legislatore ha compiutamente individuato e selezionato i beni da sottoporre ad imposta sul consumo, un’imposta chiaramente connotata da una finalità extra-fiscale disincentivante, ispirata dall’interesse alla tutela della salute pubblica, il tutto avendo cura, in coerenza con l’art. 41 Cost., di non frapporre alcuna limitazione assoluta all’esercizio dell’attività delle aziende operanti nel settore; (ii) l’imposta di cui si discorre colpisce in egual misura tanto le bevande edulcorate ottenute da impianti di produzione nazionali, quanto quelle provenienti da altri Stati appartenenti all’Unione Europea, nonchè le bevande edulcorate importate da Paesi extra-UE.
Alla camera di consiglio del 12 gennaio 2022 fissata per la trattazione dell’istanza cautelare in entrambi i giudizi, le ricorrenti – preso atto del sopravvenuto differimento legislativo al 1° gennaio 2023 della data di entrata in vigore della normativa di legge su cui è basato il Decreto impugnato (cfr. art. 1, comma 12, lett. b), della legge 30 dicembre 2021, n. 234, che ha modificato l’art. 1, comma 676, della legge n. 160/2019, rinviando la decorrenza dell’efficacia dei commi 661-676 dell’art. 1 della legge n. 160/2019, postergando quindi di un anno l’entrata in vigore della “sugar tax”) – hanno rinunziato alla richiesta di misure sospensive cautelari.
Successivamente, all’esito di una nuova istanza cautelare ritualmente notificata e depositata ex art. 55 c.p.a. nel mese di settembre 2022 per entrambi i giudizi (in vista dell’approssimarsi della nuova data di entrata in vigore della legge istitutiva della “sugar tax”, attualmente fissata al 1° gennaio 2023), nella camera di consiglio del 12 ottobre 2022 il Collegio – preso atto della disponibilità delle ricorrenti a rinunziare all’istanza cautelare a fronte di una fissazione anticipata dell’udienza di merito, nonché del consenso prestato da tutte le parti a tale fissazione e della loro abdicazione ai termini ex art. 73, comma 1, c.p.a. – cancellava le due cause dal ruolo delle sospensive cautelari e le rinviava all’udienza pubblica del 26 ottobre 2022 per la definizione del merito.
Alla suddetta udienza di merito il Collegio – previa discussione delle due cause – introitava quest’ultime in decisione.
Motivi della decisione
Il Collegio ritiene di riunire i gravami, ai sensi dell’art. 70 c.p.a., in quanto sussiste una stretta connessione oggettiva, sotto il profilo del petitum immediato e della causa petendi, tra i contenziosi aventi ad oggetto la domanda di annullamento del Decreto sopra menzionato.
Il Collegio condivide i dubbi di legittimità costituzionale prospettati delle ricorrenti, ritenendo rilevante e non manifestamente infondata la questione della conformità dell’art. 1, commi 661-676, della legge n. 160/2019, con l’art. 3 della Costituzione.
(2.1) Sulla rilevanza della questione di legittimita’ costituzionale
La questione di legittimità costituzionale è anzitutto rilevante ai fini della decisione del presente giudizio, non essendo possibile respingere in rito il ricorso in base alle eccezioni pregiudiziali delle Amministrazioni resistenti.
Quanto infatti al prospettato difetto di giurisdizione (la cui inerenza alla potestas iudicandi ne rende prioritaria la trattazione), esso va respinto perché è ben possibile che il vizio che affligge il provvedimento amministrativo si esaurisca nell’incostituzionalità della norma di legge su cui lo stesso provvedimento si regge, senza che tale profilo censorio esorbiti in un’indebita richiesta di sindacato giurisdizionale di un atto politico (id est la legge in tesi incostituzionale).
Ed invero, l’ipotesi di cui si discorre è per l’appunto quella dell’impugnazione di un provvedimento amministrativo emanato in applicazione di una norma in tesi incostituzionale (cfr. Corte cost., 361/2004; 71/2001; 30/1987; 86/1982; nonché Corte cost. 134/1963, in cui i ricorrenti hanno congegnato il ricorso articolandolo su due motivi entrambi coincidenti con dubbi di costituzionalità).
In questo caso la configurazione dell’atto giudiziale introduttivo sembra incidere sulla nozione di rilevanza, dissolvendo la logica della pregiudizialità tra due questioni (l’una principale e l’altra strumentale) per generare una (apparente) coincidenza tra il dubbio sulla legittimità costituzionale di una norma di legge e la risoluzione del merito della controversia dinanzi al giudice amministrativo.
In realtà, il Consiglio di Stato ha da tempo chiarito che tale peculiarità – consistente per l’appunto nell’apparente coincidenza della questione principale di merito con la questione pregiudiziale di costituzionalità – non elide affatto il carattere incidentale del dubbio di legittimità costituzionale, essendo del tutto indifferente il fatto che l’eventuale decisione della Corte costituzionale “possa esaurire la materia sottoposta all’indagine del giudice che ha ordinato la trasmissione degli atti, vincolando completamente la sua pronuncia alla sentenza” della stessa Corte Costituzionale (cfr. Cons. St., sez. IV, 3 aprile 1957, n. 393, in Giur. It., 1953, III, 93. Cfr. anche Tar Sicilia, ord. 27 novembre 1997, n. 3121, in Giust. amm. sic., 1997, 1340, in cui si riconosce chiaramente che “la dedotta incostituzionalità di una norma può costituire l’unico motivo su cui può validamente fondarsi l’impugnazione”).
La stessa Corte Costituzionale ha affermato chiaramente che anche la “circostanza che la dedotta incostituzionalità di una o più norme legislative costituisca l’unico motivo di ricorso innanzi al giudice a quo, non impedisce di considerare sussistente il requisito della rilevanza” (cfr. ex multis Corte cost., n. 4/2000, nonché Corte cost. 138/2017; 16/2017; 128/1999; 263/1994).
Ed infatti, se il Giudice delle leggi giunge a dichiarare incostituzionale la norma di legge su cui poggia (a vario titolo) l’atto amministrativo impugnato, il Giudice Amministrativo rimane comunque il dominus del proprio processo, dovendo esercitare il potere di annullamento dell’atto, non potendo certo sostenersi che la sentenza di illegittimità possa soddisfare direttamente il petitum del ricorso amministrativo.
In tale quadro di principi, pertanto, non è revocabile in dubbio che gli odierni gravami – con cui le ricorrenti si dolgono prioritariamente proprio dell’incostituzionalità della legge su cui il Decreto impugnato si basa – non integrano affatto gli estremi di un’indebita richiesta di sindacato dell’atto politico da parte del Giudice Amministrativo in spregio dell’art. 7 del c.p.a., bensì di uno strumento rimediale pienamente coerente con il nostro sistema costituzionale, oltre che già ben noto alla giurisprudenza della Corte Costituzionale.
Ne discende che i gravami de quibus – lungi dal risolversi in un’inammissibile impugnazione dell’atto politico (id est della legge) – consistono invero nell’impugnazione di un atto amministrativo con contenuto normativo (id est il Decreto impugnato), il cui vizio genetico risiede nell’ipotizzata incostituzionalità della sua base di legge, rispetto alla quale viene sollecitato un incidente di legittimità costituzionale.
Orbene, tutto ciò rientra ictu oculi nel pieno dominio della giurisdizione di legittimità del Giudice Amministrativo adìto, con conseguente infondatezza dell’eccezione di difetto di giurisdizione, che va quindi respinta.
Ugualmente infondata è l’eccezione di inammissibilità del ricorso per supposta carenza di interesse ad agire, la quale riposa sulla presunta assenza di lesività del Decreto impugnato.
Costituisce principio consolidato della giurisprudenza amministrativa, infatti, quello secondo cui gli atti normativi (a prescindere dal loro formale nomen juris di atti regolamentari) devono essere immediatamente ed autonomamente impugnati, in osservanza del termine decadenziale, solo laddove gli stessi siano suscettibili di produrre, in via diretta ed immediata, una lesione concreta ed attuale della sfera giuridica di un determinato soggetto, mentre, nel caso di volizioni astratte e generali, suscettibili di ripetuta applicazione e che esplichino effetto lesivo solo nel momento in cui è adottato l’atto applicativo, la previsione normativa non deve essere oggetto di autonoma impugnazione – la quale sarebbe peraltro inammissibile per difetto di una lesione concreta e attuale – ma deve essere impugnata unitamente al provvedimento applicativo di cui costituisce l’atto presupposto, in quanto solo quest’ultimo rende concreta la lesione degli interessi di cui sono portatori i destinatari, potendo, quindi, le previsioni normative formare oggetto di censura in occasione dell’impugnazione dell’atto che ne fa applicazione.
Venendo al caso di specie, pertanto, non appare revocabile in dubbio che le previsioni normative contenute nel Decreto impugnato sono certamente atte a produrre, in via diretta ed immediata, una lesione concreta ed attuale della sfera giuridica delle odierne ricorrenti.
Lesione capace di consumarsi ben prima di (e a prescindere da) qualsiasi eventuale atto applicativo successivo, posto che le previsioni di detto Decreto recano obblighi già di per sé imminenti e stringenti, tra i quali vanno citati, a mero titolo esemplificativo e non esaustivo, quelli di:
(i) denuncia all’ADM per ciascun impianto di produzione - da parte dei singoli esercenti impianti di produzione e dei soggetti cedenti bevande edulcorate – dell’esercizio dell’attività, e ciò indicando, inter alia, le tipologie di bevande edulcorate che si intendono produrre (con la specificazione delle relative voci della nomenclatura combinata dell'Unione europea), la quantità annua stimata di bevande edulcorate che si intendono produrre per conto proprio ovvero per conto di soggetti terzi anche non residenti, la quantità annua stimata di edulcoranti necessaria alla produzione delle bevande in questione;
(ii) redazione ed invio di specifici prospetti riepilogativi nei quali sono annotati i quantitativi di bevande edulcorate ottenuti nell’impianto di produzione.
Né vale eccepire, in senso contrario, che la disciplina di legge su cui si basa il Decreto entrerà in vigore soltanto in data 1° gennaio 2023.
Al riguardo, occorre distinguere concettualmente la fonte di legge (art. 1, commi 661-676, della legge 27 dicembre 2019, n. 160) dal relativo Decreto attuativo qui impugnato.
Quanto alla legge (in relazione alla quale si chiede di promuovere l’incidente di costituzionalità), va osservato che il suo procedimento di formazione si è interamente concluso, essendo la stessa già promulgata e pubblicata in Gazzetta Ufficiale, con la conseguenza che si sono esaurite sia le formalità attinenti alla fase perfezionativa, sia le formalità attinenti alla fase integrativa dell’efficacia.
Non appare revocabile in dubbio, pertanto, che la legge su cui poggia il Decreto rientri nel perimetro degli atti legislativi per i quali l’art. 134 Cost. ammette il giudizio incidentale di costituzionalità.
Quanto al Decreto impugnato, se da un lato è vero che esso reca disposizioni attuative di una fonte legale che entrerà in vigore il 1° gennaio 2023, dall’altro lato è anche vero, però, che tali disposizioni esecutive pongono a carico delle aziende del settore anche alcuni adempimenti contabili ed amministrativi che sono - come anticipato - preparatori, prodromici e strumentali rispetto alla fase di autoliquidazione e versamento del tributo.
Nel novero di tali adempimenti rientra, ad esempio, l’obbligo del “soggetto che intende realizzare bevande edulcorate a partire da materie prime o da prodotti semilavorati” di “denuncia[re], per ciascun impianto di produzione, prima di iniziare l’attività di produzione, l’esercizio della medesima all'ADM per via telematica indicando, a pena di inammissibilità: a) la denominazione dell’impresa, la sede legale, la partita IVA, le generalità del rappresentante legale, il luogo in cui è ubicato l’impianto di produzione e i depositi in cui intende stoccare le bevande edulcorate prodotte e la propria PEC; b) le tipologie di bevande edulcorate che intende produrre, con l’indicazione delle relative voci della nomenclatura combinata dell’Unione europea; c) la quantità annua stimata di bevande edulcorate che intende produrre per conto proprio ovvero per conto di soggetti terzi anche non residenti; d) la quantità annua stimata di edulcoranti necessaria alla produzione delle bevande di cui alla lettera c); e) per ciascuna tipologia di bevanda di cui alla lettera b), il tipo e la quantità prevista, espressa in peso, di ogni edulcorante contenuto in un litro di bevanda finita ovvero in un chilogrammo di prodotto predisposto per diventare bevanda previa aggiunta di acqua o altri liquidi; f) i dati concernenti le rese teoriche di lavorazione degli edulcoranti utilizzati per la produzione di ciascuna tipologia di bevanda edulcorata di cui alla lettera b)” (cfr. art. 3, comma 1, del Decreto impugnato).
Ebbene, l’obbligo del singolo contribuente di denunciare ex ante la quantità annua stimata di bevande edulcorate che egli intende produrre per conto proprio ovvero per conto di terzi – così come declinato dal Decreto attuativo de quo – determina già ora alcuni oneri gestionali e contabili immediati a carico delle singole aziende, quindi ben prima dell’entrata in vigore della disposizione di legge che consente la riscossione dell’imposta.
Quanto precede vale a fortiori se si considera che il Decreto impugnato – a differenza della legge di cui costituisce attuazione – è immediatamente vigente.
In ogni caso, anche a voler ammettere che il Decreto sia soltanto un atto “ad efficacia differita” – efficacia decorrente, quindi, dalla data di entrata in vigore della sua base legale – va rammentato che la giurisprudenza amministrativa non ha mai dubitato dell’onere di immediata impugnazione (e quindi della piena lesività) del “provvedimento lesivo la cui efficacia sia soggetta a termine iniziale (efficacia/esecutività differita)” (così TAR Lazio Roma, Sez. II, 15 ottobre 2018, n. 987; TAR Puglia, Bari, Sez. II, 11 marzo 2010, n. 893; cfr. anche, in argomento, Cons. Stato, Sez. IV, 17 aprile 2002, n. 2032).
Le conclusioni che precedono conducono, pertanto, anche alla luce della nozione sostanziale ed effettiva di interesse ad agire che si è ormai consolidata nella giurisprudenza, ad affermare che nel caso di specie esiste un tangibile e concreto interesse delle ricorrenti ad una pronunzia sulla legittimità del Decreto impugnato, già ora produttivo di effetti.
Ne discende che l’eccezione di inammissibilità del ricorso per supposta carenza di interesse ad agire va respinta in quanto infondata.
Rigettate le eccezioni preliminari sollevate in rito dalle Amministrazioni resistenti, il Collegio ritiene doveroso scrutinare – prima di concludere sulla rilevanza della questione di legittimità costituzionale e di passare quindi ad esaminare il profilo della sua non manifesta infondatezza – l’eccezione di incompatibilità euro-unitaria dell’art. 1, commi 661-676, della legge 27 dicembre 2019, n. 160 (incompatibilità che, ove accertata anche all’esito di un eventuale rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE, potrebbe sfociare nella disapplicazione di tale normativa e nel conseguente annullamento del Decreto impugnato).
Orbene, l’imposta sulle bevande analcoliche contenenti sostanze edulcoranti – così come disciplinata dall’art. 1, commi 661-676, della legge 27 dicembre 2019, n. 160 – appartiene al novero delle imposte speciali sui consumi, le quali, a differenza dell’IVA, non hanno carattere generale in quanto colpiscono soltanto una determinata categoria di beni o servizi.
Esse si caratterizzano, altresì, per la struttura monofase, diventando esigibili in un unico momento dettagliatamente descritto dalla normativa di riferimento (cfr. Corte Cost., sentenza n. 185/2011).
Nell’ordinamento italiano, la disciplina delle accise (e delle altre imposte indirette sulla produzione e sui consumi) è contenuta in larga parte nel decreto legislativo 26 ottobre 1995, n. 504 (Testo unico delle disposizioni legislative concernenti le imposte sulla produzione e sui consumi e relative sanzioni penali e amministrative, c.d. Testo Unico delle Accise o TUA), più volte modificato ed integrato in attuazione delle direttive eurounitarie che hanno disciplinato la materia.
Successivamente, il decreto legislativo 29 marzo 2010, n. 48 (recante “Attuazione della direttiva 2008/118/CE relativa al regime generale delle accise e che abroga la direttiva 92/12/CEE”) ha provveduto, fra l’altro, a modificare le norme collegate al fatto generatore ed all’esigibilità dell’accisa, di cui alla relativa direttiva eurounitaria.
La disciplina generale delle imposizioni indirette sulla produzione e sui consumi, diverse dalle accise disciplinate dai Titoli I e II del TUA (ovvero le imposte indirette diverse da quelle sulla produzione o sul consumo dei prodotti energetici, dell’alcol etilico e delle bevande alcoliche, dell’energia elettrica e dei tabacchi lavorati), è contenuta nell’art. 61 del citato decreto legislativo.
In particolare, secondo tali disposizioni, “a) l’imposta è dovuta sui prodotti immessi in consumo nel mercato interno ed è esigibile con l’aliquota vigente alla data in cui viene effettuata l’immissione in consumo”, mentre obbligato al pagamento dell’imposta è “il fabbricante per i prodotti ottenuti nel territorio dello Stato”, ovvero “il soggetto che effettua la prima immissione in consumo per i prodotti di provenienza comunitaria”, ovvero ancora “l’importatore per i prodotti di provenienza da Paesi terzi”.
L’immissione in consumo si verifica: “1) per i prodotti nazionali, all’atto della cessione sia ai diretti utilizzatori o consumatori sia a ditte esercenti il commercio che ne effettuano la rivendita; 2) per i prodotti di provenienza comunitaria, all’atto del ricevimento della merce da parte del soggetto acquirente ovvero nel momento in cui si considera effettuata, ai fini dell’imposta sul valore aggiunto, la cessione, da parte del venditore residente in altro Stato membro, a privati consumatori o a soggetti che agiscono nell’esercizio di una impresa, arte o professione; 3) per i prodotti di provenienza da Paesi terzi, all’atto dell’importazione; 4) per i prodotti che risultano mancanti alle verifiche e per i quali non è possibile accertare il regolare esito, all’atto della loro constatazione; [...]”.
In ambito eurounitario, come già accennato, la direttiva 2008/118/CE, oltre a disciplinare il regime generale delle accise c.d. “armonizzate”, stabilisce alcuni principi fondamentali in ordine all’imposizione sui “prodotti diversi dai prodotti sottoposti ad accisa” armonizzata, al fine di garantire il corretto funzionamento del mercato interno.
Le accise c.d. “armonizzate” riguardano esclusivamente: a) prodotti energetici ed elettricità di cui alla direttiva 2003/96/CE; b) alcol e bevande alcoliche di cui alle direttive 92/83/CEE e 92/84/CEE; c) tabacchi lavorati di cui alle direttive 95/59/CE, 92/79/CEE e 92/80/CEE.
Relativamente ai prodotti già sottoposti ad accisa armonizzata, l’art. 1, par. 2, della direttiva stabilisce che “gli Stati membri possono applicare ai prodotti sottoposti ad accisa altre imposte indirette aventi finalità specifiche, purché tali imposte siano conformi alle norme fiscali comunitarie applicabili per le accise o per l’imposta sul valore aggiunto in materia di determinazione della base imponibile, calcolo, esigibilità e controllo dell’imposta”.
Relativamente ai prodotti “diversi dai prodotti sottoposti ad accisa”, gli Stati membri rimangono tuttavia liberi di applicare altre forme di imposizione purché l’applicazione di tali imposte non comporti “negli scambi tra Stati membri, formalità connesse all’attraversamento delle frontiere” (art. 1, par. 3).
In sostanza, le norme eurounitarie consentono agli Stati membri di introdurre altre forme di imposizione indiretta sui prodotti per i quali già sussiste un’accisa armonizzata, nonché di introdurre accise non armonizzate.
È significativo che l’ordinamento eurounitario, per non privare gli Stati membri di un efficace strumento di politica economica, abbia lasciato ad essi ampio margine di discrezionalità sia nella scelta delle aliquote delle accise armonizzate (essendo previste solo aliquote minime), sia nell’istituire prelievi aventi specifiche finalità quand’anche gravanti su prodotti già soggetti ad accisa armonizzata.
A ciò si aggiunge la possibilità di tassare la produzione o il consumo di beni estranei al processo di armonizzazione, la quale non è legata alla necessità di perseguire specifiche finalità, ma può essere giustificata anche soltanto da esigenze di bilancio.
Ne discende che la disciplina eurounitaria non osta affatto all’introduzione di un’accisa non armonizzata quale quella di cui si discorre nel giudizio de quo, né tampoco impone vincoli in ordine alle sue modalità di funzionamento.
E se è pur vero che la legge nazionale introduttiva di un’accisa non armonizzata deve comunque rispettare le libertà eurounitarie di stabilimento, prestazione di servizi e concorrenza scolpite negli artt. 49, 56 e 101 del TFUE, è altrettanto vero che la summenzionata direttiva 2008/118/CE stabilisce chiaramente il confine entro cui la sovranità del singolo Stato membro – eventualmente esercitata in materia di accise non armonizzate – può muoversi senza ledere dette libertà.
Il confine è per l’appunto tracciato dall’art. 1, comma 3, ultimo capoverso, della suddetta direttiva, dove è chiaramente previsto che – impregiudicata la potestà di ogni singolo Stato membro di applicare proprie imposte “su prodotti diversi dai prodotti sottoposti ad accisa” armonizzata – “l’applicazione di tali imposte non può [NDR: cionondimeno] comportare, negli scambi tra Stati membri, formalità connesse all’attraversamento delle frontiere”.
Orbene, nel caso di specie la legge istitutiva della c.d. “sugar tax” non ha introdotto alcuna formalità connessa all’attraversamento delle frontiere, dovendosi quindi escludere qualsiasi violazione dei parametri eurounitari degli artt. 49, 56 e 101 del TFUE.
Né vi è contrasto con altre norme dei Trattati ovvero con principi di carattere generale. In particolare:
- non è violato l’art. 30 del TFUE (“i dazi doganali all’importazione o all’esportazione o le tasse di effetto equivalente sono vietati tra gli Stati membri. Tale divieto si applica anche ai dazi doganali di carattere fiscale”), in quanto l’imposta si applica sia ai prodotti nazionali che a quelli di provenienza UE;
- non sono violati gli artt. 34 e 35, relativi al divieto di restrizioni quantitative all’importazione e/o all’esportazione, ovvero di qualsiasi misura di effetto equivalente, in quanto, anche in questo caso, l’imposta si applica a tutti i prodotti immessi in commercio nel territorio dello Stato;
- non è violato il principio di non discriminazione di cui all’art. 110 (“Nessuno Stato membro applica direttamente o indirettamente ai prodotti degli altri Stati membri imposizioni interne, di qualsivoglia natura, superiori a quelle applicate direttamente o indirettamente ai prodotti nazionali similari [...]”), in quanto l’imposta che si applica ai prodotti UE è uguale a quella che si applica sui prodotti nazionali.
In definitiva, reputa il Collegio che l’art. 1, commi 661-676, della legge 27 dicembre 2019, non debba essere disapplicato, posto che esso appare coerente con i parametri eurounitari evocati, con la conseguenza che non è necessario rimettere alla Corte di Giustizia europea la questione pregiudiziale posta dalle ricorrenti.
Se ne inferisce, conclusivamente, la piena rilevanza della questione di legittimità costituzionale resa oggetto della maggior parte dei motivi articolati in via principale con i due ricorsi, con la sola precisazione che il Collegio non può decidere – in uno con il deferimento della questione di legittimità costituzionale – anche il motivo di ricorso volto a denunziare il vizio autonomo del Decreto impugnato.
Ciò per due ordini di ragioni.
In primo luogo perché tale motivo è stato formulato soltanto in via subordinata rispetto alla domanda principale di annullamento incentrata sull’incostituzionalità della base legale del Decreto.
In secondo luogo perché tale vizio consiste nella supposta difformità del Decreto rispetto alla norma di legge indiziata di incostituzionalità, sicchè non può non richiamarsi il consolidato insegnamento della giurisprudenza costituzionale a rigore del quale “il carattere incidentale del giudizio di costituzionalità non consente di sollevare la questione di legittimità dopo la decisione del merito della causa, quando il suo oggetto comporti la necessaria applicazione della disposizione censurata” (cfr. ordinanze Corte Costituzionale nn. 215 del 2003, 264 del 1998, 315 del 1992; 116 del 1992; 242 del 1990).
Di qui la preclusione all’esame, nella presente fase, del merito del motivo proposto soltanto in via subordinata, avente ad oggetto il vizio autonomo del Decreto impugnato.
(2.2) Sulla non manifesta infondatezza della questione di legittimita’ costituzionale
Quanto al concorrente profilo della non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità, il Collegio ritiene opportuno ricostruire – seppur brevemente – la disciplina di legge con cui è stata introdotta l’imposta di cui si discorre, nonché le finalità che essa persegue.
Orbene, l’art. 1 della legge 27 dicembre 2019, n. 160, recante “Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2020” ha introdotto, ai commi 661 – 676, “l’imposta sul consumo delle bevande analcoliche, come definite al comma 662, di seguito denominate «bevande edulcorate»”.
L’entrata in vigore dell’imposta, come da ultimo modificata dall’art. 1, comma 12, lett. b), della legge 30 dicembre 2021, n. 234 (che ha modificato l’art. 1, comma 676, della legge n. 160/2019) è prevista per il 1° gennaio 2023.
Il comma 662 definisce le “bevande edulcorate” come “prodotti finiti e i prodotti predisposti per essere utilizzati come tali previa diluizione, rientranti nelle voci NC 2009 e 2202 della nomenclatura combinata dell’Unione europea, condizionati per la vendita, destinati al consumo alimentare umano, ottenuti con l’aggiunta di edulcoranti e aventi un titolo alcolometrico inferiore o uguale a 1,2 per cento in volume”.
Quanto invece alla definizione di “edulcorante”, la disposizione chiarisce che, “ai fini dei commi da 661 a 676, per bevande edulcorate si intende qualsiasi sostanza, di origine naturale o sintetica, in grado di conferire sapore dolce alle bevande”.
La definizione di edulcorante a cui annettere rilievo ai fini dell’imposta de qua comprende, quindi, qualsiasi sostanza aggiunta – ovviamente diversa rispetto agli zuccheri “propri” presenti in rerum natura in una bevanda – capace di conferire sapore dolce alle bibite, irrilevante essendo l’origine naturale o sintetica di tale sostanza.
L’imposta colpisce, quindi, tanto gli edulcoranti naturali quanto gli edulcoranti sintetici, con l’ulteriore precisazione che gli edulcoranti sintetici (costituenti una sottocategoria della macro-categoria “edulcoranti”) includono alcuni esemplari specifici – come ad esempio l’aspartame – rispetto ai quali il Regolamento UE 1333/2008 del Parlamento e del Consiglio dell’Unione Europea fissa la quantità massima che può essere presente in ogni litro di bevanda (a mero titolo esemplificativo la quantità massima di aspartame è pari a 600 mg/l, cfr. allegato II del summenzionato Regolamento).
Si è già visto che le bevande analcoliche incise dall’imposta sono soltanto quelle ricomprese nelle voci NC 2009 e 2202 della nomenclatura combinata dell’Unione Europea, corrispondenti rispettivamente a:
- succhi di frutta (compresi i mosti di uva) o di ortaggi e legumi, non fermentati, senza aggiunta di alcol, anche addizionati di zuccheri o di altri dolcificanti;
- acque, comprese quelle minerali e gassate, con aggiunta di zucchero o di altri dolcificanti o di aromatizzanti, e altre bevande non alcoliche, esclusi i succhi di frutta o di ortaggi della voce 2009 (v. nota esplicativa della nomenclatura combinata, emanata ai sensi dell’art. 9 del Regolamento (CEE) n. 2658/1987 del Consiglio dell’Unione europea del 23 luglio 1987).
Pertanto, l’imposta si applica alle bevande analcoliche che rientrino nelle tipologie sopra descritte, alle quali siano state aggiunte sostanze – di origine naturale o sintetica – in grado di conferire un sapore dolce e con una percentuale di alcol uguale o inferiore all’1,2% in volume.
L’imposta è fissata nella misura di “euro 10,00 per ettolitro” per i prodotti finiti, e di “euro 0,25 al chilogrammo” per i prodotti predisposti per essere utilizzati previa diluizione (comma 665).
Quanto invece all’esigibilità dell’imposta, il comma 663 prevede che l’obbligazione divenga esigibile:
a) all’atto della cessione, anche a titolo gratuito, di bevande edulcorate a consumatori nel territorio dello Stato ovvero a ditte nazionali che ne effettuino la vendita, da parte del fabbricante nazionale;
b) all’atto del ricevimento di bevande edulcorate da parte del soggetto acquirente, per i prodotti provenienti da Stati appartenenti all’Unione europea;
c) all’atto dell’importazione definitiva nel territorio nazionale, per le bevande importate da Stati non appartenenti all’Unione europea.
È prevista inoltre l’esenzione dall’imposta per le bevande edulcorate prodotte dal fabbricante nazionale che siano però destinate al consumo in altri Stati dell’Unione europea o comunque all’esportazione.
C’è infine una “soglia di dolcezza” al di sotto della quale l’imposta non si applica. Infatti, affinché una bevanda edulcorata possa considerarsi esente dall’imposta in questione, il contenuto complessivo di edulcoranti deve essere inferiore o uguale “a 25 grammi per litro” per i prodotti finiti e a 125 grammi per chilogrammo “per i prodotti predisposti ad essere utilizzati previa diluizione”.
Passando ora ad esaminare le finalità per le quali è stata introdotta l’imposta de qua, la relazione illustrativa al disegno di legge di bilancio integrato 2020-2022 (Atti parlamentari, Senato della Repubblica, n. 1586) chiarisce quanto segue:
- l’imposta in questione “risulta essere già applicata in altri Stati dell’Unione europea con la finalità principale di limitare, attraverso la penalizzazione fiscale, il consumo di bevande che hanno un elevato contenuto di sostanze edulcoranti aggiunte. Il consumo elevato di tali bevande comporta, infatti, un sistematico apporto ulteriore di zuccheri nella dieta giornaliera degli individui, comportando un aumento potenziale di fenomeni quali l’aumento dell’obesità media della popolazione e la diffusione di malattie come il diabete. Come riferisce l’Organizzazione Mondiale della Sanità (World Health Organization) nel suo rapporto del 2015, dal titolo “Le politiche fiscali per la dieta e la prevenzione delle malattie non trasmissibili”, la riduzione del consumo di bevande zuccherate determinerebbe un calo nell’assunzione di zuccheri liberi e calorie complessive e potrebbe generare, nel tempo, una riduzione dei tassi di sovrappeso e obesità oltre che di carie e di diabete”;
- quanto alla logica sottesa alla decisione di tassare non soltanto gli edulcoranti naturali ma anche quelli artificiali (pur essendo questi ultimi ipocalorici), “occorre sottolineare che una tassazione selettiva delle bevande contenenti zuccheri aggiunti che non riguardasse anche le bevande contenenti dolcificanti di sintesi, sposterebbe immediatamente le preferenze di consumo su queste ultime bevande, con ripercussioni sia sulla salute, per l’aumento del consumo di dolcificanti sintetici che, sull’economia, in relazione allo spostamento della domanda del mercato dagli zuccheri ai prodotti dolcificanti sintetici”, con l’ulteriore precisazione che “la mera sostituzione, nelle bevande in parola, di dolcificanti di origine naturale con sostanze edulcoranti di origine sintetica, pur comportando un abbattimento evidente dell’apporto di zuccheri (e quindi di energia) nell’ambito della dieta giornaliera, avrebbe l’effetto di incentivare l’uso smisurato di tali sostanze sintetiche che può avere effetti collaterali sugli individui. Le sostanze dolcificanti sintetiche in questione sono, infatti, da considerarsi sicure purché consumate esclusivamente nell’ambito delle dosi massime giornaliere consigliate”;
- l’imposta mira sostanzialmente a colpire indistintamente le “bevande che contengono dolcificanti aggiunti, qualunque ne sia l’origine, escludendo da tale imposta le sole bevande che contengano zuccheri “propri” e lasciando esenti dal tributo stesso, come stabilito dal successivo comma 6, quelle in cui l’aggiunta di dolcificanti sia assai modesta in quanto finalizzata esclusivamente a “perfezionare” il gusto delle bevande. Con il comma 2 dell’articolo in commento si intende definire l’ambito applicativo sopra accennato utilizzando le voci della nomenclatura combinata in uso nell’Unione europea al fine di una maggiore precisione e chiarezza. L’imposta sarà quindi applicabile esclusivamente su quelle bevande (e su quei prodotti concentrati realizzati per essere consumati successivamente alla opportuna diluizione), destinate al consumo alimentare umano, nelle quali i suddetti prodotti dolcificanti siano stati aggiunti a quelli eventualmente presenti, per natura, nella bevanda stessa”.
In sintesi, quindi, lo scopo principale del prelievo fiscale de quo è quello di ridurre – attraverso la disincentivazione del consumo di bevande analcoliche contenenti sostanze edulcoranti naturali ed artificiali (id est sostanze aggiuntive rispetto agli zuccheri “propri” già presenti in rerum natura nella bevanda) – la diffusione dell’obesità e del diabete, nonché l’eccessivo utilizzo di sostanze edulcoranti sintetiche, avendo queste ultime effetti collaterali dannosi per la salute dell’uomo.
Chiariti gli scopi perseguiti dal legislatore, il Collegio ritiene necessario selezionare – al cospetto di un’ampia gamma di profili di incostituzionalità sollevati dalle ricorrenti – quali di questi profili appaiono prima facie non manifestamente infondati e quali, invece, privi di fondamento.
Non senza prima osservare che il principale parametro di costituzionalità invocato nei motivi di gravame è quello dell’art. 3 della Costituzione (talvolta in combinato disposto con gli artt. 41 e 53 Cost.), nella sua duplice accezione di principio di eguaglianza tributaria e di principio di proporzionalità.
Per quel che concerne il principio di proporzionalità - inteso nella sua composizione “trifasica” di idoneità, necessità e proporzionalità in senso stretto - il Collegio non ravvisa i presupposti di una sua concreta violazione nel caso di specie.
Quanto al profilo dell’idoneità, infatti, va osservato che:
(i) non appare condivisibile l’assunto delle ricorrenti secondo cui non esisterebbe in Italia alcuna reale esigenza di ridurre il consumo di bevande c.d. “soft drink” (consumo pari a circa 50 litri pro capite all’anno, uno dei più bassi a livello europeo). Ed infatti, la circostanza che detto consumo sia – in un’ottica “comparatistica” – piuttosto basso in Italia rispetto ad altri paesi stranieri, non significa che il legislatore non possa comunque scegliere, nell’esercizio della propria discrezionalità politica, di voler ridurre ulteriormente tale consumo e di imprimere un’accelerazione maggiore al processo di flessione già in atto, nell’ottica precauzionale di preservare al meglio la salute pubblica. Del resto, lo scopo ultimo e mediato – al lume del quale valutare l’idoneità dell’imposta – non è tanto la riduzione del consumo di bevande analcoliche, quanto piuttosto la diminuzione di certe patologie, diminuzione che ben può realizzarsi “accelerando” il processo di contrazione della domanda di dette bevande;
(ii) ugualmente non condivisibile è l’assunto per cui non vi sarebbe alcun nesso di efficienza causale tra l’introduzione della “sugar tax” e la riduzione delle summenzionate patologie (id est obesità, diabete ed effetti collaterali dannosi degli edulcoranti sintetici). Ciò in quanto gli studi scientifici ed economici versati in atti attestano che l’introduzione della “sugar tax” – riversando i propri effetti sul prezzo finale – impatta indiscutibilmente sulla domanda del prodotto, la cui curva è connotata da un elevatissimo tasso di “elasticità” rispetto alle variazioni dei prezzi. È quindi incontestabile che la misura impositiva de qua riduca la domanda - e dunque il consumo - delle bevande analcoliche. Ovviamente il Collegio è ben consapevole che non esiste alcuna “equazione” automatica tra minor consumo di bevande zuccherate e riduzione delle patologie associate a tali bevande. Cionondimeno, la correlazione causale tra eccesso di zuccheri aggiunti e patologie come diabete e obesità - nonché tra eccesso di zuccheri sintetici ed effetti collaterali dannosi ad essi collegati (gli stessi effetti per i quali il Regolamento UE n. 1333/2008 ha già fissato dosi massime di edulcoranti sintetici) - costituisce un fatto notorio, sicchè un qualunque prelievo fiscale avente finalità disincentivante del consumo di prodotti contenenti zuccheri aggiunti è indubitabilmente idoneo a concorrere alla lotta a tali patologie. Né possono invocarsi – a sostegno della tesi secondo cui la “sugar tax” sarebbe inutile – i dati comparatistici del Messico (in cui l’introduzione di detta misura non sembra aver inciso sui dati relativi al tasso di obesità e diabete) e della Danimarca (dove l’imposta è stata soppressa nel 2012). Ciò sia perché l’unicità di questi dati osta ad una loro sovraestimazione e traslazione su scala transnazionale, sia perché esiste sul fronte opposto un ben maggior numero di paesi stranieri che hanno, invece, conservato la sugar tax;
(iii) parimenti non condivisibile è la tesi che – partendo dalla natura ipocalorica degli edulcoranti sintetici – esclude qualsiasi correlazione causale tra tassazione di detti edulcoranti e l’obiettivo politico di riduzione dell’obesità e del diabete. Questa tesi trascura il fatto che lo scopo della sugar tax non è soltanto quello della lotta all’obesità e al diabete, ma anche quello della lotta a tutti gli effetti collaterali dannosi (autonomi e distinti rispetto alle summenzionate patologie) derivanti da un uso eccessivo di edulcoranti sintetici. Effetti collaterali dannosi della cui esistenza non è possibile dubitare scientificamente, atteso che proprio per limitarli è stato adottato il Regolamento UE n. 1333/2008, il quale per l’appunto fissa le dosi massime consentite di edulcoranti sintetici;
(iv) ugualmente non condivisibile, infine, è la tesi secondo cui la tassazione degli edulcoranti sintetici sarebbe inidonea allo scopo in quanto dette sostanze già soggiacciono ad un altro tipo di limitazione di per sé risolutiva, ossia la fissazione a livello eurounitario di “limiti massimi di impiego per ogni categoria alimentare”. Questa tesi trascura il fatto che detti limiti quantitativi assicurano la non eccedenza di edulcoranti sintetici all’interno del singolo prodotto messo in commercio, ma non garantiscono affatto la non eccedenza (rectius: modicità) del consumo individuale di prodotti contenenti edulcoranti sintetici da parte del singolo consumatore, il quale ben potrebbe acquistarne delle quantità spropositate. Orbene, l’imposta di cui si discorre va proprio ad intervenire sul consumo, cercando di orientarlo e limitarlo, in tal senso palesandosi pienamente idonea rispetto allo scopo che si è prefissata.
Passando ad esaminare poi le due ulteriori declinazioni del principio di proporzionalità (id est necessità e proporzionalità in senso stretto), anch’esse non sembrano violate, atteso che:
(i) la documentazione in atti non fa emergere la presenza di alcuna omologa misura che – a parità di efficacia (e cioè di equivalente incidenza sulla curva di domanda di bevande analcoliche contenenti zuccheri aggiunti) – produca minori sacrifici a carico delle aziende produttrici e dei consumatori. E ciò a maggior ragione ove si consideri che – come risulta dallo studio di Nomisma prodotto dalle stesse ricorrenti (cfr. pag. 76) – l’entità economica del prelievo (10 euro/hl) è significativamente inferiore rispetto a quella di altri ordinamenti europei (Regno Unito 20 euro/hl; Irlanda 20 euro/hl; Norvegia 44 euro/hl);
(ii) non può essere positivamente apprezzata la tesi secondo cui il legislatore avrebbe potuto fissare una “soglia di dolcezza” minima (al di sotto della quale escludere l’incidenza della sugar tax) più elevata rispetto a quella concretamente individuata, in modo da rendere meno invasivo ed esteso il prelievo fiscale di cui si discorre. Tale obiezione si risolve nella censura di un atto di esercizio della discrezionalità politica del legislatore, atto rispetto al quale il Collegio non ravvisa quei profili di patente arbitrarietà e/o irragionevolezza che, soli, potrebbero sfociare in un giudizio di non manifesta infondatezza della supposta violazione dell’art. 3 Cost. (sub specie di proporzionalità). E ciò a maggior ragione ove si consideri che la surriferita “soglia di dolcezza” minima corrisponde al limite stabilito dall’Allegato al Regolamento CE n. 1924/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 dicembre 2006, adottato proprio allo scopo di individuare le bevande che - secondo il medesimo Regolamento - possono essere considerate aventi un basso tenore di zuccheri e recare quindi l’indicazione “a basso contenuto di zuccheri”;
(iii) né appaiono risolutive – al fine di escludere i requisiti della necessità e proporzionalità in senso stretto della misura fiscale de qua – le prospettate ricadute economiche negative di tale misura. Quest’ultima rientra, infatti, nel paradigma – già ben noto al nostro ordinamento – delle imposte sul consumo con finalità extrafiscali disincentivanti (si pensi, a mero titolo esemplificativo, alle imposte sui tabacchi lavorati, all’imposta sui prodotti da inalazione senza combustione costituiti da sostanze liquide, ai tributi ambientali, etc.), imposte la cui ratio essendi consiste proprio nel perseguire un interesse pubblico ben definito - nel caso di specie quello alla tutela della salute pubblica - a potenziale discapito di altri diritti astrattamente confliggenti, in primis la libertà di iniziativa economica ex art. 41 Cost. Diritti, questi ultimi, il cui esercizio ben può essere indirizzato e coordinato dal legislatore statale “a fini sociali”, ma giammai precluso o comunque radicalmente inciso sino ad eliderne le sue principali forme di manifestazione.
Orbene, il Collegio ritiene che le limitazioni della libertà d’iniziativa economica lamentate dalle società ricorrenti – in tesi discendenti dalla prospettata entrata in vigore dell’art. 1, commi 661-676, della legge 27 dicembre 2019, n. 160 – rientrino nel novero delle fisiologiche ed ordinarie conseguenze di qualsiasi norma impositiva avente finalità disincentivanti, esprimendo quindi un giusto punto di contemperamento tra diritto alla salute e diritto di impresa, senza che quest’ultimo possa dirsi radicalmente eliso o rimosso.
Ritiene il Collegio, pertanto, che la prospettata violazione del principio di proporzionalità (ed anche della libertà di iniziativa economica ex art. 41 della Costituzione) debba essere esclusa.
Né appare fondata la censura di irragionevolezza della disciplina di legge de qua, censura con cui S. S.r.l. si duole – sempre attraverso il richiamo all’art. 3 della Costituzione – in primis di una presunta contraddittorietà tra finalità disincentivante del prelievo fiscale e correlativo scopo erariale, ed in secundis di un’eccessiva penalizzazione del produttore/fabbricante a cui non farebbe riscontro un egual sacrificio del consumatore (così vanificando lo scopo disincentivante sotteso al tributo).
Sotto il primo profilo, infatti, la censura trascura il fatto che lo scopo assolutamente prevalente e preponderante dell’imposta de qua è quello disincentivante. La stima preventiva degli introiti del prelievo fiscale, così come formulata nella relazione illustrativa al disegno di legge, lungi dall’assegnare alla “sugar tax” qualsiasi funzione erariale equi-ordinata rispetto a quella disincentivante, ha invece solo lo scopo di identificare l’impatto finanziario della misura. Il che non comporta, com’è evidente, alcuna trasmutazione “genetica” dell’originaria finalità prevalente del tributo, che è per l’appunto quella extra-fiscale di contrasto di specifiche patologie.
Sotto il secondo profilo, la censura si infrange nei plurimi studi e documenti – ritualmente versati in atti dalle stesse ricorrenti – attestanti l’elevatissima elasticità della domanda di bevande zuccherate rispetto a qualsiasi nuova imposta gravante sul produttore o fabbricante, essendo quest’ultima traslata economicamente sul consumatore finale.
Il Collegio ritiene, pertanto, che la censurata violazione del principio di ragionevolezza – per come prospettata da S. S.r.l. – non raggiunga la soglia di non manifesta infondatezza richiesta ai fini dell’incidente di costituzionalità.
Quanto alla prospettata violazione del principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 della Costituzione, la censura omette di considerare che l’imposta de qua – lungi dall’essere commisurata “alla quantità di edulcorante naturale o sintetico” (cfr. pag. 17 del ricorso introduttivo di S. S.r.l.) – è invece parametrata alla quantità dell’intero prodotto messo in commercio (10 centesimi di euro per ogni litro di bevanda, nonché 0,25 euro per ogni chilogrammo di prodotto concentrato), sicchè essa appare rispettosa della concezione “relativa” di capacità contributiva ormai consolidatasi nella giurisprudenza costituzionale, a rigore della quale il potere impositivo può colpire anche fatti non patrimoniali, purchè naturalmente rilevabili e misurabili in denaro (come per l’appunto sarebbe la quantità di bevanda analcolica immessa in commercio).
Ritiene il Collegio, pertanto, che la prospettata violazione del principio di capacità contributiva strettamente inteso debba essere esclusa.
Diversamente è a dirsi, invece, per il principio di eguaglianza tributaria.
Il Collegio reputa, infatti, che l’imposta in questione entri in frizione con il combinato disposto degli artt. 53 e 3 della Costituzione, ovverosia sotto il profilo del principio di eguaglianza tributaria in base al quale “a situazioni eguali devono corrispondere uguali regimi impositivi e, correlativamente, a situazioni diverse un trattamento tributario diseguale” (Corte cost., 6.7.1972, n. 120).
Prima di evidenziare meglio tale contrasto, tuttavia, va premesso che l’applicazione delle accise e, più in generale, delle imposte sui consumi, può avere non solo funzione di gettito fiscale, ma anche scopi extrafiscali strumentali a scelte di carattere politico – economico.
La finalità delle imposte speciali sui consumi può essere in particolare quella di disincentivare il consumo di beni che generano esternalità negative a danno della collettività, ovvero soltanto quella di aumentare le entrate pubbliche senza eccessivi costi di accertamento e di riscossione.
Sul piano economico, e dal punto di vista della equità distributiva, esse hanno effetti regressivi o progressivi a seconda delle tipologie di consumo e della elasticità delle curve di domanda e di offerta.
Non va dimenticato, inoltre, il consolidato insegnamento della Corte Costituzionale secondo cui legislatore ordinario può assumere, quali soggetti passivi di imposta idonei a concorrere alle pubbliche spese, anche coloro che pongono in essere presupposti aventi una rilevanza economico-sociale, ma non necessariamente anche patrimoniale.
L’importante è che tali presupposti siano oggettivamente rilevabili, si prestino ad essere comparati con altre situazioni fiscalmente rilevanti e siano pur sempre misurabili economicamente. Ad esempio, secondo Corte Cost. n. 102/93, che richiama la sentenza n. 201 del 1975, per capacità contributiva “deve intendersi l’idoneità soggettiva all’obbligazione d’imposta, deducibile dal presupposto al quale la prestazione è collegata senza che spetti al giudice della legittimità delle leggi alcun controllo, se non, ovviamente, sotto il profilo dell’assoluta arbitrarietà o irrazionalità delle norme”.
In tali pronunce (ma cfr. anche 16 giugno 1964, n. 45, 28 luglio 1976, n. 200, 11 luglio 1989, n. 387) si afferma che il principio di capacità contributiva risponde all’esigenza di garantire che ogni prelievo tributario abbia causa giustificatrice in “indici concretamente rilevatori di ricchezza” dai quali sia “razionalmente deducibile l’idoneità soggettiva all’obbligazione d’imposta”. Queste sentenze vanno poi lette in sintonia con quelle che riconoscono la legittimità costituzionale di presupposti che esprimono una capacità contributiva in termini di mera potenzialità economica.
Ad esempio, secondo la sentenza n. 156/2001 (in materia di Irap), “rientra nella discrezionalità del legislatore, con il solo limite della non arbitrarietà, la determinazione dei singoli fatti espressivi della capacità contributiva che, quale idoneità del soggetto all’obbligazione di imposta, può essere desunta da qualsiasi indice che sia rivelatore di ricchezza e non solamente dal reddito individuale (sentenze n. 111 del 1997, n. 21 del 1996, n. 143 del 1995, n. 159 del 1985)”.
In pratica, l’art. 53, comma 1, viene applicato dalla Corte Costituzionale in maniera congiunta con l’art. 3, “assumendo il principio di uguaglianza quale regola fondamentale ed autosufficiente di congruità che prevale su ogni altra regola attinente ai criteri di riparto dei carichi pubblici”.
Secondo tale giurisprudenza, e la dottrina cui si ispira, il legislatore “deve operare il riparto del carico pubblico secondo i criteri di coerenza interna, non contraddittorietà, adeguatezza e non arbitrarietà assicurando che a situazioni di fatto uguali corrispondano uguali regimi impositivi e, correlativamente, a situazioni diverse corrisponda un trattamento tributario diseguale”.
Ritornando al caso di specie, quindi, il Collegio ritiene che la disciplina di legge introdotta dall’art. 1, commi 661-676, della legge n. 160/2019, sembra contrastare con il principio di eguaglianza tributaria – così come risultante dal combinato disposto degli artt. 3 e 53 della Costituzione – laddove va a colpire fiscalmente le sole bevande analcoliche contenenti sostanze edulcoranti eccedenti una certa soglia, e non anche gli altri prodotti alimentari (diversi dalle bevande) aventi le medesime sostanze.
Viene in questo modo introdotta, infatti, una differenziazione di trattamento fiscale a supporto della quale non viene fornito alcun criterio oggettivo che possa giustificarla.
In particolare, se è vero come è vero che la c.d. “sugar tax” è un tributo introdotto con finalità extra-fiscale disincentivante (in quanto avente lo scopo di contrastare – incidendo sul consumo di certi prodotti – il fenomeno dell’obesità e del diabete, nonché la diffusione degli effetti collaterali dannosi degli edulcoranti sintetici), e assodato che la scelta legislativa di realizzare un certo obiettivo di salute pubblica è tendenzialmente insindacabile (salvo il limite della manifesta irragionevolezza), è altrettanto vero che in base al principio di ragionevolezza ed uguaglianza il legislatore deve spiegare il perché tale obiettivo vada perseguito “colpendo” soltanto gli edulcoranti contenuti nelle bevande analcoliche, e non anche i medesimi edulcoranti contenuti negli altri prodotti alimentari diversi dalle bevande.
Il principio di eguaglianza tributaria – così come costantemente interpretato dalla giurisprudenza costituzionale – postula che a fronte di un’imposta avente una finalità extra-fiscale disincentivante, debba essere adeguatamente motivata tanto la scelta legislativa di tassare in egual misura due o più fattispecie imponibili apparentemente diverse, quanto l’opposta scelta di tassare in misura diversa due fattispecie imponibili apparentemente uguali.
Si pensi, nel primo senso, alla sentenza della Corte Costituzionale n. 83 del 2015, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di una normativa che tassava in egual misura due fattispecie – rispettivamente quella dei tabacchi lavorati e quella dei prodotti non contenenti nicotina idonei a sostituire il consumo dei tabacchi lavorati (ad esempio i liquidi aromatizzati delle sigarette elettroniche) – obiettivamente diverse tra loro, la prima ricadente prima facie nel campo di applicazione della finalità disincentivante, la seconda invece no (in quell’occasione il Giudice delle leggi si espresse con le seguenti parole: “la violazione del parametro di cui all’art. 3 Cost. va ravvisata nell’intrinseca irrazionalità della disposizione che assoggetta ad un’aliquota unica e indifferenziata una serie eterogenea di sostanze, non contenenti nicotina, e di beni, aventi uso promiscuo. Infatti, mentre il regime fiscale dell’accisa con riferimento al mercato dei tabacchi, trova la sua giustificazione nel disfavore nei confronti di un bene riconosciuto come gravemente nocivo per la salute e del quale si cerca di scoraggiare il consumo, tale presupposto non è ravvisabile in relazione al commercio di prodotti contenenti «altre sostanze», diverse dalla nicotina, idonee a sostituire il consumo del tabacco, nonché dei dispositivi e delle parti di ricambio che ne consentono il consumo. Appare quindi del tutto irragionevole l’estensione, operata dalla disposizione censurata, del regime amministrativo e tributario proprio dei tabacchi anche al commercio di liquidi aromatizzati e di dispositivi per il relativo consumo, i quali non possono essere considerati succedanei del tabacco”).
In senso esattamente inverso, si pensi alla sentenza della Corte Costituzionale n. 201 del 2014, che aveva respinto la questione di legittimità costituzionale della disposizione di legge con cui veniva introdotto – nel contesto della crisi finanziaria internazionale del 2011 coinvolgente il mondo delle banche – un prelievo fiscale aggiuntivo a carico dei soli dirigenti nel settore finanziario (e non anche a carico dei dirigenti di settori merceologici diversi).
In quel caso, la diversa “regola fiscale” applicata a due categorie di soggetti apparentemente omogenee (id est da un lato la regola del prelievo aggiuntivo a carico dei dirigenti del settore finanziario, dall’altro lato la regola di nessun prelievo aggiuntivo a carico dei dirigenti degli altri settori) trovava spiegazione nel fatto che detto prelievo aggiuntivo avrebbe prodotto un reale effetto disincentivante soltanto se applicato ai soli dirigenti del settore finanziario, e non anche ai dirigenti degli altri settori merceologici (in quell’occasione il Giudice delle leggi si è espresso, infatti, con le seguenti parole: “la norma, infatti, inasprendo il prelievo fiscale, rappresenta un disincentivo per le prassi retributive che possono avere l’effetto di condurre all’assunzione di rischi eccessivi di breve termine da parte della categoria di contribuenti sottoposta al prelievo. Questi ultimi, in ragione del tasso di professionalità, della autonomia operativa, del potere decisionale di cui godono e dell’aspirazione a maggiori guadagni personali (per il legame tra l’andamento del titolo da un lato ed il riconoscimento e l’ammontare del beneficio correlato a dette forme di compenso dall’altro), sono in grado di porre in essere attività speculative suscettibili di pregiudicare la stabilità finanziaria. Un rischio di questo genere non ricorre per l’attività degli altri contribuenti che vengono retribuiti in modo analogo ma non hanno la stessa possibilità di incidere, con il loro operato, sulla stabilità dei mercati finanziari. Pertanto, da un lato, la scelta disincentivante del legislatore è tutt’altro che irragionevole o arbitraria e, dall’altro, non è ingiustificata la limitazione al solo «settore finanziario» della platea dei soggetti passivi sottoposti al prelievo addizionale”).
Orbene, nel caso di specie la diversa “regola fiscale” applicata a due fattispecie apparentemente omogenee (id est da un lato l’imposizione della “sugar tax” alle bibite contenenti edulcoranti, dall’altro lato la mancata imposizione della “sugar tax” agli altri prodotti alimentari diversi dalle bevande contenenti i medesimi edulcoranti) non trova alcuna giustificazione né nel testo della legge, né nella relazione illustrativa del disegno di legge, e ciò in spregio del fatto che il fine ultimo di tale prelievo (id est quello di contrastare l’obesità, il diabete e il consumo di sostanze edulcoranti sintetiche) ben avrebbe potuto realizzarsi incidendo anche sui prodotti alimentari diversi dalle bevande analcoliche.
Valga infine soggiungere, per completezza, che il Collegio non ravvisa invece alcuna violazione del principio di eguaglianza tributaria nel mero fatto che la “sugar tax” si applichi indistintamente sia agli edulcoranti naturali che a quelli sintetici.
Ciò in quanto la finalità disincentivante, come già visto, è predicabile sia per i primi che per i secondi, stante l’obiettivo legislativo di contrastare non soltanto le patologie associate agli edulcoranti naturali (obesità e diabete) ma anche gli altri effetti nocivi correlati all’eccessivo consumo di edulcoranti sintetici.
Quanto sopra argomentato giustifica la valutazione di rilevanza e non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale - in relazione agli articoli 3 e 53 della Costituzione - dell’art. 1, commi 661-676, della legge 27 dicembre 2019, n. 160, nella parte in cui ha assoggettato ad imposta sul consumo i soli prodotti rientranti nelle voci NC 2009 e 2202 della nomenclatura combinata dell’Unione europea (ossia certe bevande analcoliche) ottenuti con l’aggiunta di edulcoranti, e non anche altri prodotti alimentari diversi dalle bevande ma parimenti contraddistinti dall’aggiunta dei medesimi edulcoranti.
Si rende conseguentemente necessaria la sospensione del giudizio ai sensi dell’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 e la rimessione degli atti alla Corte Costituzionale affinché si pronunci sulla questione.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sede di Roma, Sezione Seconda, non definitivamente pronunciando sui ricorsi di cui in premessa, nonché riuniti gli stessi, così dispone:
1) dichiara rilevante e non manifestamente infondata – in relazione agli articoli 3 e 53 della Costituzione – la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 661-676, della legge 27 dicembre 2019, n. 160, nella parte in cui ha assoggettato ad imposta sul consumo i soli prodotti rientranti nelle voci NC 2009 e 2202 della nomenclatura combinata dell’Unione europea (ossia le bevande analcoliche) ottenuti con l’aggiunta di edulcoranti, e non anche altri prodotti alimentari diversi dalle bevande ma parimenti contraddistinti dall’aggiunta di edulcoranti;
2) dispone la sospensione dei due giudizi e ordina l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale;
3) rinvia ogni ulteriore statuizione in rito, nel merito e sulle spese di lite all’esito del giudizio incidentale promosso con la presente pronuncia;
4) ordina che, a cura della Segreteria della Sezione, la presente ordinanza sia notificata alle parti costituite e al Presidente del Consiglio dei Ministri, nonché comunicata ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica.