Nel caso di specie, la società sostiene il nesso causale tra la condotta dell'Agenzia delle Entrate e il danno rappresentato dall'indebito versamento dell'IVA.
Una società propone istanza di rimborso dell'
Svolgimento del processo
1. La società B. B. S.p.a. propose, in data 31 marzo 2006, istanza di rimborso dell'Iva deducendone l'indebito versamento, per gli anni dal 1998 al 2004, in relazione ad operazioni di cessioni gratuite di campioni sanitari di modico valore, non considerate cessioni di beni e, di conseguenza, non assoggettate ad Iva, in forza del disposto di cui all'art. 2, comma 3, lett. d), d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633.
Evidenziò che:
- a tale versamento era stata indotta dalla risposta fornita dalla stessa Amministrazione finanziaria (resa in data 3 agosto 2000 e confermata con successiva comunicazione del 2 marzo 2001) a specifico interpello, con la quale l'Ufficio aveva affermato l'assoggettabilità ad IVA delle suddette operazioni;
- con successiva risoluzione n. 83/E del 3 aprile 2003, l'Ufficio aveva mutato orientamento, stabilendo che tali cessioni erano da ritenersi non assoggettabili ad IVA, ai sensi della succitata disposizione;
- aveva, quindi, proposto nuovo interpello, in risposta al quale l'Agenzia delle entrate, confermando la risoluzione n. 83/E, aveva dichiarato, con parere espresso in data 8 novembre 2004, che le operazioni in questione erano escluse dal campo di applicazione dell'Iva.
2. L'istanza di rimborso venne respinta dall'Ufficio, con distinti atti di diniego per ciascuna annualità, in quanto proposta oltre il termine biennale di decadenza di cui all'art. 21 d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, essendo stata avanzata solo in data 31 marzo 2006 a fronte di un ultimo versamento risalente al mese di gennaio del 2004.
3. Il ricorso proposto avanti il giudice tributario avverso tali provvedimenti venne accolto dalla C.T.P., con decisione confermata in appello.
4. Su ricorso dell'Agenzia la sentenza della C.T.R. venne cassata dalla S.C. con sentenza n. 20526 del 06/09/2013, la quale affermò il principio secondo cui «la risposta all'interpello del contribuente, da parte dell'Amministrazione finanziaria, ai sensi della L. n. 212 del 2000, art. 11, e l'essersi il contribuente conformato a indicazioni contenute in atti dell'Amministrazione finanziaria, ai sensi dell'art. 1O della stessa legge, non valgono ad integrare un titolo per la restituzione dell'IVA versata indebitamente, autonomo ed ulteriore rispetto a quello legale, ovverosia a quello fondato, nel caso di specie, sulla previsione del d.P.R. n. 633 del 1972, art. 2, comma 3, lett. d)». La causa venne quindi rinviata alla C.T.R. con il mandato di provvedere «altresì, all'esame delle questioni relative al dedotto obbligo risarcitorio dell'Amministrazione per condotta illecita nei confronti della contribuente, ai sensi dell'art. 2043 c.c., ovvero indennitario per indebito arricchimento ai danni della medesima, ai sensi dell'art. 2041 c.c., proposte dalla B. B. s.p.a. nei· gradi di merito».
5. La Commissione Tributaria Regionale in sede di rinvio rigettò il ricorso tributario per la ritenuta decadenza dal diritto al rimborso e dichiarò il proprio difetto di giurisdizione sulla domanda risarcitoria ex art. 2043 e su quella, ulteriormente subordinata, indennitaria ex art. 2041 cod. civ..
6. Per tali domande B.B. adì quindi, con atto di riassunzione ex art. 59 legge 18 giugno 2009, n. 69, il Tribunale ordinario di Milano, il quale accolse la prima, condannando la pubblica amministrazione al pagamento della somma di € 1.071.107,08 a titolo di risarcimento del danno ex art. 2043 c.c., oltre interessi legali dalle scadenze al saldo.
7. In accoglimento del gravame interposto dall'Agenzia delle entrate, ed in integrale riforma della sentenza di primo grado, la Corte d'appello di Milano ha invece rigettato ia la domanda risarcitoria (per il ritenuto difetto di condotte illecite e di nesso di causa tra la condotta dell'Amministrazione e il danno patito) sia quella, in subordine riproposta, di indennizzo ex art. 2041 cod. civ. (per la ritenuta mancanza del presupposto della sussidiarietà).
Avverso tate sentenza la B.B. S.p.a. propone ricorso per cassazione con tre mezzi, cui resiste l'amministrazione intimata depositando controricorso.
8. La causa è stata fissata per l'udienza del 15 giugno 2022, in vista della quale il P.M. ha depositato le conclusioni, con le quali ha chiesto il rigetto del ricorso.
La ricorrente ha depositato memoria.
9. A causa di sopravvenuto impedimento del consigliere relatore la causa è stata rinviata a nuovo ruolo ed è stata quindi fissata per l'odierna udienza pubblica, con decreto del quale è stata data comunicazione alle parti.
Motivi della decisione
1. Si dà preliminarmente atto che per la decisione del presente ricorso, fissato per la trattazione in pubblica udienza, questa Corte ha proceduto in camera di consiglio, senza l'intervento del procuratore generale e dei difensori delle parti, ai sensi dell'art. 23, comma 8-bis, ci.I. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito dalla legge 18 dicembre 2020,
n. 176, in combinato disposto con l'art. 16, comma 1, d.l. 30 dicembre 2021, n. 228 ( che ne ha prorogato l'applicazione alla data del 31 dicembre 2022), non avendo alcuna delle parti né il Procuratore Generale fatto richiesta di trattazione orale.
2. Con il primo motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all'art. 360, comma primo, num. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 cod. civ., degli artt. 1175 e 1375 cod. civ., dell'art. 10 legge 27 luglio 2000, n. 212, e degli artt. 97 e 98 Cost..
Censura la sentenza d'appello:
a) sia per aver ritenuto che le risposte date dall'amministrazione alle richieste/interpelli non integrassero condotta illecita (commissiva), in quanto «meri atti interlocutori, privi delle caratteristiche di definitività del provvedimento amministrativo conclusivo di un procedimento specifico», in relazione ai quali, dato il «valore meramente consultivo», «non è configurabile una violazione di norme specifiche da parte dell'Amministrazione che possa connotare la condotta come colposa»;
b) sia per avere parimenti ritenuto non configurare condotta omissiva colposa la mancata restituzione in autotutela delle somme indebitamente incamerate, in mancanza di un obbligo di agire in tal senso in capo alla P.A.;
c) sia, infine, per avere escluso la sussistenza di nesso causale tra la condotta della P.A. e il danno rappresentato dal versamento di un'imposta indebita, in quanto interrotto dalla mancata richiesta di rimborso nelle forme e nei termini previsti dalla legge.
2.1. Sotto il primo profilo la ricorrente rileva, sulla scorta di citazioni giurisprudenziali, che «la responsabilità della P.A. per illecito extracontrattuale è astrattamente configurabile anche nella diffusione di informazioni inesatte, in quanto lede la posizione (meritevole di tutela) del privato in contatto con la P.A. di affidamento nella stessa, tenuto conto che questa deve ispirare la propria azione a regole di correttezza, imparzialità e buon andamento (art. 97 Cost.)» e rimarca che, nella specie, è stata proprio la stessa Agenzia delle Entrate, per sua ammissione, a riconoscere, nel parere dell'8 novembre 2004, l'erroneità dei primi due pareri forniti a seguito delle istanze di interpello presentate nel 2000 e nel 2001, erroneità determinata da imperizia o negligenza nell'esaminare la normativa di riferimento.
2.2. Sotto il secondo profilo deduce che la motivazione addotta dalla Corte d'appello viola «qualsiasi generale massima d'esperienza», il «principio di leale collaborazione ex art. 10 legge 212/2000», i «generali canoni ispiratori sanciti dalla Carta Costituzionale agli artt. 97 e 98», «quelli statuiti dagli artt. 1175 e 1375 cod. civ.», il consolidato insegnamento relativo alla soggezione, anche della P.A., al principio del neminem laedere.
Essa, inoltre, si porrebbe in contrasto con il principio affermato da Cass. n. 6283 del 2012 secondo cui «le regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione impongono alla P.A., una volta informata dell'errore in cui è incorsa, di compiere le necessarie verifiche e poi, accertato l'errore, di annullare il provvedimento», e ciò «anche allorché il contribuente (... ) abbia lasciato scadere il termine utile per impugnare il provvedimento avanti alla Commissione tributaria e, quindi, sia stato costretto ad affidarsi all'autotutela della P.A.».
2.3. Sotto il terzo profilo, infine, lamenta che, attribuendo efficacia interruttiva del nesso causale alla mancata tempestiva richiesta di rimborso, la Corte d'appello ha sovrapposto il piano della tutela tributaria a quello della tutela risarcitoria azionata nel presente procedimento, nella quale occorre valutare la sussistenza dei presupposti (non del diritto al rimborso ma) del risarcimento dei danni ai sensi dell'art. 2043 cod. civ..
Afferma essere evidente il nesso tra il fatto dell'Agenzia delle entrate ed il danno subito, avendo questa corrisposto negli anni, a titolo di Iva, l'importo di euro 1.071.107,08 solo ed esclusivamente in considerazione dei pareri resi dall'Agenzia rispettivamente nel 2000 e nel 2001, come dimostra il fatto che, quando l'Ufficio, con il parere del 2004, ha ritenuto che le cessioni effettuate fossero «fuori campo Iva», la società, nonostante abbia continuato ad effettuarle, non ha più corrisposto somma alcuna all'Erario. Sostiene che proprio a causa dei fuorvianti e fallaci pareri la società è incorsa nel termine decadenziale biennale stabilito dall'art. 21 d.lgs. n. 546 del 1992.
3. Il motivo è in parte inammissibile, in altra parte infondato.
L'inammissibilità va affermata con riferimento alle censure che investono il primo dei temi trattati nella sentenza d'appello, quello cioè della configurabilità di una condotta commissiva colposa causativa del danno, rappresentata dalla erroneità delle risposte date ai primi due interpelli, in tesi tali da indurre la società all'erroneo versamento dell'Iva.
Al riguardo deve invero rilevarsi, in via assorbente per lo specifico tema, che, alla stregua di quanto esposto dalla stessa ricorrente (e come conferma anche la lettura del provvedimento), la sentenza di primo grado accolse la domanda risarcitoria rinvenendone il fondamento nella mancata restituzione delle somme versate, in quanto condotta omissiva qualificata da colpa consistita nella consapevolezza ( «quanto meno in relazione alla fase procedimentale successiva alla emissione del provvedimento del 27/10/2004») del carattere indebito dei versamenti.
Anche a non voler ritenere che la locuzione utilizzata implichi di per sé esclusione della responsabilità della P.A. (anche) per la fase precedente (e dunque di una condotta commissiva colposa nell'aver reso i precedenti pareri) è certo, comunque, che la responsabilità risarcitoria venne affermata in primo grado (solo) in quanto conseguenza della dedotta condotta omissiva colposa, non anche della pure prefigurata dalla parte istante, e precedente, condotta commissiva colposa.
La nuova valutazione in appello di tale diverso fondamento causale avrebbe pertanto comunque richiesto, in alternativa: a) o la proposizione di un appello incidentale condizionato da parte dalla società nel caso in cui la decisione di primo grado potesse leggersi come implicante rigetto della domanda fondata su quella prospettiva causale per denunciare l'erronea valutazione del primo giudice sul punto; b) oppure la riproposizione della domanda medesima ex art. 346 cod. proc. civ. nel caso in cui quella sentenza potesse leggersi come espressiva della ritenuta inutilità di alcuna valutazione al riguardo per assorbimento implicitamente ritenuto (cfr. Cass. Sez. U. n. 13195 del 25/05/2018; Id. n. 7700 del 19/04/2016,; Id. n. 11799 del 12/05/2017).
Non risultando alcuna prospettazione di tal genere, la decisione di primo grado deve ritenersi sul punto coperta da giudicato interno (di rigetto o di assorbimento), rilevabile anche d'ufficio per la prima volta in cassazione in quanto risultante ex actis, senza che a tanto possa ostare il fatto che la Corte d'appello, non rilevandolo, abbia esaminato nel merito detta prospettazione (in realtà preclusa), negandone a sua volta la fondatezza (cfr. Cass. n. 1284 cjel 22/01/2007; v. anche Cass. n. 1672 del 26/02/1999; n. 11367 del 31/07/2002; n. 5133 del 21/02/2019).
4. Il secondo gruppo di considerazioni critiche, come detto, investe la sentenza nella parte in cui ha negato fondatezza alla ulteriore autonoma prospettazione causale, rappresentata dalla qualificazione, in termini di condotta omissiva colposa causativa del danno, della mancata restituzione delle somme indebitamente versate: restituzione cui invece, in tesi, la P.A. avrebbe dovuto provvedere, in via di autotutela, indipendentemente dalla scadenza dei termini per chiedere il rimborso, una volta acquisita consapevolezza della non assoggettabilità ad Iva delle cessioni in questione.
4.1. Tali censure si appalesano inammissibili poiché si risolvono in generiche ed astratte declamazioni che non attingono il nucleo centrale della motivazione spesa sul punto dalla Corte lombarda.
Questo consiste, come detto, nel rilievo che «per aversi responsabilità per fatti omissivi è necessario ... che si individui un preesistente obbligo giuridico di agire, che non si rinviene in capo alla P.A. in relazione ai rimborsi di tributi indebitamente versati e che può, anzi, essere escluso, per ragioni di coerenza sistematica, attesa la disciplina della decadenza dal diritto al rimborso non esercitato entro un dato termine»: disciplina che resterebbe priva di rilievo «se, nei casi in cui i privati decadono dal diritto al rimborso per non averlo esercitato tempestivamente, si ipotizzasse comunque un obbligo giuridico dell'Amministrazione di restituire le somme versate».
Il rilievo è in sé ineccepibile e non viene fatto segno di alcuna specifica censura.
Risulta in particolare eccentrico evocare il concetto di autotutela, dal momento che (diversamente dal caso esaminato da Cass. n. 6283 del 2012, richiamata in ricorso) non si chiede l'annullamento di alcun atto ma ben diversamente un rimborso dal quale la ricorrente è decaduta (secondo accertamento ormai passato in giudicato).
4.2. Ne discende anche, per implicito, un profilo causale ostativo alla pretesa risarcitoria, ulteriore e diverso da quello successivamente attenzionato.
A cagionare il danno, infatti, non è né può essere stata la mancata restituzione volontaria delle somme.
Il danno era già stato determinato dal versamento delle imposte.
La mancata restituzione non lo ha determinato, ha solo escluso un auspicato successivo rimedio.
4.3. Il vero è che, a ben vedere, la pretesa risarcitoria associata alla descritta fase della vicenda non ha e non può avere un rilievo distinto e autonomo dalla prima fase e l'esclusione di una responsabilità risarcitoria nella prima della P.A. porta con sé, inevitabilmente, anche l'esclusione di una siffatta responsabilità nella seconda.
Prescindere dalla prima fase significa, infatti, muovere dal solo dato del carattere indebito delle imposte versate, indipendentemente da come si sia arrivati a tale versamento.
Ma se così è, non vi è alcuna ragione di considerare la fattispecie diversamente da ogni altra di indebito versamento di imposte, non potendo avere rilievo scriminante il dato che tale carattere indebito possa, nella specie, considerarsi implicitamente ammesso anche dalla amministrazione.
Rimane, dunque, come detto, ineccepibile il rilievo, anche sistematico, per cui non può predicarsi alcun obbligo per l'amministrazione di provvedere al rimborso indipendentemente da una tempestiva richiesta del contribuente.
Per configurare una responsabilità per mancata restituzione occorrerebbe postulare un obbligo di rimborso che prescinda da tale tempestiva richiesta.
Ciò in astratto potrebbe farsi solo risalendo alle cause del versamento e ravvisando in esse una responsabilità risarcitoria della P.A ..
In tal modo però si ritorna alla fase precedente della vicenda in esame ed alle considerazioni sopra svolte circa il giudicato interno formatosi, ostativo alla possibilità di alcuna valutazione sul punto in questa sede.
5. Rimane assorbito l'esame delle considerazioni critiche che la ricorrente infine dedica al terzo rilievo svolto in sentenza, relativo alla mancanza di nesso causale tra condotta della P.A. ed evento dannoso. Mette conto comunque rilevare che non viene fornita in ricorso alcuna logica spiegazione del fatto per cui, almeno alla comunicazione della risposta al terzo interpello (in data 8 novembre 2004), a fronte della quale non era più certamente predicabile alcun affidamento sulla correttezza dei precedenti pareri e sulla debenza dell'Iva, la società non si sia attivata per presentare una richiesta di rimborso, che avrebbe potuto certamente sottrarre alla decadenza per tardività quanto meno tutti i versamenti effettuati entro i due anni anteriori a quella data.
6. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all'art. 360, comma primo, num. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 2041 e 2042 cod. civ. in relazione al rigetto della subordinata azione di ingiustificato arricchimento.
Sostiene in sintesi che il requisito della sussidiarietà, negato dal giudice a quo, avrebbe dovuto nella specie riconoscersi in considerazione del fatto che la decadenza dalla azione tipica di rimborso non era ad essa imputabile e che, nel provvedimento di diniego del 7 giugno 2006, l'Ufficio aveva evidenziato che non poteva configurarsi alcun tipo di indebito poiché le somme versate a titolo di imposta risultavano effettivamente dovute, con ciò riconoscendo l'inesistenza dell'azione tipica di rimborso.
Rileva sotto altro profilo che la decisione incorre in un'aperta violazione del principio, sancito a livello comunitario, di neutralità dell'Iva, in ossequio al quale chiunque ha versato Iva non dovuta ha diritto alla restituzione dell'imposta corrisposta e dei relativi interessi (VI Direttiva 77/388/CEE del 17.5. 77 e Direttiva 2006/112/CE del 28.11.06).
7. Il motivo è inammissibile, ai sensi dell'art. 360-bis n. 1 cod. proc. civ..
Secondo radicato insegnamento l'azione di arricchimento senza causa non è proponibile quando il danneggiato può esercitare un'altra azione e la valutazione dell'esistenza dell'altra azione va effettuata in astratto, prescindendo dalla previsione dell'esito dell'azione tipica ancorché prescritta o in relazione alla quale ( come nel caso concreto) si sia verificata decadenza (v. Cass. 05/03/1987 n. 2318; 10/06/2005 n. 12265; 29/12/2011, n. 29916; 11/03/2015, n. 4911).
La Corte d'appello ha deciso in piena conformità a tale principio e l'esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l'orientamento della Cassazione.
La censura è infatti affidata ad argomenti inconferenti o inammissibili.
Il primo di essi si risolve nella insistita rappresentazione di ragioni che, in concreto, avrebbero impedito il fruttuoso esercizio dell'azione tipica.
Il secondo evoca poi il provvedimento di diniego del 7 giugno 2006. L'argomento, oltre ad essere manifestamente inosservante dell'onere di specificità imposto dall'art. 366 n. 6 cod. proc. civ. ed a porre questione che non risulta trattata nel giudizio di merito, è inconferente, risolvendosi anch'esso nella rappresentazione di un motivo che avrebbe reso infruttuosa, in concreto, l'azione tipica, non certo ad escluderla a priori e in astratto.
Analoga valutazione deve farsi con riferimento al terzo argomento, che evoca il principio eurounitario di neutralità dell'Iva.
8. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia, infine, con riferimento all'art. 360, comma primo, num. 4, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 346 cod. proc. civ., nullità della sentenza, per avere la Corte d'appello pronunciato su eccezione di inammissibilità della domanda di indennizzo ex art. 2041 cod. civ. che, tardivamente proposta in primo grado, non era stata ritualmente riproposta in appello e per avere, inoltre, rigettato la domanda risarcitoria per ragioni che esulavano dal tema ad esso devoluto.
9. Il motivo è inammissibile, sotto entrambi i profili.
9.1. Quanto al primo lo è ai sensi dell'art. 360-bis n. 1 cod. proc. civ., costituendo jus receptum - che il motivo non richiede di rivedere né di ulteriormente argomentare - il principio secondo cui «la natura sussidiaria dell'azione di arricchimento senza causa costituisce un presupposto della domanda, richiesto dalla legge, pertanto, tale condizione, non integrando un'eccezione in senso stretto, può essere rilevata d'ufficio dal giudice, nei limiti in cui la circostanza risulti da elementi di fatto già acquisiti nel giudizio, ed è proponibile per la prima volta anche nel giudizio di appello, non operando il divieto di ius novorum posto dall'art. 345 cod. proc. civ., inapplicabile per le eccezioni rilevabili d'ufficio» (Cass. n. 9486 del 18/04/2013).
9.2. Nella seconda parte lo è per la palese genericità del rilievo, non essendo specificato né essendo dato comprendere quali siano le ragioni di rigetto della domanda principale che la Corte avrebbe rilevato essendo invece, in tesi, ad essa precluse.
Mette conto comunque rimarcare che le ragioni del rigetto riposano tutte nella motivatamente negata sussistenza degli elementi del fatto costitutivo della pretesa risarcitoria, che il giudice d'appello può e deve certamente valutare alla stregua delle prove ritualmente offerte, senza andare incontro ai limiti dettati dall'art. 345 cod. proc. civ. che riguardano solo le nuove domande e le nuove eccezioni in senso stretto.
10. In conclusione il ricorso deve essere rigettato Avuto tuttavia riguardo alla peculiarità della vicenda ed agli esiti alterni del giudizio di merito, si ravvisano i presupposti per l'integrale compensazione delle spese.
11. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell'art. 1-bis dello stesso art. 13.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Compensa integralmente le spese processuali.
Ai sensi dell'art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell'art. 1-bis dello stesso art. 13.