Svolgimento del processo
1.- Con atto di citazione del 27 ottobre 2009, M. S. W. e P. M. A. convenivano, davanti al Tribunale di Catania (Sezione distaccata di Acireale), P. A., P. V. e P. G. A., al fine di sentirli condannare alla rimozione della veranda insistente sul terrazzo dell'immobile di proprietà di P. A. e realizzata in violazione delle distanze di cui agli artt. 873 e 907 c.c., nonché pregiudizievole del decoro architettonico e della statica dell'edificio. Chiedevano, altresì, che i convenuti fossero condannati all'esecuzione di tutte le opere necessarie al ripristino dell'igiene e della statica dell'edificio, in quanto compromesse dalle opere da essi realizzate sulla copertura e sulle pareti interne dell'appartamento di cui avevano il compossesso, con la condanna al risarcimento dei danni.
Al riguardo, esponevano: che erano proprietari di un appartamento al secondo piano e dell'ammezzato, facenti parte dell'edificio sito in (omissis), via (omissis) nn. 151 e 161; che nel sottostante terrazzo di proprietà di P. A. era stata realizzata una struttura ad uso abitativo (veranda); che tale veranda, oltre ad essere abusiva, aveva deturpato il decoro architettonico e violava le distanze tra costruzioni nonché rispetto alle vedute del loro appartamento, in quanto ancorata al muro portante perimetrale; che la veranda aveva altresì alterato la statica dell'edificio; che, nel corso dell'anno 2006, P. A., P. V. e P. G. A. avevano eseguito opere di rifacimento della copertura del loro immobile nonché altri lavori interni, modificandone le caratteristiche strutturali e l'equilibrio statico; che in seguito si erano manifestati dissesti alla statica dell'edificio, con successivo crollo delle mensole, della soprastante fioriera e del pergolato dell'immobile degli attori; che, a causa di ciò, erano stati costretti a dare incarico per l'esecuzione di opere urgenti di manutenzione, la cui realizzazione avrebbe richiesto la rimozione della veranda, alla quale tuttavia si era opposto P. A.; che nell'anno 2008 si era verificato il distacco di elementi, i quali erano caduti sulla veranda.
Si costituivano in giudizio P. V. - che si dichiarava estraneo ai fatti contestati - nonché, con unica comparsa di risposta, P. A. e P. G. A., i quali deducevano: che dall'immobile sovrastante non poteva essere esercitata alcuna veduta; che, infatti, le aperture ivi esistenti non permettevano né il comodo affaccio né l'inspicere, poiché le ringhiere sporgenti rispetto alla linea della facciata dell'edificio erano precedute e distanziate da un muretto; che tali aperture permettevano solo la presa d'aria tramite basculante, il quale in alcune era stato tolto recentemente, senza comunque permettere l'affaccio, e in altre era ancora rimasto; che balconi dell'ammezzato di proprietà M./P. sporgevano dalla linea della facciata in piccola misura, non erano calpestabili, erano di piccole dimensioni, non estendevano l'ammezzato in superficie e volume ed avevano essenzialmente una funzione decorativa; che detti balconi solo in minima parte si proiettavano sull'area sottostante, con l'effetto che la lagnanza avversaria appariva veramente irrisoria, posto che le distanze si misuravano in via lineare e non radiale; che la realizzazione della veranda non arrecava pregiudizio al decoro e alla statica dell'edificio; che, quanto ai presunti danni provocati dai lavori eseguiti nell'appartamento attualmente di proprietà di P. G. A., essi erano consistiti in piccole rifiniture interne e non nel rifacimento dell'orditura della copertura; che nessuna incidenza causale sul crollo dei cagnoli, della foriera e del pergolato di proprietà degli attori poteva essere imputata alla realizzazione della veranda. In conseguenza, chiedevano che le avverse domande fossero respinte e, in via riconvenzionale, che fossero risarciti i danni patiti in ragione della caduta di elementi provenienti dalla proprietà degli attori sulla veranda nonché delle infiltrazioni idriche che avevano interessato i loro appartamenti, riconducibili alla sovrastante terrazza a livello degli attori.
All'esito dell'espletamento di una consulenza tecnica d'ufficio, il Tribunale adito, con sentenza n. 20/2014, depositata il 7 gennaio 2014, rigettava le domande formulate dagli attori e, in parziale accoglimento della spiegata domanda riconvenzionale, condannava M. S. W. e P. M. A. al pagamento, in favore di P. A., della somma di euro 4.500,00, a titolo di risarcimento danni.
In proposito, alla stregua delle risultanze della consulenza tecnica d'ufficio, la sentenza di primo grado escludeva che dalle finestre dell'appartamento M./P. si potesse esercitare una veduta, essendone precluso l'affaccio.
2.- Con atto di citazione notificato il 14 aprile 2014, M. S. W. e P. M. A. proponevano appello, lamentando le seguenti censure avverso la pronuncia impugnata: 1) violazione ed erronea interpretazione degli artt. 905 e 907 c.c. sulla distanza del fabbricato dalle vedute, per non avere il Giudice di primo grado ritenuto che le caratteristiche delle finestre in questione consentissero l'esercizio della veduta; 2) violazione ed erronea interpretazione dell'art. 873 c.c., per non aver ritenuto il Giudice di prime cure che la struttura verandata costituisse costruzione; 3) errore del Tribunale, per non avere riscontrato il pregiudizio al decoro architettonico dell'edificio da parte della veranda, così aderendo acriticamente alle risultanze della consulenza d'ufficio; 4) violazione e falsa applicazione dell'art. 1227 c.c., per aver accolto il Giudice di primo grado la domanda riconvenzionale proposta da P. A., relativa al risarcimento dei danni, limitandosi a richiamare le risultanze della consulenza d'ufficio.
Decidendo sul gravame interposto, cui resistevano P. V., P. A. e P. G. A., la Corte d'appello di Catania, con la sentenza di cui in epigrafe, in parziale riforma della pronuncia impugnata, dichiarava che la veranda insistente sul terrazzo dell'immobile di proprietà di P. A. era stata eseguita in violazione delle norme sulle distanze legali di cui agli artt. 873 e 907 c.c. e, conseguentemente, condannava quest'ultimo alla rimozione di tale manufatto o comunque al su arretramento a distanza non inferiore a quella di metri tre dal muro dell'immobile M./P.; condannava, in solido, gli appellanti al pagamento, a titolo di risarcimento danni, in favore di P. A., della somma di euro 2.250,00, oltre interessi legali sino al soddisfo, confermando, per il resto, la sentenza di primo grado. Con riferimento alle spese di lite, condannava le parti appellate, in solido, al pagamento dei due terzi delle spese processuali di primo e secondo grado, compensando il residuo terzo.
A sostegno dell'adottata pronuncia la Corte territoriale rilevava, per quanto interessa in questa sede: a) che dai rilievi fotografici in atti emergeva che le tre aperture esistenti nell'appartamento degli appellanti - seppure delimitate da un davanzale largo cm. 65,00 e alto cm. 56,00, che si distanziava cm. 32,00 dalla ringhiera semicircolare esterna - integravano gli estremi della veduta, consentendo l'agevole visuale della sottostante veranda, sia per visione frontale che laterale; b) che, a tal proposito, non poteva condividersi il diverso assunto del Giudice di prime cure, che - acriticamente recependo le considerazioni espresse sul punto dal consulente tecnico d'ufficio - aveva escluso per tali aperture la qualificazione in termini di veduta, per mancanza del requisito della prospectio; e) che l'esigua possibilità di affacciarsi - solo per la massima parte di cm. 32,00 dello sporto esterno dove era collocata la ringhiera - non escludeva comunque la configurabilità della veduta, atteso che, attraverso tali aperture, risultava comunque possibile la completa visuale del sottostante ballatoio-veranda della proprietà P.; d) che, peraltro, per la stessa non contestata conformazione dei luoghi, l'esercizio della veduta e la completa visuale mediante semplice inspectio della contigua veranda apparivano, in atti, agevolmente esercitabili da parte di una persona di altezza normale, senza l'uso di mezzi artificiali; e) che, all'esito del riconoscimento dell'esistenza di una veduta, sia diretta che obliqua, doveva rilevarsi la violazione delle distanze legali di cui all'art. 907 c.c. della tettoia verandata posta nella proprietà P., la quale era collocata a distanza di cm. 35,00 rispetto al sotto-balcone M./P., di cm. 56,00 rispetto al sopra-balcone inaccessibile e di ml. 1,06 rispetto al davanzale, con il conseguente ordine di arretramento di detta struttura a distanza non inferiore a metri tre dalle finestre in questione; f) che la veranda realizzata dal P. integrava il concetto di costruzione, a nulla rilevando il fatto che parte del manufatto fosse stata rimossa, posto che la restante parte integrava la denunciata violazione delle distanze legali, ai sensi dell'art. 873 c.c.; g) che era, per l'effetto, assorbito ogni rilievo inerente al pregiudizio arrecato al decoro architettonico dello stabile; h) che, con riferimento al danno subito dalla proprietà di P. A., a seguito del crollo di alcuni elementi della facciata dell'immobile degli appellanti - crollo che aveva danneggiato la sottostante veranda - si configurava la responsabilità, anche in via concorsuale, del P., per non avere questi consentito, o comunque ritardato, la collocazione dei ponteggi necessari alla messa in sicurezza del soprastante fabbricato, non avendo provveduto al preventivo smontaggio della struttura verandata;
che, in ragione del ritenuto concorso colposo, il danno doveva essere G. addebitato a carico di entrambe le parti, paritariamente nella misura del } 50% ciascuna; che, quanto alla posizione processuale di P. V., doveva essere rigettata l'eccezione di carenza di legittimazione passiva formulata nel procedimento di primo grado, essendo stato quest'ultimo, sino al 27 febbraio 2007, comproprietario e compossessore degli immobili sottostanti la proprietà M./P..
3.- Avverso la sentenza d'appello hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a sette motivi, P. A. e P. G. A.. Sono rimasti intimati P. M. A., M. S. W. e P. V..
Motivi della decisione
1.- Con il primo motivo i ricorrenti denunciano, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 907 e 900 c.c., per avere la Corte d'appello ritenuto che la mancanza dell'affaccio non escludesse l'esercizio della veduta, mentre la possibilità di affacciarsi e di sporgere il capo per visionare il fondo altrui, in ogni direzione, sarebbe condizione essenziale per la sussistenza della veduta.
2.- Con il secondo motivo i ricorrenti contestano, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell'art. 873 c.c., per avere la Corte territoriale fatto applicazione della norma evocata, pur non sussistendo nella fattispecie costruzioni fronteggianti.
In proposito, gli istanti obiettano che, essendo stata dichiarata la presenza di una sola costruzione, ossia di una veranda, ma non la presenza di altra costruzione fronteggiante, la norma sulle distanze tra costruzioni non avrebbe potuto trovare applicazione.
3.- Con il terzo motivo i ricorrenti lamentano, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 907 e 900 c.c. nonché dell'art. 342 c.p.c., per avere la Corte distrettuale mancato di rilevare d'ufficio l'assenza del titolo negoziale od originario su cui si basava il preteso diritto ad ottenere l'arretramento della veranda, avendo l'azione proposta natura petitoria.
4.- Con il quarto motivo i ricorrenti si dolgono, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., della violazione e falsa applicazione dell'art. 132, secondo comma, n. 4, c.p.c., in relazione alla nullità della sentenza per insanabile incoerenza della motivazione sotto l'aspetto dell'irriducibile contraddittorietà e illogicità manifesta, per avere il Giudice del gravame:
a) qualificato la veduta, dapprima, come frontale e laterale e, successivamente, come frontale e obliqua; b) fondato la decisione esclusivamente sui rilievi fotografici in atti, reputati non sufficienti anche a fronte delle risultanze dell'esperita consulenza tecnica d'ufficio; e) affermato che la visuale della sottostante veranda fosse agevole e sicura; d) ritenuto che la visuale esercitata da un davanzale del piano superiore, distante cm. 32,00 dalla ringhiera, fosse frontale o diretta o a strapiombo, potendo, al più, essere obliqua.
5.- Con il quinto motivo i ricorrenti prospettano, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., l'omesso esame di due fatti, entrambi decisivi per il giudizio e oggetto di discussione tra le parti, ossia della circostanza che le tre finestre sarebbero state munite di ante a vasistas, di cui una ancora in loco, sicché la completa visuale sul fondo altrui sarebbe stata possibile solo attraverso la ringhiera del balconcino; e, in secondo luogo, della circostanza in forza della quale il balconcino sarebbe stato comunque impraticabile, perché inaccessibile, come accertato dal consulente tecnico d'ufficio.
L'accertamento di detti fatti avrebbe escluso categoricamente la configurabilità delle aperture come vedute.
6.- Con il sesto motivo i ricorrenti censurano, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., la nullità della sentenza in relazione agli artt. 112 e 346 c.p.c., per avere la Corte di merito deciso sulla domanda volta ad ottenere la demolizione o arretramento della veranda insistente sulla proprietà di P. A., disponendo anche nei confronti degli altri due convenuti, verso i quali gli attori non avrebbero avanzato la relativa domanda.
7.- Con il settimo motivo i ricorrenti deducono, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell'art. 91 c.p.c., per avere la Corte di merito condannato alle spese processuali anche P. G. A., sebbene gli appellanti non avessero avanzato nei suoi confronti alcuna domanda e sebbene lo stesso non fosse soccombente.
8.- Deve essere scrutinato preliminarmente il terzo motivo, logicamente prioritario, avendo ad oggetto la contestazione della legittimazione attiva delle parti che hanno agito in giudizio per rivendicare la violazione delle distanze legali.
La doglianza è infondata.
Si osserva anzitutto che, in materia di luci e vedute, la titolarità del diritto reale di veduta costituisce una condizione dell'azione al fine di esigere l'osservanza, ad opera del vicino, delle distanze di cui all'art. 907 c.c., sicché la parte convenuta per l'eliminazione di vedute poste a distanza inferiore a quella prescritta dall'art. 905 c.c., ha l'onere, ove affermi il proprio diritto a mantenerle, di provare l'avvenuto acquisto, a titolo negoziale od originario, della relativa servitù, non rilevando la mera preesistenza, di fatto, di tali aperture, il cui possesso, di risalenza anche ultraventennale, non ne implica necessariamente l'appartenenza originaria a detto convenuto (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 25342 del 12/12/2016).
Orbene, costituendo la titolarità del diritto reale di veduta una condizione dell'azione volta ad ottenere l'osservanza da parte del vicino delle distanze di cui all'art. 907 c.c., essa va accertata anche d'ufficio dal giudice, salvo che da parte del convenuto non vi sia stata ammissione, esplicita o implicita, purché inequivoca, della relativa sussistenza (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 11287 del 10/05/2018; Sez. 2, Sentenza n. 4192 del 16/02/2017; Sez. 2, Sentenza n. 18030 del 03/08/2010).
Senonché, nella fattispecie, nel corpo dello stesso ricorso, gli istanti riconoscono espressamente, nel descrivere i fatti rilevanti di causa (e segnatamente nel sintetizzare la posizione da questi assunta nel giudizio di prime cure), che l'immobile sovrastante fosse di proprietà di M. S. W. (unico erede ex matre di Soldano Marieligia, atteso che il di lui fratello M. G., in seguito ai fatti di causa, aveva rinunciato all'eredità) e P. M. A. (vedi pag. 5 del ricorso).
Per l'effetto, vi è stata un'ammissione esplicita di tale titolarità, che non esigeva dunque alcuna prova.
Né peraltro risulta che - in contrasto con tale espresso riconoscimento - nei gradi di merito del giudizio gli odierni ricorrenti abbiano mai contestato la titolarità della proprietà dell'appartamento posto al secondo piano e del sottostante ammezzato, facenti parte dell'edificio sito in (omissis), via (omissis)nn. 151 e 161, in testa a M. S. W. e P. M. A..
9.- Passando all'esame del primo motivo, esso è fondato.
Ed infatti, in antitesi con le argomentazioni (e con il relativo esito I decisorio) della sentenza di prime cure, la sentenza d'appello ha evidenziato che, nonostante la "esigua mancanza di quest'ultimo requisito nelle finestre ..." (riferito alla possibilità di affacciarsi), cui ha fatto seguito la locuzione "solo per la massima parte di cm. 32 dello sporto esterno ove è collocata la ringhiera", "l'esercizio della veduta e la completa visuale mediante semplice inspectio della contigua veranda appare, in atti, agevolmente esercitabile da parte di una persona di altezza normale e senza l'uso di mezzi artificiali".
Al riguardo, la sentenza impugnata ha rilevato che dai rilievi fotografici in atti emerge che le tre aperture esistenti nell'appartamento delle parti appellanti - seppure delimitate da un davanzale largo cm. 65,00 ed alto cm. 56,00, distanziato di cm. 32,00 dalla ringhiera semicircolare esterna - integrano gli estremi della veduta, consentendo l'agevole visuale della sottostante veranda, sia per visione frontale che laterale.
Ha, altresì, sostenuto che l'esercizio della veduta e la completa visuale mediante semplice inspectio della contigua veranda appaiono in atti agevolmente praticabili da parte di una persona di altezza normale, senza l'uso di mezzi artificiali.
Ha, quindi, concluso ritenendo che si tratta sia di veduta diretta che obliqua.
Ne consegue che il Giudice del gravame ha inteso qualificare le aperture come vedute, pur essendo preclusa la prospectio, alla stregua della presenza del davanzale, preclusivo dell'affaccio o comunque tale da renderlo difficilmente praticabile o pericoloso, implicando il superamento di tale ostacolo. E tanto perché sarebbe, in ogni caso, fatta salva l'inspectio, ossia la facoltà di guardare.
Ora, per configurare gli estremi di una veduta ai sensi dell'art. 900 c.c., conseguentemente soggetta alle regole di cui agli artt. 905 e 907 c.c. in tema di distanze, è necessario che le c.d. inspectio et prospectio in alienum, vale a dire le possibilità di "affacciarsi e guardare di fronte, obliquamente o lateralmente", siano esercitabili in condizioni di sufficiente comodità e sicurezza (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 3043 del 10/02/2020).
Ed invero, il diritto di veduta sancito dall'art. 907 c.c. intende assicurare, attraverso l'esercizio della inspectio e della prospectio, la piena e completa visione del fondo servente in ogni direzione, sia in orizzontale, che in verticale, che, eventualmente, in maniera obliqua, ed impone, pertanto, che la distanza della nuova costruzione dalla preesistente veduta sia misurata in maniera radiale, non rilevando in senso contrario che la conformazione fisica dei luoghi impedisca la veduta cd. "in appiombo" (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 15244 del 20/06/2017).
Sulla scorta di tali coordinate, la veduta si distingue dalla luce giacché implica, in aggiunta alla inspectio, la prospectio, ossia la possibilità di affacciarsi e guardare frontalmente, obliquamente o lateralmente nel ) fondo del vicino, sicché un'apertura munita di inferriata o simili (nella } specie, realizzata a filo con il muro perimetrale dell'edificio), che impedisca l'esercizio di tale visione mobile e globale sul fondo alieno, va qualificata come luce (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3924 del 29/02/2016).
Deve, perciò, ritenersi ormai superato l'orientamento nomofilattico più risalente, secondo cui l'elemento che caratterizza la veduta rispetto alla luce sarebbe la possibilità di avere, attraverso di essa, una visuale agevole, cioè senza l'utilizzo di mezzi artificiali, sul fondo del vicino, mentre la possibilità di affacciarsi sarebbe prevista dall'art. 900 c.c. in aggiunta a quella di guardare, sicché, in date condizioni, la mancanza di quest'ultimo requisito non escluderebbe la configurabilità della veduta, quando attraverso l'apertura sia comunque possibile la completa visuale sul fondo del vicino mediante la semplice inspectio (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 22887 del 08/10/2013; Sez. 2, Sentenza n. 17 del 04/01/1993).
In senso contrario, secondo l'indirizzo più recente, cui in questa sede si intende dare continuità, affinché sussista una veduta ex art. 900 c.c., è necessario, oltre al requisito della inspectio, anche quello della prospectio sul fondo del vicino, dovendo detta apertura consentire non solo di vedere e guardare frontalmente, ma anche di affacciarsi, garantendo una visione frontale, obliqua e laterale, sì da assoggettare il fondo alieno ad una visione mobile e globale, secondo un giudizio di fatto incensurabile in sede di legittimità, se non per vizi di motivazione (Cass. Sez. 6-2, Ordinanza n. 346 del 10/01/2017; Sez. 2, Sentenza n. 8009 del 21/05/2012).
10.- Anche la seconda censura è fondata.
Al riguardo, la Corte di merito ha disposto la demolizione della veranda, qualificata come costruzione, o comunque il suo "arretramento costante a distanza non minore di metri tre dal fabbricato degli appellanti", per la concorrente violazione della distanza di tre metri di cui agli artt. 907 e 873 c.c.
Ora, la Corte territoriale ha, in primis, evocato la norma che regola la distanza tra costruzioni per rilevare che anche la veranda integra una costruzione. Ed invero, il proprietario del piano di un edificio condominiale
ha diritto di esercitare dalle proprie aperture (nella specie, finestra e non ./ balcone aggettante) la veduta in appiombo, sicché può imporre al vicino di non costruire una veranda, seppur nei limiti del perimetro del sottostante balcone, a meno di tre metri (Cass. Sez. 6-2, Ordinanza n. 7269 del 27/03/2014).
Quindi, la Corte territoriale ha fondato la disposizione dell'arretramento della veranda, sia sulla violazione delle distanze dalle vedute, sia sulla violazione delle distanze tra costruzioni.
Ma, nell'ordinare il rispetto della distanza di cui all'art. 873 c.c., non ha dato atto se le costruzioni su fondi finitimi fossero fronteggianti.
Orbene, in tema di limitazioni legali alla proprietà, l'art. 873 c.c., la cui finalità consiste nell'evitare intercapedini dannose, si applica solo all'ipotesi di fabbricati che, sorgendo da bande opposte rispetto alla linea di confine, si fronteggiano, anche solo in minima parte (nel senso che, supponendo di farli avanzare verso il confine in linea retta, si incontrino almeno in un punto), onde la distanza tra gli stessi va misurata in modo lineare e non, come invece previsto in materia di vedute, in modo radiale (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10580 del 16/04/2019; Sez. 2, Sentenza n. 9649 del 11/05/2016; Sez. 2, Sentenza n. 7285 del 07/04/2005). Solo a fronte di norme dei regolamenti edilizi che impongono distanze tra le costruzioni maggiori rispetto a quelle previste dal codice civile o stabiliscono un determinato distacco tra le costruzioni e il confine - le quali sono volte, non solo a regolare i rapporti di vicinato, evitando la formazione di intercapedini dannose, per ragioni di salubrità e igiene, ma anche a soddisfare esigenze di carattere generale, come quelle della tutela dell'assetto urbanistico di una data zona e della densità edificatoria in relazione all'ambiente-, ai fini del rispetto di tali norme, rileva la distanza in sé, a prescindere dal fatto che gli edifici si fronteggino (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 22054 del 11/09/2018; Sez. 6-2, Ordinanza n. 3854 del 18/02/2014; Sez. 2, Sentenza n. 19350 del 04/10/2005).
11.- In ragione dell'accoglimento del primo e del secondo mezzo di
critica, devono essere dichiarati assorbiti i residui motivi, che afferiscono alla qualificazione delle aperture come vedute (il quarto e il quinto), alla estensione soggettiva della disposizione della condanna alla demolizione o all'arretramento (il sesto) e alla distribuzione delle spese di lite, in forza del principio di soccombenza (il settimo). Tali profili sono infatti destinati ad essere travolti dalla rilevata fondatezza delle censure emarginate, dovendo essere rivalutati dal Giudice del rinvio.
12.- In definitiva, vanno accolti, nei sensi di cui in motivazione, il primo e il secondo motivo, va respinto, in quanto infondato, il terzo motivo, mentre i rimanenti motivi sono assorbiti.
La sentenza impugnata va cassata, con rinvio della causa alla Corte d'appello di Catania, in diversa composizione, che deciderà uniformandosi ai principi di diritto enunciati e tenendo conto dei rilievi svolti, provvedendo anche alla pronuncia sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione accoglie, nei sensi di cui in motivazione, il primo e il secondo motivo, rigetta il terzo motivo, dichiara assorbiti i rimanenti motivi del ricorso, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa alla Corte d'appello di Catania, in diversa composizione, anche per la pronuncia sulle spese del giudizio di legittimità.