Tale esito è infatti riservato solo al caso in cui ad esso sia diretta una domanda espressa della parte che sia a sua volta supportata dall'allegazione e prova dell'interdipendenza del resto del contratto dalla clausola o dalla parte nulla.
Il Tribunale di Parma emetteva decreto ingiuntivo in favore di una società per il pagamento di una certa somma. A seguito di opposizione, il Tribunale la rigettava e la decisione veniva poi confermata dalla Corte di Appello, dunque gli ingiunti propongono ricorso in Cassazione lamentando, tra i vari motivi, il fatto che i Giudici avrebbero dovuto dichiarare d'ufficio la nullità...
Svolgimento del processo
1. I. S.p.a. chiese e ottenne dal Tribunale di Parma l’emissione di decreto ingiuntivo nei confronti della M. S.r.l., di A. C. e di R. T., quali fideiussori della R. I. S.r.l., per il pagamento della somma di € 200.000, in tale misura limitando la pretesa azionata rispetto al maggiore importo (€ 563.750,52) dedotto quale saldo debitore dei conti correnti oggetto della prestata garanzia.
Vi si opposero gli ingiunti deducendo (secondo quanto è riferito nella sentenza in questa sede impugnata) che:
— gli estratti saldaconto ex art. 50 t.u.b. non erano idonei alla dimostrazione del credito;
— gli estratti conto erano loro inopponibili;
— essi non erano stati comunque inviati periodicamente;
— il credito della banca, per ciò che concerneva gli interessi, trovava fondamento in un presunto accordo del 19 giugno 2012, in realtà mai stipulato tra le parti e comunque mai prodotto in atti dalla Banca;
— il ricorso monitorio era stato presentato per una somma di gran lunga inferiore al credito vantato e ciò costituiva indice del grado di incertezza dell'opposta in ordine al suo stesso credito.
2. Instaurato il contraddittorio, il Tribunale rigettò l’opposizione rilevando che:
— il decreto monitorio era stato legittimamente emesso sulla base degli estratti-conto ex art. 50 t.u.b., delle fideiussioni (nelle quali si prevedeva che le scritture della banca facessero prova anche contro i garanti), nonché dei contratti di c/c, nei quali erano riportate le condizioni e la clausola di interessi ultralegali;
— l'opposizione era del tutto generica;
— i garanti si erano impegnati ad informarsi dell'andamento del rapporto bancario ed erano legittimati a chiedere l'invio degli estratti- conto;
— neppure dopo la loro produzione in giudizio gli opponenti si erano premurati di specificare le loro contestazioni;
— la banca aveva agito per soli 200.000 euro a fronte di un credito complessivo di 563.000 euro; si doveva pertanto escludere che da un ricalcolo potesse essere ottenuta una somma inferiore a quella ingiunta.
3. Interposero appello gli opponenti deducendo, con due motivi:
a) di avere contestato non la misura degli interessi moratori concordata nell'originario contratto di conto corrente, bensì quella maggiore applicata al rapporto, sul presupposto di un patto successivo e modificativo, a far data dal 19 giugno 2012;
b) che erroneamente il Tribunale aveva ritenuto di non dover disporre la chiesta c.t.u. contabile.
4. La Corte d’appello ha rigettato il gravame rilevando:
— quanto al primo motivo, che il 19 dicembre 2012 non è affatto la data di un successivo accordo tra banca e cliente avente ad oggetto la modificazione degli originari tassi di interesse, ma più semplicemente la data a partire dalla quale I. pretese la decorrenza degli interessi contrattualmente convenuti, il cui tasso era documentato già in sede monitoria;
— quanto al secondo motivo, che la critica degli appellanti è infondata «non solo per l'impossibilità che dal ricalcolo possa giungersi ad un importo inferiore ad euro 200 mila (ragione, posta a fondamento della prima decisione, che non [era] stata impugnata), ma anche perché, tenuto conto del primo motivo di appello, la c.t.u. avrebbe potuto - in ipotesi - essere ammessa solo al fine di calcolare gli interessi legali al posto di quelli convenzionali; conteggio cui, tuttavia, non occorre[va] procedere, posto che, come si è visto, gli interessi convenzionali, sono pienamente dovuti».
5. Avvero tale decisione La M. S.r.l., A. C. e R. T. propongono ricorso per cassazione affidato a quattro motivi.
L’intimata, I. S.p.a., non svolge difese.
Ha depositato controricorso H. I. S.r.l., quale mandataria di S. S. S.p.a., a sua volta mandataria di M. S. S.r.l., cessionaria dei crediti.
Le ricorrenti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo le ricorrenti denunciano, con riferimento all’art. 360, comma primo, num. 3, cod. proc. civ., «nullità totale della fideiussione conforme allo schema ABI».
Deducono che la Corte d'appello avrebbe dovuto dichiarare d’ufficio la nullità delle fideiussioni omnibus conformi allo «schema ABI vietato» perché in violazione della normativa sulla libera concorrenza.
Evocano la giurisprudenza di questa Corte che ha affermato trattarsi di nullità rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio.
2. Il motivo è inammissibile e, comunque, anche infondato.
2.1. Come questa Corte ha avuto occasione più volte di precisare anche con riferimento alla stessa questione posta nel presente giudizio (v. Cass. n. 34799 del 17/11/2021; cfr. anche Cass. n. 26530 del 30/09/2021; n. 4175 del 2020), la valutazione della eccezione di nullità del contratto in sede di legittimità presuppone che in sede di giudizio di merito siano stati accertati i relativi presupposti di fatto. La nullità può, infatti, essere bensì rilevata d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio, ma solo laddove siano acquisiti agli atti del giudizio tutti gli elementi di fatto dai quali possa desumersene l'esistenza, (v. ex aliis Cass. n. 4175 del 19/02/2020; n. 3556 del 13/02/2020; n. 25273 del 10/11/2020).
Nella specie, in ordine alla ricavabilità di un tale accertamento dal giudizio di merito non vi è da parte dei ricorrenti assolvimento dell'onere di cui all'art. 366, comma primo, num. 6, cod. proc. civ.: essi omettono infatti completamente di riprodurre le clausole di cui discorrono, né indicano dove e come i fatti integratori della pretesa nullità fossero stati introdotti nel processo e sarebbero stati rilevabili.
Prima ancora la stessa questione di nullità è prospettata in termini del tutto generici: la si dà per nota e scontata, senza nemmeno evocarne l’origine (non si menziona ad es. nemmeno il provvedimento della Banca d’Italia n. 55 del 2005) e le ragioni specifiche.
2.2. Sembra opportuno, peraltro, rammentare che se è vero che, secondo il principio affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte con le sentenze nn. 26242 e 26243 del 12/12/2014, «in appello e in Cassazione, in caso di mancata rilevazione officiosa della nullità in primo grado, il giudice ha sempre facoltà di rilevare d’ufficio la nullità», è vero anche che tale principio, come questa Corte ha più volte rimarcato, va coordinato con l'indirizzo, consolidato, per cui le questioni esaminabili di ufficio, che, invece, abbiano formato oggetto nel corso del giudizio di merito di una specifica domanda od eccezione, non possono più essere riproposte nei gradi successivi del giudizio, sia pure sotto il profilo della sollecitazione dell'organo giudicante ad esercitare il proprio potere di rilevazione ex officio, qualora la decisione o l'omessa decisione di tali questioni da parte del giudice non abbia formato oggetto di specifica impugnazione, ostandovi un giudicato interno che il giudice dei gradi successivi deve in ogni caso rilevare (Cass. v., al riguardo, Cass. n. 5257 del 25/02/2021; n. 12259 del 09/05/2019; 17/01/2017, n. 923 e, ivi richiamati, i precedenti di Cass. 04/03/1998, n. 2388; 26/06/2006, n. 14755; 10/01/2014, n. 440, quest’ultimo con particolare riferimento al giudizio di appello; v. anche, Cass. 10/05/2018, n. 11259).
Si è infatti osservato che «quando venga proposta in appello un'eccezione relativa a questione rilevabile d'ufficio anche dal giudice … tale questione diventa punto controverso, con la conseguenza che, se il giudice d'appello ometta di pronunciarsi su di essa, la parte interessata, per impedire che si formi un giudicato interno processuale sull'omessa decisione e la conseguente espunzione della questione dal novero di quelle esaminabili in sede di legittimità nonostante il suo regime di rilevabilità d'ufficio, è tenuta a censurare l'omissione di pronuncia con il ricorso per cassazione e non può, nel presupposto che la questione era rilevabile d'ufficio, riproporla direttamente come motivo di cassazione della sentenza» (Cass. n. 440 del 2014, cit.).
Indicazioni convergenti si ricavano del resto anche da Cass. Sez. U. n. 7294 del 22/03/2017 (ove è affermato il principio secondo cui «allorquando il giudice di primo grado abbia deciso su pretese che suppongono la validità ed efficacia di un rapporto contrattuale oggetto delle allegazioni introdotte nella controversia, senza che né le parti abbiano discusso né lo stesso giudice abbia prospettato ed esaminato la questione relativa a quella validità ed efficacia, si deve ritenere che la proposizione dell'appello sul riconoscimento della pretesa, poiché tra i fatti costitutivi della stessa per come riconosciuta da primo giudice vi è il contratto, implichi che la questione della sua nullità sia soggetta al potere di rilevazione d'ufficio del giudice, integrando un'eccezione cd. in senso lato, relativa ad un fatto già allegato in primo grado. Ciò, risultava e risulta giustificato, in ognuno dei regimi dell'art. 345 c.p.c. succedutisi nella storia del codice di rito, dalla previsione, sempre rimasta vigente, del potere di rilevazione d'ufficio delle eccezioni soggette a rilievo officioso»).
Ma tanto emerge anche dallo stesso arresto di Cass. Sez. U. n. 26243 del 2014, là dove (pagg. 85 - 87; §§ da 8.3.1 a 8.6.2) là dove si osserva testualmente quanto segue:
«8.3.1. … È pressoché superfluo rammentare che, in sede di gravame, il thema decidendum resta definitivamente cristallizzato dal contenuto della decisione impugnata.
«È altrettanto noto che l'art. 345 c.p.c. detta il principio della inammissibilità, da dichiararsi d'ufficio, delle domande nuove proposte dinanzi al giudice dell'impugnazione.
«La norma va tuttavia coordinata, nella sua portata precettiva, con il perdurante obbligo di rilevare di ufficio una causa di nullità negoziale imposto al giudice di appello (al pari di quello di legittimità) dall'art. 1421 c.c.., che non conosce né consente limitazioni di grado.
«8.4. Ne consegue:
• Da un canto, che al giudice di appello investito di una domanda nuova volta alla declaratoria di nullità di un negozio del quale in primo grado si era chiesta l'esecuzione, la risoluzione, la rescissione, l'annullamento (senza che il giudice di prime cure abbia rilevato né indicato alle parti cause di nullità negoziale), è preclusa la facoltà di esaminarla perché inammissibile.
• Dall'altro, che a quello stesso giudice è fatto obbligo di rilevare d'ufficio una causa di nullità non dedotta né rilevata in primo grado, indicandola alle parti ai sensi dell'art. 101 II comma (norma di portata generale e dunque applicabile anche in sede di appello);
• Dall'altro ancora, che tale obbligo deve ritenersi altresì attivabile da ciascuna delle parti ai sensi dell'art. 345 secondo comma c.p.c., che consente la proposizione di eccezioni rilevabili di ufficio.
«8.5. La corretta coniugazione di tali, distinti aspetti processuali conduce:
1) Alla declaratoria di inammissibilità della domanda di nullità per novità della questione, che peraltro non ne impedisce (secondo consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte) la conversione e l'esame sub specie di eccezione di nullità, legittimamente proposta dall'appellante in quanto rilevabile di ufficio.
2) Alla (eventuale) rilevazione della nullità, nell'esercizio di un potere-dovere officioso, e alla indicazione del nuovo tema da esplorare in questa nuova fase del giudizio, se nessuna delle parti abbia sollevato la relativa eccezione.
«8.6. Non può pertanto ritenersi preclusa al giudice, rilevata in limine la inammissibilità della domanda nuova, la facoltà di motivare in ordine alla ritenuta validità del contratto (…), con argomentazioni perfettamente speculari rispetto a quelle che avrebbe svolto se quella nullità egli stesso avesse autonomamente rilevato.
«8.6.1. Lungi da risultare "sovrabbondante o illegittima", una tale motivazione si configura come doverosa disamina della (domanda inammissibile convertita in) eccezione di nullità negoziale formulata dalla parte appellante.
«8.6.2. Egli non potrà, pertanto, limitarsi ad una declaratoria di inammissibilità in ragione della novità della domanda di nullità - emanando una pronuncia che racchiuderebbe, in tal caso, un significante esplicito (l'inammissibilità della domanda) ed un implicito significato (la validità negoziale) -, ma deve, in conseguenza della conversione della domanda (inammissibile) in eccezione (ammissibile) di accertamento della nullità, esaminare il merito della questione».
Si ricava chiaramente da tali precedenti il principio secondo cui la preclusione al rilievo in cassazione della nullità contrattuale (come di qualsiasi altra eccezione rilevabile d’ufficio), si determina solo ove in appello sia stata formulata la relativa domanda/eccezione e la corte di merito non si sia pronunciata, poiché in tal caso sull’omessa pronuncia (ove non espressamente denunciata come tale) si determina un giudicato processuale preclusivo della riproposizione della questione in cassazione.
Nella specie la mancata specificazione del se, dove e come i fatti integratori della pretesa nullità fossero stati introdotti nel processo e fossero stati resi rilevabili impedisce anche di compiere le necessarie verifiche circa l’eventuale formarsi delle suddette eventuali preclusioni.
2.3. La censura deve dirsi comunque anche infondata, dovendosi escludere che, quand’anche risultassero acquisiti in giudizio gli elementi di fatto da cui desumere la dedotta conformità delle fideiussioni de quibus allo «schema ABI vietato», ne potrebbe discendere l’invocata declaratoria di nullità totale delle stesse.
Mette conto al riguardo rammentare che, con sentenza n. 41994 del 30/12/2021, le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato che «i contratti di fideiussione a valle di intese dichiarate parzialmente nulle dall'Autorità Garante, in relazione alle sole clausole contrastanti con gli artt. 2, comma 2, lett. a) della legge n. 287 del 1990 e 101 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea, sono parzialmente nulli, ai sensi degli artt. 2, comma 3 della legge succitata e dell'art. 1419 cod. civ., in relazione alle sole clausole che riproducano quelle dello schema unilaterale costituente l'intesa vietata, salvo che sia desumibile dal contratto, o sia altrimenti comprovata, una diversa volontà delle parti».
In motivazione tale pronuncia ha in particolare rimarcato, per quanto in questa sede importa in particolare evidenziare, che — stante la finalizzazione di tale normativa ad elidere attività e comportamenti restrittivi della libera concorrenza:
a) «la forma di tutela più adeguata allo scopo [quello, cioè, di garantire la realizzazione delle finalità perseguite dalla normativa antitrust, n.d.r.], ma che consente di assicurare anche il rispetto degli altri interessi coinvolti nella vicenda, segnatamente quello degli istituti di credito a mantenere in vita la garanzia fideiussoria, espunte le clausole contrattuali illecite, [è] la nullità parziale, limitata appunto a tali clausole; né va tralasciato il rilievo che la nullità parziale è idonea a salvaguardare il menzionato principio generale di “conservazione” del negozio» (Cass. Sez. U. n. 41994 del 2021, cit., § 2.15, pag. 30);
b) «la regola dell'art. 1419, primo comma, c.c. … enuncia il concetto di nullità parziale ed esprime il generale favore dell'ordinamento per la “conservazione”, in quanto possibile, degli atti di autonomia negoziale, ancorché difformi dallo schema legale. Da ciò si fa derivare il carattere eccezionale dell'estensione della nullità che colpisce la parte o la clausola all'intero contratto, con la conseguenza che è a carico di chi ha interesse a far cadere in toto l'assetto di interessi programmato fornire la prova dell'interdipendenza del resto del contratto dalla clausola o dalla parte nulla, mentre resta precluso al giudice rilevare d'ufficio l'effetto estensivo della nullità parziale all'intero contratto» (ivi, pag. 30-31, enfasi aggiunta);
— «i contratti a valle sono integralmente nulli … esclusivamente quando la loro stessa conclusione restringe la concorrenza, come nel caso di una intesa di spartizione, riprodotta integralmente nel contratto a valle»;
— «Quest'ultimo è, invece, nullo solo in parte qua, laddove esso riproduca le clausole dell'intesa a monte dichiarate nulle dall'organo di vigilanza, e che sono le sole ad avere - in concreto - una valenza restrittiva della concorrenza, come nel caso dello schema ABI per cui è causa. Tutte le altre clausole, coerenti con lo schema tipico del contratto di fideiussione, restano invece - come nel caso concreto ha affermato il provvedimento della Banca d'Italia n. 55 del 2005 - pienamente valide».
La stessa pronuncia ha anche evidenziato, quale corollario sul piano processuale di tale principio, che, «il giudice innanzi al quale sia stata proposta domanda di nullità integrale del contratto deve rilevarne di ufficio la sua nullità solo parziale. E tuttavia, qualora le parti, all'esito di tale indicazione officiosa, omettano un'espressa istanza di accertamento in tal senso, deve rigettare l'originaria pretesa non potendo inammissibilmente sovrapporsi alla loro valutazione ed alle loro determinazioni espresse nel processo (Cass. Sez. U. 12/12/2014, nn. 26242 e 26243; Cass. 18/06/2018, n. 16501)» (così, in motivazione, Cass. Sez. U. n. 41994 del 2021, cit., § 2.20.2, pag. 41).
In base agli esposti principi, deve ritenersi dunque in ogni caso escluso che il giudice possa rilevare ex officio la nullità totale del contratto di fideiussione (c.d. a valle) nel quale siano riprodotte le clausole dello schema ABI dichiarate nulle, tale esito essendo riservata alla sola ipotesi in cui ad esso sia diretta espressa domanda della parte che sia a sua volta supportata dalla allegazione e dimostrazione, con onere a carico della parte che a tale declaratoria ha interesse, dell'interdipendenza del resto del contratto dalla clausola o dalla parte nulla.
Quel che il giudice può, in ipotesi, rilevare e/o dichiarare ex officio è, dunque, nella ricorrenza dei detti presupposti e salve le preclusioni eventualmente maturate, «solo» la nullità parziale, ma a condizione che le parti, espressamente interpellate in ordine a tale possibile esito, formulino un'espressa istanza di accertamento in tal senso.
Nella specie, una manifestazione di interesse in tal senso non solo manca ma deve ritenersi implicitamente esclusa avuto riguardo al ben diverso obiettivo censorio espressamente dichiarato, nel senso dell’accertamento officioso (in realtà, come detto, in ogni caso come tale non consentito) della nullità totale dei contratti.
3.Con il secondo motivo le ricorrenti denunciano, con riferimento all’art. 360, comma primo, num. 3, cod. proc. civ., violazione o falsa applicazione degli artt. 115 cod. proc. civ. e 2697 cod. civ..
Premesso che, in ambito bancario e in particolare nelle aperture di credito in conto corrente, la prova della pretesa può essere raggiunta solo con la produzione integrale della documentazione afferente al rapporto in contestazione, ed in particolare con il deposito degli estratti conto a partire dalla data di apertura del conto corrente, rilevano che nella specie la banca ha omesso di allegare la documentazione comprovante il reale saldo dei rapporti di conto.
4. Il motivo è inammissibile, sotto diversi profili.
4.1. Va anzitutto in tal senso rilevato che la censura nemmeno individua la motivazione o la parte di essa cui ci si intende riferire, venendo così a mancare un presupposto indefettibile del mezzo di impugnazione, ossia il suo stesso oggetto.
Converrà rammentare in proposito che, secondo principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, il motivo d'impugnazione è rappresentato dall'enunciazione, secondo lo schema normativo con cui il mezzo è regolato dal legislatore, delle ragioni per le quali, secondo chi esercita il diritto d'impugnazione, la decisione è erronea, con la conseguenza che, siccome per denunciare un errore occorre identificarlo (e, quindi, fornirne la rappresentazione), l'esercizio del diritto d'impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell'esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito, considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo.
In riferimento al ricorso per cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un «non motivo», è espressamente sanzionata con l'inammissibilità ai sensi dell'art. 366 n. 4 cod. proc. civ. (Cass. 11/01/2005, n. 359; v. anche ex aliis Cass. Sez. U. 20/03/2017, n. 7074, in motivazione, non massimata sul punto; Id. 05/08/2016, n. 16598; Id. 03/11/2016, n. 22226; Cass. 15/04/2021, n. 9951; 05/07/2019, n. 18066; 13/03/2009, n. 6184; 10/03/2006, n. 5244; 04/03/2005, n. 4741).
4.2. Mette conto comunque soggiungere che, come sopra s’è riferito (v. «Fatti di causa», §§ 2 – 3), la sentenza d’appello dà atto che: a) il Tribunale rigettò l’opposizione anche sul rilievo che gli estratti-conto erano stati prodotti dalla banca nel corso del giudizio e che le opponenti, neppure dopo tale produzione, avevano specificato le loro contestazioni; b) i motivi d’appello vertevano solo sulla ritenuta riferibilità degli interessi moratori applicati ad un patto aggiuntivo non provato e sulla mancata ammissione di una c.t.u. contabile.
Se ne desume che, diversamente da quanto postulato con il motivo in esame, gli estratti conto erano stati prodotti in giudizio, già in primo grado, e che inoltre, rispetto alla ritualità e/o completezza di tale produzione, non era stato proposto neppure motivo di gravame, questo vertendo su altre questioni, tutte presupponenti o comunque non incompatibili con tale acquisizione fattuale.
Da qui la manifesta inammissibilità del motivo, predicabile sia perché prospetta un tema di lite (l’assolvimento dell’onere probatorio gravante sulla creditrice), sul quale deve ritenersi formato giudicato interno, sia perché eccentrico rispetto alla ratio decidendi posta a fondamento della sentenza d’appello (la quale non si occupa più del tema della completezza della documentazione contabile prodotta e della sua idoneità a consentire la ricostruzione del rapporto di conto corrente per gli aspetti rilevanti ai fini di causa, dandolo anzi, implicitamente per acquisito).
5. Con il terzo motivo le ricorrenti denunciano, con riferimento all’art. 360, comma primo, num. 5, cod. proc. civ., violazione o falsa applicazione del d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385, in connessione con l’art. 116 cod. proc. civ..
Sostengono che «in un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, in un rapporto di apertura di credito in conto corrente, la produzione degli estratti conto integrali della Banca costituisce antecedente sostanziale preliminare alla valutazione della pretesa dell'opposta la cui mancata completa allegazione non consente al giudice di attingere il proprio convincimento da altre fonti».
Affermano che, per tal motivo, «la sentenza resa dalla Corte territoriale risulta completamente inattendibile e di conseguenza l'On. Corte di Cassazione potrà cassarla decidendo nel merito l'infondatezza e l'inammissibilità».
6. Il motivo è inammissibile per le stesse considerazioni sopra svolte.
Si tratta di censura che non si confronta con la effettiva ratio decidendi posta a fondamento della sentenza impugnata, ma anzi da essa prescinde del tutto.
7. Con il quarto motivo le ricorrenti denunciano, con riferimento all’art. 360, comma primo, num. 5, cod. proc. civ., «violazione o falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ. in connessione con l’art. 2697 cod. civ.».
Lamentano che la Corte d’appello «ha omesso di valutare la incompleta documentazione prodotta dalla Banca ritenendo la pretesa dell'opposta fondata, malgrado l'assenza della documentazione comprovante la pretesa e negando addirittura l'ammissione della consulenza contabile richiesta dalla sottoscritta difesa già nel giudizio svoltosi innanzi al Tribunale».
8. Anche tale motivo, sostanzialmente sovrapponibile al secondo e al terzo, va incontro ai medesimi rilievi di inammissibilità già sopra svolti ed ai quali può farsi interamente rimando.
9. Il ricorso deve dunque essere dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna delle ricorrenti, in solido alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.
10. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso. Condanna le ricorrenti al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 5.600 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13.