
Tra gli artt. 52 e 53 del Codice Deontologico Forense, riguardanti rispettivamente la lealtà processuale e il rispetto dei magistrati, non sussiste rapporto di specialità, bensì si può procedere alla loro contestuale applicazione.
Svolgimento del processo
1. Il Consiglio Nazionale Forense, con sentenza n. 27 del 2021, in parziale riforma del provvedimento del Consiglio Distrettuale di Disciplina di Venezia (CDD), che aveva irrogato all’avv. E.G. la sanzione disciplinare della sospensione per mesi due, rideterminò la sanzione nella censura, reputando la professionista responsabile del capo di incolpazione individuato nel fatto che nell’atto di opposizione alla richiesta di archiviazione, depositata il 31 dicembre 2015 avanti la Procura della Repubblica di Belluno nel proc. N. 92/2015 RGNR, aveva dato atto del contestuale invio per conoscenza dell’intero carteggio al Ministero della Giustizia, data la peculiare motivazione esplicitata nella richiesta di archiviazione, ed aveva affermato che l’indagato B. avrebbe potuto essere difeso dallo studio (omissis) di Belluno, il titolare del quale è stato senatore della Repubblica appartenente al partito di Forza Italia e dove lavora un parente di un magistrato; nelle controdeduzioni istruttorie depositate il 21 marzo 2016 avanti al COA di Treviso spiegava che il sostituto procuratore avrebbe deciso di chiedere l’archiviazione per non dovere probabilmente citare come teste l’ex senatore della Repubblica M. Omissis ed il parente del magistrato che lavora nel suo studio, oltre tutti gli appartenenti allo studio Omissis; ciò in violazione dei doveri di correttezza e probità (art. 9 co. 1 del Codice Deontologico Forense - CDF), del divieto di usare espressioni sconvenienti ed offensive (art. 52 co. 1 CDF) e del dovere di reciproco rispetto nei confronti dei magistrati (art. 53 co. 1 CDF).
Il CNF, in via preliminare disattendeva il motivo relativo alla pretesa nullità della decisione impugnata, per l’omessa astensione dei componenti del CDD a seguito di richiesta di astensione dell’intero collegio formulata dall’avv. G., in conseguenza della notifica, avvenuta la stessa mattina dell’udienza, di un atto di citazione predisposto dall’incolpata ed indirizzato a tutti i componenti del CDD.
La sentenza, dopo aver ricordato che la ricusazione deve riguardare le singole persone fisiche componenti il collegio giudicante e non l’intero ufficio giudiziario, mentre nella fattispecie mancava una puntuale individuazione delle ragioni di ricusazione per ogni singolo membro, ribadiva che la pendenza di una causa non costituisce motivo di astensione obbligatoria, essendo tale solo la ricorrenza di un interesse diretto e proprio.
Era altresì disatteso il motivo di impugnazione che investiva la mancata considerazione da parte del CDD di tutti i documenti prodotti dalla ricorrente, come anche quello relativo alla omessa valutazione della sua condizione personale all’epoca dei fatti, Infatti, la professionista lamentava che si era trascurato che, per la carenza di sonno e per l’allattamento del figlio da poco nato, in occasione della redazione dell’atto oggetto di contestazione, la stessa non aveva la coscienza e la volontarietà dell’atto stesso.
Ad avviso del CNF occorreva però evidenziare che anche le circostanze addotte dalla G. non potevano escludere la riconducibilità della condotta all’autrice, trattandosi di atti redatti in forma scritta che sono sempre suscettibili di verifica e rilettura.
In relazione alla doglianza con la quale si chiedeva di escludere dal capo di imputazione il passaggio riferito alle controdeduzioni istruttorie, avendo in tal modo il CDD utilizzato dei chiarimenti resi dalla ricorrente nell’esercizio del diritto di difesa, la sentenza rilevava che si trattava di elementi di prova ritualmente acquisiti agli atti e quindi suscettibili di utilizzazione.
Quanto all’erronea valutazione delle circostanze attenuanti o aggravanti, la sentenza rilevava che le varie circostanze suscettibili di incidere sulla misura della sanzione non possono essere correttamente assimiliate alle aggravanti o alle attenuanti previste dalla legge penale, ma costituiscono elementi liberamente apprezzabili dal giudice disciplinare ai fini della più corretta determinazione della sanzione, in analogia con quanto previsto dagli artt. 133 e 133 bis c.p.
Quindi, una volta ritenuta condivisibile la valutazione negativa per la ricorrente di una serie di iniziative processuali dalla medesima tenute nel corso del processo (richiesta di ricusazione dei componenti del CDD, anche prima dell’udienza all’esito della quale era stata assunta la decisione impugnata, impugnazione della comunicazione di avvio del procedimento disciplinare, citazione di tutti i componenti del CDD), e reputata incensurabile la mancata ammissione della prova testimoniale richiesta dalla parte, in quanto vertente su fatti che non sono idonei ad incidere sull’accertamento della responsabilità, la decisione in esame escludeva che vi fosse un rapporto di specialità tra le previsioni di cui agli artt. 52 e 53 del CDF, in quanto l’art. 53 delimita l’ambito etico nel quale devono estrinsecarsi i rapporti tra avvocati e magistrati, mentre il primo individua una specifica violazione dei canoni comportamentali commessa tramite l’uso della scrittura in scritti giudiziali, così che ove ciò avvenga vi è concorso tra le due norme.
Quindi, una volta riconosciuta l’offensività delle espressioni contenute nella richiesta di opposizione all’archiviazione, avendo il suo contenuto travalicato i limiti del rispetto della funzione giudicante, la cui tutela ha pari dignità rispetto alla funzione della difesa, la sentenza riteneva però necessario provvedere ad una rideterminazione in melius della sanzione, occorrendo a tal fine valutare la condotta complessiva dell’incolpata, in quanto, pur tenendo conto delle plurime iniziative defatigatorie poste dalla medesima in atto, andavano positivamente considerati la particolare condizione soggettiva della stessa all’epoca dei fatti ed il proprio coinvolgimento personale nella vicenda, il che induceva ad applicare la sanzione della censura.
2. Avverso la sentenza è stato proposto ricorso per cassazione dall’avvocato sulla base di sette motivi.
3. L'intimato Consiglio dell'ordine territoriale non ha compiuto attività difensiva in questa sede.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 59 della legge n. 247/2012, dell’art.36 co. 1 lett. h) c.p.p. e 51 co. 3 c.p.c., nonché la violazione dell’art. 97 co. II, Cost., con conseguente vizio di composizione del CDD del Veneto e nullità della decisione emessa.
Si evidenzia che la ricorrente aveva fatto richiesta di astensione dei membri del collegio del CDD adducendo gravi ragioni di convenienza, attesa la pendenza di una causa civile intrapresa dalla stessa nei confronti dei componenti del CDD del Veneto.
Tale richiesta di astensione era però rimasta priva di seguito, determinando così l’invalidità della decisione emessa. Analoga censura era stata fatta valere dinanzi al CNF che però l’ha disattesa senza tenere conto del fatto che l’art. 51 co. 1 n. 3 c.p.c. prevede un obbligo di astensione per il giudice che abbia una causa pendente con colui che è sottoposto al suo giudizio, obbligo la cui violazione rende invalida la pronuncia emessa.
Il motivo deve essere disatteso.
Il giudice disciplinare, oltre a richiamare il principio secondo cui non è ammissibile la ricusazione di un collegio astrattamente considerato, dovendo essa essere piuttosto diretta contro ciascuna delle persone fisiche che lo compongono, sul presupposto che per ciascuna di esse, singolarmente, ricorrano i motivi tassativamente indicati dalla legge per tale istituto (Sez. U, Ordinanza n. 34429 del 24/12/2019), ha altresì sottolineato come la sola proposizione di un giudizio (nella specie civile) nei confronti dei componenti del collegio (ed in ragione del loro ufficio), non costituisce motivo di astensione obbligatoria, posto che siffatto obbligo è insuscettibile di deroga nel solo caso in cui il giudice abbia un interesse diretto e proprio nella causa che è chiamato a giudicare.
Trattasi di motivazione che appare incensurabile e conforme alla giurisprudenza di questa Corte.
Infatti, è stato reiteratamente affermato che l'inosservanza dell'obbligo di astensione di cui all'art. 51, n. 1, c.p.c. determina la nullità del provvedimento emesso solo ove il componente dell'organo decidente abbia un interesse proprio e diretto nella causa che lo ponga nella qualità di parte del procedimento; in ogni altra ipotesi, invece, la violazione di tale obbligo assume rilievo come mero motivo di ricusazione, rimanendo esclusa, in difetto della relativa istanza, qualsiasi incidenza sulla regolare costituzione dell'organo decidente e sulla validità della decisione, con la conseguenza che la mancata proposizione di detta istanza nei termini e con le modalità di legge preclude la possibilità di fare valere il vizio in sede di impugnazione, quale motivo di nullità del provvedimento (Cass. Sez. 2 - , Ordinanza n. 2270 del 28/01/2019; Cass. n. 528/2002; Cass. n. 23930/2009; Cass. n. 26976/2011).
Tali principi sono stati poi ribaditi con specifico riferimento alla materia in esame, essendosi affermato che, nei procedimenti disciplinari davanti agli ordini forensi, così come in quelli civili, l'inosservanza dell'obbligo dell'astensione determina la nullità del provvedimento adottato solo nell'ipotesi in cui il componente dell'organo decidente abbia un interesse proprio e diretto nella causa, tale da porlo nella veste di parte del procedimento, mentre in ogni altra ipotesi la violazione dell'art. 51 cod. proc. civ. assume rilievo solo quale motivo di ricusazione, rimanendo esclusa, in difetto della relativa istanza, qualsiasi incidenza sulla regolare costituzione dell'organo decidente e sulla validità della decisione, con la conseguenza che la mancata proposizione di detta istanza nei termini e con le modalità di legge preclude la possibilità di far valere tale vizio in sede d'impugnazione, quale motivo di nullità del provvedimento (Cass. S.U. n. 16615 del 08/08/2005; Cass. S.U. n. 10071/2011; Cass. S.U. n. 19030/2021).
In assenza della puntuale allegazione di una situazione tale da determinare un interesse proprio nella causa dei componenti del CDD, ed avendo la stessa ricorrente riferito di una causa civile introdotta verso tutti i componenti del detto organo, per la loro qualità istituzionale, deve escludersi che ricorra una situazione riconducibile alla previsione di cui al n. 1 dell’art. 51 c.p.c., così che, non avendo la stessa ricorrente avanzato istanza di ricusazione (riferendo in ricorso solo di avere sollecitato l’astensione dei componenti del CDD – così a pag. 17), deve escludersi che la sentenza sia affetta da nullità.
2. Il secondo motivo di ricorso lamenta l’eccesso di potere per ingiustizia manifesta, a seguito del mancato utilizzo dei documenti a discarico dell’incolpata, stante il difetto dell’elemento soggettivo dell’illecito, con il conseguente difetto di suitas della condotta.
Assume la ricorrente che il CNF non si sarebbe avvalso di tutte le prove documentali prodotte nel corso del procedimento disciplinare, il cui esame invece avrebbe dovuto indurre ad escludere la responsabilità della ricorrente.
Infatti, ove le prove fossero state esaminate, si sarebbe potuto affermare che a causa dell’assenza di sonno, cagionata dalla recente maternità, l’avv. G. aveva redatto l’atto di opposizione all’archiviazione in condizioni di sostanziale assenza di coscienza e volontà, il che esclude la possibilità di attribuire l’atto oggetto della contestazione disciplinare alla volontà della ricorrente (in tal senso depone anche la letteratura scientifica versata in atti, che conforta circa la ricorrenza degli effetti dello stress provocato dall’assenza di sonno, idonea ad incidere sulla neutralità emotiva).
Il motivo è inammissibile in quanto attinge evidentemente un accertamento di fatto, come peraltro compiuto in modo non contestabile dal giudice di merito.
La giurisprudenza di questa Corte ha, infatti, affermato che in tema di responsabilità disciplinare dell'avvocato, in base all'art. 4 del nuovo codice deontologico forense, la coscienza e volontà consistono nel dominio anche solo potenziale dell'azione o omissione, per cui vi è una presunzione di colpa per l'atto sconveniente o vietato a carico di chi lo abbia commesso, il quale deve dimostrare l'errore inevitabile, cioè non superabile con l'uso della normale diligenza, oppure la sussistenza di una causa esterna, mentre non è configurabile l'imperizia incolpevole, trattandosi di professionista legale tenuto a conoscere il sistema delle fonti (Cass. S.U., n. 13456/2017).
Inoltre, è stato precisato che la valutazione del Consiglio nazionale forense in ordine alla sussistenza dell'elemento sia materiale che psicologico (concretantesi, di norma, nella coscienza e volontarietà dell'azione o dell'omissione) dell'illecito disciplinare addebitato al professionista è incensurabile in sede di legittimità, in quanto sorretta da motivazione adeguata ed immune da errori (nell'enunciare il principio di cui in massima, le S.U. hanno confermato la decisione del CNF, la quale, in fattispecie di utilizzazione da parte dell'avvocato in un giudizio civile di documenti falsi a sostegno della tesi della parte rappresentata, aveva escluso che l'affidamento, da parte dell'incolpato, dello studio e della gestione della controversia al proprio praticante fosse sufficiente ad esentare l'avvocato medesimo da ogni responsabilità, Cass. S.U. n. 12140/2004).
La decisione gravata, con accertamento in fatto, ha rilevato che la carenza di sonno (sia pur presa in considerazione in altra parte della decisione, ed in senso favorevole alla ricorrente, avendo tale circostanza inciso sul più mite trattamento sanzionatorio rispetto alla decisione del CDD) non poteva però escludere l’appartenenza della condotta contestata alla ricorrente, e ciò anche in ragione del mezzo attraverso cui l’illecito era stato commesso (un atto scritto), che offriva una possibilità di verifica e rilettura, verifica e rilettura che a maggior ragione si imponevano a fronte di una condizione di particolare spossatezza che la ricorrente adduce essere stata provocata dalla recente maternità, e che sollecitava una particolare prudenza nel deposito in sede giudiziaria di atti la cui redazione iniziale poteva essere stata influenzata dalla stanchezza.
3. Il terzo motivo lamenta la violazione dell’art. 24 Cost. quanto all’inclusione nel capo di incolpazione della seconda parte nella quale si faceva riferimento alle controdeduzioni istruttorie del 21 marzo 2016.
Si sostiene che con tale atto la ricorrente aveva esercitato il proprio diritto di difesa dinanzi al Consiglio dell’Ordine, così che le precisazioni ivi contenute non potevano essere utilizzate per trarre elementi sfavorevoli alla parte.
Il motivo è infondato.
Al riguardo, occorre ricordare che di recente è stato affermato che, nel procedimento disciplinare riguardante gli avvocati, non sono affette da inutilizzabilità le dichiarazioni testimoniali assunte dal consigliere istruttore del Consiglio distrettuale di disciplina successivamente alla presentazione della memoria difensiva da parte dell'incolpato, atteso che il predetto procedimento e, "a fortiori", la fase preprocedimentale condotta dal consigliere istruttore ai sensi dell'art. 58 della l. n. 247 del 2012, ha natura amministrativa, rispondendo ai principi di imparzialità e buon andamento dell'azione amministrativa (art.97 Cost.), sicché le osservazioni difensive richieste dal consigliere istruttore all'incolpato (da presentarsi entro 30 giorni dalla comunicazione), non debbono essere necessariamente depositate, a pena di nullità o di inutilizzabilità, dopo gli accertamenti istruttori, assumendo esse una funzione prettamente informativa e preliminare, volta, tra l'altro, proprio ad indirizzare e mirare quegli accertamenti.
L’affermazione circa la natura sostanzialmente amministrativa del procedimento svoltosi dinanzi al COA, da una parte, esclude che possano essere invocate le garanzie tipicamente approntate all’interno del processo. Ma in ogni caso rileva che, per il principio di autoresponsabilità, la parte deve adeguatamente valutare la portata delle proprie dichiarazioni, ancorché rese in un’ottica difensiva, ben potendo le stesse per il loro contenuto essere valutate in via probatoria in senso sfavorevole alla dichiarante (come peraltro si ricava anche dalle previsioni codicistiche in tema di confessione giudiziale). Peraltro alle controdeduzioni istruttorie, come si rileva dalla lettura del capo di incolpazione, non è stata attribuita valenza decisiva ai fini della ricostruzione dell’illecito ascritto, ma sono state utilizzate solo al fine di confermare l‘effettiva rilevanza delle affermazioni contenute nella richiesta di opposizione all’archiviazione, nella quale il riferimento alla possibile partecipazione alle indagini di un ex senatore della Repubblica e di un parente di un magistrato era volta a rimarcare come la scelta del Sostituto Procuratore di richiedere l’archiviazione fosse stata dettata da ragioni opportunistiche o di convenienza, a discapito dell’interesse della persona offesa, rilevanza che già emergeva dalla sola lettura dell’atto di opposizione, tramite i suggestivi accostamenti ivi compiuti, preceduti dalla comunicazione di invio degli atti al Ministero della Giustizia (evidentemente al fine di segnalare, anche in vista di eventuali iniziative disciplinari, l’anomalo andamento del procedimento).
4. Il quarto motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 133 e 133 bis c.p., con violazione e falsa applicazione dell’art. 14 delle preleggi, quanto al divieto di analogia in malam partem.
Si deduce che la sentenza impugnata ha fatto riferimento, a pag. 7, agli artt. 133 e 133 bis c.p.c., in materia di aggravanti della condotta.
Tuttavia, tale richiamo appare erroneo atteso il divieto di applicazione analogica della legge penale. Inoltre, si sottolinea come siano state erratamente ritenute come idonee ad aggravare la responsabilità dell’incolpata una serie di condotte (istanze di ricusazione, impugnazione dell’avvio del procedimento, citazione rivolta ai componenti del CDD del Veneto) che costituiscono però manifestazione del diritto di difesa.
Il motivo è manifestamente infondato.
Occorre a tal fine ricordare che, in tema di procedimento disciplinare a carico degli avvocati, la determinazione della sanzione adeguata costituisce tipico apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità (Cass. S.U. n. 1609 del 24/01/2020), con la sola eccezione dell’assenza di motivazione (Cass. S.U. n. 13791 del 01/08/2012), che nella fattispecie non ricorre.
La critica mossa, quindi, in quanto finalizzata a contestare la corretta determinazione della sanzione, è inammissibile, ma risulta altresì infondata quanto alla dedotta erronea applicazione al procedimento disciplinare di norme invece dettate per il giudizio penale.
Infatti, la giurisprudenza di queste Sezioni Unite ha ribadito che nel procedimento disciplinare a carico degli avvocati, gli elementi valutati in concreto per la determinazione della specie e dell'entità della sanzione non attengono all'"an" o al "quomodo" della condotta, ma solamente alla valutazione della sua gravità e devono, in sostanza, reputarsi quali meri parametri di riferimento a questo solo scopo, in quanto tali analoghi a quelli previsti dall'art. 133 e dall'art. 133-bis c.p.; tali elementi, non integrando circostanze aggravanti in senso tecnico della fattispecie dell'illecito - vale a dire elementi accidentali, non indispensabili ai fini della sussistenza, della fattispecie sanzionatrice - sono di norma sottratti all'onere, per il titolare del potere sanzionatorio, di previa e specifica contestazione (Cass. S.U. n. 11933 del 07/05/2019).
A tali principi si è correttamente attenuta la sentenza impugnata che, una volta ribadita l’impossibilità di annettere alle situazioni complessivamente prese in esame ai fini della determinazione congrua della sanzione la valenza di attenuanti ovvero di aggravanti in senso proprio, ha richiamato le norme del codice penale al solo fine di illustrare come la valutazione delle medesime potesse rilevare ai fini della più equa determinazione delle conseguenze dell’illecito disciplinare.
5. Il quinto motivo lamenta la mancata ammissione delle testimonianze di cui alla lista depositata, con la violazione e falsa applicazione dell’art. 111 co. 6, Cost.
Si sostiene che la sentenza è priva di motivazione quanto alla mancata ammissione delle prove testimoniali avendone apoditticamente ritenuto l’irrilevanza.
Il motivo è inammissibile.
La sentenza gravata ha dato adeguatamente conto delle ragioni, correlate all’impossibilità di escludere la suitas della condotta in capo all’incolpata, pur a fronte delle circostanze che si intendevano provare, il che impedisce che possa reputarsi affetta da assenza di motivazione.
Inoltre, una volta ritenuto, con motivazione esente da mende logiche, che la situazione soggettiva della ricorrente, legata alle difficoltà incontrate nei primi mesi di vita del proprio figlio, possa avere inciso sull’attribuibilità del fatto illecito alla medesima, le circostanze che la parte intendeva provare sono state nella sostanza ritenute esistenti da parte del CNF che, ancorché ai fini della rideterminazione della sanzione applicabile, ha reputato che le condotte processuali di carattere defatigatorio poste in essere dall’avv. G. trovassero un contrappeso nella particolare condizione soggettiva e nel coinvolgimento personale nella vicenda (così pag. 17), giustificando in tal senso una riduzione della sanzione dalla sospensione per mesi due alla sola censura.
6. Il sesto motivo denuncia, in relazione agli artt. 52 co. 1 e 53 co. 1 del Codice deontologico forense, l’impossibilità di procedere alla loro contestuale applicazione, in ragione del principio di specialità, con la violazione e falsa applicazione dell’art. 15 c.p.
Si deduce che mentre l’art. 52 prevede che l’avvocato debba evitare l’uso di espressioni sconvenienti ed offensive negli scritti in giudizio e nell’esercizio dell’attività professionale nei confronti anche dei magistrati, l’art. 53 prevede che il rapporto con i magistrati debba essere improntato al reciproco rispetto.
Nella nozione di rispetto del magistrato rientra anche l’astenersi dall’uso di espressioni sconvenienti ed offensive, sicché ove si realizzi quest’ultima condotta, non sarebbe possibile fare applicazione di entrambe le norme sanzionatorie.
Il motivo è infondato.
In disparte il rilievo che entrambe le fattispecie prevedono in via autonoma la misura sanzionatoria della censura, misura in concreto applicata alla ricorrente, sicché ove anche esclusa la concorrenza degli illeciti, la sanzione rientrerebbe tra quelle che appaiono suscettibili di applicazione anche per uno solo degli illeciti disciplinari contestati, ritiene la Corte che debba escludersi un rapporto di specialità fra le due norme e che invece, come sostenuto dal CNF, ben possa ravvisarsi un concorso di norme.
L’art. 52 del Codice deontologico, nella versione applicabile
ratione temporis, prevede:
Art. 52 – Divieto di uso di espressioni offensive o sconvenienti 1. L’avvocato deve evitare espressioni offensive o sconvenienti negli scritti in giudizio e nell’esercizio dell’attività professionale nei confronti di colleghi, magistrati, controparti o terzi. 2. La ritorsione o la provocazione o la reciprocità delle offese non escludono la rilevanza disciplinare della condotta. 3. La violazione del divieto di cui al comma 1 comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della censura.
L’art. 53 invece recita al primo comma che:
Art. 53 – Rapporti con i magistrati
1. I rapporti con i magistrati devono essere improntati a dignità e a reciproco rispetto.
Rileva la Corte che nella propria giurisprudenza è già stato affermato che sia responsabile dell'illecito disciplinare previsto dall'art. 53 del codice deontologico forense l'avvocato che sottoscriva un atto - nella specie di opposizione alla richiesta di archiviazione di un procedimento penale, ex art. 410 cod. proc. pen. - contenente espressioni offensive nei confronti del P.M. (Cass. S.U. n. 17776 del 22/07/2013), il che induce a confermare come la condotta contestata sia sicuramente idonea a configurare la violazione della norma che impone il reciproco rispetto tra avvocati e magistrati.
Tuttavia, con tale violazione deve reputarsi concorrere anche quella di cui al riportato art. 52, norma quest’ultima che è posta a presidio della tutela di interessi ulteriori rispetto a quelli garantiti dall’art. 53.
Sono proprio il mezzo ed il contesto nel quale avviene l’utilizzo delle espressioni sconvenienti ed offensive che denotano come, a differenza di quanto invece prescritto dall’art. 53, che impone il rispetto tra le due categorie anche al di fuori dell’esercizio delle reciproche attività, la norma di cui all’art. 52 mira ad assicurare il rispetto dei principi di lealtà e probità, già riaffermati nel codice di rito civile dagli artt. 88 e 89 c.p.c. Le regole di continenza e correttezza che devono essere rispettate dall’avvocato all’interno del processo e più genericamente nell’esercizio dell’attività professionale, per il caso di loro violazione trovano quindi una specifica previsione sanzionatoria nell’art. 52, ma laddove le espressioni sconvenienti ed offensive abbiano come bersaglio un magistrato, l’avere infranto le regole di reciproco rispetto giustifica la concorrente applicazione anche dell’art. 53 (in tal senso nella giurisprudenza del CNF, oltre alla pronuncia qui gravata, si veda anche le sentenze nn. 56/2019, 113/2018).
Può quindi affermarsi che mentre l’art. 53 delimita l’ambito etico nel quale devono estrinsecarsi i rapporti fra avvocati e magistrati, richiamando, al riguardo, i principi generali della pari dignità e del reciproco rispetto, l’art. 52 (ed ancor prima l’art. 20, prima delle più recenti modifiche), individua una specifica violazione dei canoni comportamentali, che potrebbe essere commessa per il tramite della redazione di atti processuali e comunque nell’esercizio dell’attività professionale, operando quindi a tutela del decoro e della dignità della stessa professione, dovendosi quindi reputare che l’utilizzo delle “espressioni sconvenienti ed offensive negli scritti in giudizio” ben può comportare la violazione di entrambe le norme.
7. Il settimo motivo denuncia la non corretta applicazione dell’art. 52 c. 1 del Codice deontologico forense, con la violazione e falsa applicazione dell’art. 111 co. 6, Cost., per difetto assoluto di motivazione.
Si sostiene che le espressioni contenute nella richiesta di opposizione all’archiviazione non appaiono connotate da offensività e sono prive della sconvenienza, non potendosi reputare che l’avere ipotizzato che la scelta del PM fosse ispirata dall’interesse a non scomodare come testi dei soggetti autorevoli sia sconveniente.
Il motivo è del pari inammissibile in quanto attinge anche in questo caso un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito.
Al riguardo va ribadito che, ai fini della responsabilità disciplinare dell'avvocato, le espressioni sconvenienti od offensive vietate dall'art. 20 del codice deontologico forense (nel testo applicabile "ratione temporis", oggi art. 52) rilevano di per sé, a prescindere dal contesto in cui sono usate e dalla veridicità dei fatti che ne sono oggetto (Cass. S.U. n. 11370 del 31/05/2016; Cass. S.U. n. 11370/2016), dovendosi escludere che tale divieto, appunto previsto a salvaguardia della dignità e del decoro della professione, si ponga in contrasto con il diritto, tutelato dall'art. 21 Cost., di manifestare liberamente il proprio pensiero, il quale non è assoluto ma trova concreti limiti nei concorrenti diritti dei terzi e nell'esigenza di tutelare interessi diversi, anch'essi costituzionalmente garantiti (Cass. S.U. n. 13168 del 17/05/2021).
Il CNF, con apprezzamento non suscettibile di rivisitazione in questa sede, ha reputato che la nemmeno tanto velata prospettazione di una anomala condotta processuale da parte del rappresentante dell’accusa, dettata anche dal possibile coinvolgimento nel procedimento scaturente dalla denuncia della ricorrente di soggetti nei cui confronti, come si ricava dal tenore suggestivo dell’atto, lo stesso PM avrebbe nutrito una sorta di timore reverenziale, eccedesse dai limiti di continenza dettati anche dalla norma deontologica per la redazione degli scritti processuali, non potendo la libera manifestazione del pensiero, invocata da parte ricorrente, consentire di travolgere le regole etiche e comportamentali poste a presidio della dignità e del decoro della professione.
8. Il ricorso è pertanto rigettato.
9. Nulla a disporre quanto alle spese, atteso il mancato svolgimento di attività difensiva da parte dell’intimato.
10. Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater dell’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 - della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
11. In accoglimento della richiesta della ricorrente si dispone che a cura della cancelleria sia apposta sull'originale della sentenza, un'annotazione volta a precludere, in caso di sua riproduzione in qualsiasi forma, l'indicazione delle generalità e di altri dati identificativi dell’interessata riportati sulla sentenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso;
Dispone che a cura della cancelleria sia apposta sull'originale della sentenza, un'annotazione volta a precludere, in caso di riproduzione della stessa in qualsiasi forma, l'indicazione delle generalità e di altri dati identificativi dell’interessata riportati sulla sentenza;
Ai sensi dell'art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall'art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13, se dovuto.