Entrambe le norme, una della Regione Sicilia e l'altra della Regione Lombardia, violavano la riserva allo Stato della tutela dell'ambiente stabilita dall'art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione.
- La Legge della Regione Lombardia n. 23 del 2021 che consentiva l'ampliamento della superficie dei fabbricati da destinare ad attività agrituristica, in assenza di un piano paesaggistico elaborato congiuntamente dallo Stato e dalla Regione. Il rischio di pregiudicare scelte, necessariamente da condividere, di tutela del paesaggio comporta la violazione della competenza statale stabilita dall'
art. 117, secondo comma, lettera s), Costituzione ,
- La Legge della Regione Siciliana n. 19 del 2021 che riapriva i termini per il condono edilizio di opere abusive in aree sottoposte a vincoli idrogeologici, culturali e paesaggistici. Anche in questo caso, la norma è stato considerata lesiva della riserva allo Stato della tutela dell'ambiente prevista dall'art. 117 cit., in quanto contrastante con la normativa statale di riferimento (art. 32, comma 27, lettera d), del D.L. n. 269 del 2003).
Corte costituzionale, sentenza (ud. 22 novembre 2022) 19 dicembre 2022, n. 251
Svolgimento del processo
1.– Con ricorso notificato il 17 febbraio 2022 e depositato il 23 febbraio 2022, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 1, lettera a), della legge della Regione Lombardia 16 dicembre 2021, n. 23 (Seconda legge di revisione normativa ordinamentale 2021), in riferimento agli artt. 3, 5, 9, 117, commi primo e secondo, lettere p) e s), e 118, commi primo e secondo, della Costituzione e al principio di leale collaborazione, in relazione: agli artt. 135, 143 e 145 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137); alla legge 9 gennaio 2006, n. 14 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione europea sul paesaggio, fatta a Firenze il 20 ottobre 2000); e all’art. 14, comma 27, lettera d), del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, nella legge 30 luglio 2010, n. 122.
1.1.– L’art. 6, comma 1, lettera a), della legge reg. Lombardia n. 23 del 2021 è impugnato, innanzitutto, in riferimento al principio di leale collaborazione e agli artt. 9 e 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione agli artt. 135, 143 e 145 cod. beni culturali e alla Convenzione europea del paesaggio.
Il citato art. 6, comma 1, lettera a), ha sostituito il secondo periodo del comma 3 dell’art. 154 della legge della Regione Lombardia 5 dicembre 2008, n. 31 (Testo unico delle leggi regionali in materia di agricoltura, foreste, pesca e sviluppo rurale), che, nel testo vigente prima della modifica operata dalla norma impugnata, recitava: «Il riuso degli immobili rurali destinati ad agriturismo, anche distaccati, può avvenire attraverso interventi di ristrutturazione edilizia, di restauro e risanamento conservativo e attraverso ampliamenti necessari all’adeguamento igienico-sanitario e tecnologico. È, altresì, consentito, per una sola volta, l’ampliamento nella misura massima del dieci per cento della superficie lorda di pavimento destinata a uso agrituristico sulla base della potenzialità agrituristica risultante dal certificato di connessione».
L’impugnato art. 6, comma 1, lettera a), ha sostituito solo il secondo periodo della disposizione, che ora recita: «è, altresì, consentito, per una sola volta, l’ampliamento nella misura massima del dieci per cento della superficie lorda dei fabbricati, individuati nel certificato di connessione, già destinati o da destinare all’attività agrituristica».
La modifica avrebbe dunque esteso la portata della disposizione di cui al citato art. 154, consentendo l’ampliamento, sempre nella misura del dieci per cento, della superficie lorda (e non di pavimento) dei fabbricati non solo già destinati, ma anche da destinare, in futuro, ad attività agrituristica.
1.1.1.– Secondo il ricorrente, tale «generalizzata» possibilità di realizzare incrementi volumetrici nella misura anzidetta sarebbe prevista «senza alcuna considerazione o riferimento al contesto paesaggistico». In particolare, il legislatore regionale non avrebbe tenuto conto che solo al piano paesaggistico elaborato d’intesa tra lo Stato e la Regione, secondo quanto previsto agli artt. 135, 143 e 145 cod. beni culturali, spetta stabilire, per ciascuna area tutelata, le prescrizioni d’uso (cioè i criteri di gestione del vincolo, volti a orientare la fase autorizzatoria) e individuare la tipologia delle trasformazioni compatibili e di quelle vietate, nonché le condizioni delle eventuali trasformazioni.
L’art. 6 impugnato sarebbe, pertanto, costituzionalmente illegittimo perché si porrebbe in contrasto con la normativa statale che rimette al piano paesaggistico la cosiddetta “vestizione” dei vincoli, vale a dire la disciplina d’uso dei beni paesaggistici.
La difesa erariale richiama la normativa statale e la giurisprudenza di questa Corte che sanciscono l’inderogabilità delle previsioni del già menzionato strumento da parte di piani, programmi e progetti nazionali o regionali di sviluppo economico, la loro cogenza rispetto agli strumenti urbanistici e l’immediata prevalenza del piano paesaggistico su ogni altro atto di pianificazione territoriale e urbanistica.
Il ricorrente sottolinea, altresì, l’esistenza di un vero e proprio obbligo di elaborazione congiunta del piano paesaggistico, cui la Regione Lombardia si sarebbe sottratta «ingiustificatamente», con la norma impugnata.
Né si potrebbe ritenere che la denunciata illegittimità costituzionale sia esclusa dal fatto che la norma in esame non prevede la possibilità di realizzare gli incrementi volumetrici in contrasto con la pianificazione paesaggistica, né dal fatto che tali interventi sono comunque subordinati al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica.
Quanto all’irrilevanza della mancata previsione della possibilità di derogare alla pianificazione paesaggistica, la difesa statale sottolinea come tale possibilità sia esclusa dal fatto che la Regione Lombardia non si è ancora munita di un piano paesaggistico adottato in esito al procedimento di co-pianificazione e con i contenuti di cui agli artt. 135 e 143 cod. beni culturali.
Quanto, invece, alla subordinazione di qualsiasi intervento all’autorizzazione paesaggistica, il Presidente del Consiglio dei ministri richiama l’evoluzione normativa in materia, ricordando come, sin dalla legge 29 giugno 1939, n. 1497 (Protezione delle bellezze naturali) (cosiddetta “legge Bottai”), siano previsti tre diversi strumenti a tutela del paesaggio: il vincolo, l’autorizzazione paesaggistica e il piano paesaggistico. Il ruolo sempre più pregnante assegnato a quest’ultimo deriverebbe dalla consapevolezza che il provvedimento singolare non è sufficiente a presidiare adeguatamente i valori paesaggistici. L’autorizzazione consentirebbe, infatti, di valutare solo il singolo intervento in sé considerato e non permetterebbe di considerare «l’effetto derivante dal cumulo delle trasformazioni».
Da quanto detto deriverebbe la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione agli artt. 135, 143 e 145 cod. beni culturali.
1.1.2.– Il ricorrente aggiunge che il 21 luglio 2017 la Regione Lombardia ha sottoscritto con il Ministero per i beni e le attività culturali (oggi, Ministero della cultura) un protocollo di intesa per la redazione congiunta del piano paesaggistico, e riferisce di interlocuzioni in corso, al momento dell’impugnazione, finalizzate al suo rinnovo.
Il carattere unilaterale dell’iniziativa assunta dalla Regione configurerebbe pertanto una violazione del principio di leale collaborazione.
1.1.3.– Sarebbe altresì violato l’art. 9 Cost., a causa dell’abbassamento del livello di tutela determinato dalla norma impugnata.
1.1.4.– L’art. 6, comma 1, lettera a), si porrebbe in contrasto, altresì, con «il principio di necessaria considerazione dei valori paesaggistici del territorio, anche non vincolato, e della sua apposita pianificazione».
Il ricorrente sottolinea come tutto il paesaggio, incluso il territorio non assoggettato al regime dei vincoli paesaggistici, costituisca comunque oggetto di tutela ai sensi della Convenzione europea del paesaggio, dalla cui sottoscrizione discenderebbe l’impegno alla necessaria pianificazione dell’intero territorio e alla specifica considerazione dei relativi valori paesaggistici, anche per le parti che non sono oggetto di tutela quali beni paesaggistici.
A seguito del recepimento della Convenzione europea del paesaggio, il decreto legislativo 26 marzo 2008, n. 63 (Ulteriori disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, in relazione al paesaggio) avrebbe fatto rifluire i suoi contenuti nell’art. 135 cod. beni culturali. Pertanto, la previsione di interventi di impatto assai rilevante sul territorio, quali quelli introdotti dalla norma impugnata, sarebbe dovuta avvenire con il piano paesaggistico.
Di conseguenza, la previsione impugnata violerebbe l’art. 117, commi primo e secondo, lettera s), Cost., rispetto ai quali costituirebbero norme interposte la legge n. 14 del 2006, di recepimento della Convenzione europea del paesaggio, nonché gli artt. 135, 143 e 145 cod. beni culturali.
1.1.5.– L’art. 6, comma 1, lettera a), violerebbe, inoltre, l’art. 3 Cost. per manifesta arbitrarietà e irragionevolezza, in quanto recherebbe una disciplina, di carattere strutturale, destinata a incidere in modo indiscriminato sui diversi contesti, a prescindere dai profili di pregio agricolo, ecologico e paesaggistico dei singoli ambiti, dalla attuale destinazione degli edifici ad attività agrituristiche, dalle dimensioni di partenza del fabbricato, nonché dall’eventuale sussistenza di altri fattori che abbiano compromesso il contesto agricolo.
1.1.6.– Secondo il ricorrente i descritti profili di illegittimità costituzionale troverebbero conferma nella giurisprudenza costituzionale in tema di reiterazione delle discipline derogatorie alla pianificazione urbanistica comunale, operata, in particolare, per il tramite dei cosiddetti piani casa regionali (sono richiamate le sentenze n. 24 del 2022 e n. 219 del 2021 di questa Corte). Con le pronunce citate, infatti, sarebbero state dichiarate costituzionalmente illegittime alcune norme regionali per aver compromesso la pianificazione paesaggistica.
1.2.– L’art. 6, comma 1, lettera a), è impugnato anche in riferimento agli artt. 5, 117, secondo comma, lettera p), e 118, commi primo e secondo, Cost., in relazione all’art. 14, comma 27, lettera d), del d.l. n. 78 del 2010, come convertito.
In particolare, la norma impugnata realizzerebbe un’indebita compressione della potestà dei comuni di pianificare il proprio territorio, in violazione della competenza legislativa esclusiva statale in tema di funzioni fondamentali dei comuni e del principio di sussidiarietà verticale, di cui agli anzidetti parametri costituzionali.
La difesa erariale sottolinea come il legislatore statale, nell’esercizio della competenza di cui all’art. 117, secondo comma, lettera p), Cost., abbia individuato, quali funzioni fondamentali dei comuni, «la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale» (art. 14, comma 27, lettera d, del d.l. n. 78 del 2010, come convertito). Tali funzioni fondamentali dei comuni sarebbero state compresse oltre misura dal legislatore regionale (è citata al riguardo la sentenza di questa Corte n. 202 del 2021), perché le modalità e l’entità delle premialità volumetriche previste dalla norma impugnata condizionerebbero l’esercizio della funzione comunale di pianificazione urbanistica «oltre la soglia dell’adeguatezza e della necessità» (è richiamata la sentenza n. 119 del 2020).
In particolare – precisa l’Avvocatura generale dello Stato – la previsione censurata si combinerebbe con le altre recate dall’art. 154 della legge reg. Lombardia n. 31 del 2008, il quale consente l’utilizzazione «per attività agrituristiche [di] tutti gli edifici in possesso del requisito di ruralità rilevante ai fini fiscali, già esistenti da almeno tre anni, a condizione che la loro destinazione all’attività agrituristica non comprometta l’esercizio dell’attività agricola» (comma 1) e stabilisce che tali edifici rurali «sono compatibili con ogni destinazione d’uso prevista dagli strumenti urbanistici comunali e sovracomunali» (comma 2).
Il ricorrente ne deduce che le premialità volumetriche previste dalla norma impugnata, «in quanto riferite agli edifici destinati o da destinare ad attività agrituristiche», sono consentite in modo indiscriminato in tutte le zone agricole, a prescindere quindi dall’esistenza di profili di pregio paesaggistico e dagli standard di densità edilizia particolarmente restrittivi cui soggiacciono. Sicché la loro previsione e l’impossibilità di modularle ridurrebbero in modo indebito i poteri dei comuni di pianificare il proprio territorio, impedendo loro fra l’altro di assicurare prevalenza, in determinati contesti, a interessi costituzionali anche primari, come, ad esempio, la tutela del paesaggio agrario, rispetto all’interesse economico privato.
1.3.– Da ultimo, il Presidente del Consiglio dei ministri precisa, «[a]l fine di prevenire infondate eccezioni», che non sarebbe risolutiva dell’odierno giudizio la mancata impugnazione dell’art. 1, comma 1, lettera d), della legge della Regione Lombardia 18 giugno 2019, n. 11, recante «Modifiche alla legge regionale 5 dicembre 2008, n. 31 (Testo unico delle leggi regionali in materia di agricoltura, foreste, pesca e sviluppo rurale)», che ha, tra l’altro, sostituito l’art. 154 della legge reg. Lombardia n. 31 del 2008, prevedendo l’ampliamento del dieci per cento, di cui si è detto. A tale fine la difesa statale richiama la giurisprudenza di questa Corte sulla non applicazione, nei giudizi promossi in via principale, dell’istituto dell’acquiescenza.
2.– La Regione Lombardia si è costituita in giudizio chiedendo che le questioni promosse siano dichiarate inammissibili e non fondate.
Preliminarmente, sottolinea come la novità introdotta dalla norma impugnata risieda, fermo restando il concetto di superficie lorda, nell’inciso «da destinare», che, a suo dire, lascerebbe la facoltà dell’ampliamento anche in caso di primo rilascio del certificato di connessione, non essendo richiesto il già avvenuto avvio dell’attività. In proposito, la resistente precisa che il certificato de quo attesta il rapporto di connessione fra l’attività agricola e quella agrituristica ai sensi dell’art. 152 della legge reg. Lombardia n. 31 del 2008.
La medesima difesa chiede pertanto che questa Corte, ove ritenga ammissibili le questioni promosse, consideri l’impugnazione limitata alla parte in cui l’art. 6, comma 1, lettera a), della legge reg. Lombardia n. 23 del 2021 ha aggiunto le parole «o da destinare» nel testo previgente dell’art. 154, comma 3, della legge reg. Lombardia n. 31 del 2008.
2.1.– Quanto al primo motivo di ricorso (supra, punto 1.1.), la resistente sostiene che il Presidente del Consiglio dei ministri ha attribuito alla norma regionale «effetti ed ambiti di materia che non ha». A tale fine, la difesa regionale ricostruisce le disposizioni in materia di edilizia agrituristica, a partire dall’art. 3 della legge 20 febbraio 2006, n. 96 (Disciplina dell’agriturismo), che impegna in questo ambito le regioni a rispettare, non solo le specifiche caratteristiche tipologiche e architettoniche del patrimonio edilizio esistente, ma anche le «caratteristiche paesaggistico-ambientali dei luoghi». Disposizione, questa, ritenuta recante un principio fondamentale della materia «governo del territorio» (è richiamata la sentenza n. 339 del 2007 di questa Corte).
La norma regionale impugnata detterebbe prescrizioni non contrastanti con tale principio e anzi dirette al medesimo fine, giacché essa non sottrarrebbe in alcun modo l’ampliamento della superficie dei fabbricati rurali alla pianificazione paesaggistica.
La resistente ritiene, inoltre, che il riferimento, contenuto nel ricorso, al protocollo di intesa siglato dalla Regione Lombardia e dal Ministero della cultura non sia «significativo», anche perché avente durata triennale e dunque scaduto nel luglio 2020. Al riguardo, la Regione precisa di averne richiesto più volte al Ministero il rinnovo per procedere all’attività di co-pianificazione. Riferisce inoltre che il Ministero avrebbe risposto alle sue istanze il 17 gennaio 2022, dichiarando di ritenere opportuno il rinvio della definizione del processo di co-pianificazione a un momento successivo alla conclusione dell’iter di approvazione, in corso al momento dell’impugnazione, da parte della Regione del progetto di valorizzazione del paesaggio.
La resistente precisa altresì che, nelle more dell’approvazione del piano paesaggistico regionale (PPR) co-pianificato con il Ministero della cultura, la medesima Regione si è dotata di diversi strumenti di natura paesaggistica e, tra questi, del piano territoriale regionale (PTR). Questo piano, approvato con delibera del Consiglio della Regione Lombardia 19 gennaio 2010, n. 951, «ha natura ed effetti di piano territoriale paesaggistico ai sensi della vigente legislazione» (in base a quanto previsto dall’art. 19, comma 1, della legge della Regione Lombardia 11 marzo 2005, n. 12 «Legge per il governo del territorio»). Di conseguenza, in attesa che sia definito il processo di co-pianificazione, una sezione specifica del PTR è costituita dal PPR (non co-pianificato), che per questa parte ha recepito e aggiornato il piano territoriale paesistico regionale (PTPR) vigente in Lombardia dal 2001.
In particolare, l’art. 35 del PPR (incluso attualmente nel PTR) prevederebbe l’esame paesistico anche in aree non soggette a vincolo; inoltre, le aree agricole sarebbero, comunque, sottoposte a specifica disciplina ai sensi dell’art. 59 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005.
In ogni caso – ribadisce la difesa regionale – quanto appena detto non avrebbe alcuna connessione con la norma impugnata, la quale, nel prevedere la possibilità di aumento di superficie per i fabbricati da destinare ad attività agrituristiche, non interferirebbe in alcun modo con gli obblighi fissati dal codice dei beni culturali e del paesaggio, restando impregiudicato il rispetto dei vincoli culturali e paesaggistici e della relativa disciplina.
La norma impugnata avrebbe «uno stretto carattere urbanistico» e, in quanto tale, sarebbe espressione della competenza legislativa regionale concorrente in materia di governo del territorio ex art. 117, terzo comma, Cost. e di quella esclusiva in materia di agricoltura, senza porsi in contrasto con i principi generali di tutela del paesaggio di cui al suddetto codice.
La Regione ritiene pertanto che la doglianza del ricorrente, legata alla mancanza di un piano paesaggistico predisposto in attuazione del principio di leale collaborazione (dovuta, peraltro, alla complessità dell’intervento), non può tradursi in una censura avverso una norma che disciplina altro. Muovendo da tale prospettiva non sarebbe pertinente il richiamo alla sentenza n. 24 del 2022 di questa Corte, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme dettate dalla Regione autonoma Sardegna in materia di piano casa, in quanto recanti un’ulteriore proroga di disposizioni in deroga alla pianificazione urbanistica.
2.2.– Quanto al secondo motivo di ricorso (supra, punto 1.2.), la resistente ritiene che la norma impugnata si limiti a confermare la possibilità di un ampliamento nella misura massima del dieci per cento, senza che ciò determini alcuna compressione della potestà pianificatoria del comune, che ben potrebbe stabilire un limite diverso, pur sempre entro il detto limite massimo.
3.– In prossimità dell’udienza la Regione Lombardia ha depositato una memoria nella quale, oltre a ribadire gli argomenti già illustrati nell’atto di costituzione, sottolinea che una disposizione regionale non può ritenersi derogatoria delle norme del codice dei beni culturali e del paesaggio solo perché omette di richiamare, totalmente o parzialmente, le previsioni del piano paesaggistico e del codice, in difetto di esplicite indicazioni di segno contrario (sono citate le sentenze n. 187 del 2022 e n. 189 del 2016 di questa Corte).
Quanto all’assenza di un piano paesaggistico co-deciso, la difesa regionale precisa che il primo piano paesistico della Lombardia è stato approvato nel 2001, prima ancora dunque che esso fosse richiesto dal codice di settore, e che lo stesso piano è stato poi aggiornato nel 2010, con la delibera consiliare n. 951 che lo ha consolidato e aggiornato, integrandone e adeguandone i contenuti descrittivi e normativi e confermandone l’impianto generale e le finalità di tutela.
Peraltro, aggiunge la resistente, il PPR (incluso nel PTR) non è mai stato contestato dal Ministero competente, né quest’ultimo ha inteso esercitare il potere sostitutivo di cui all’art. 143, comma 2, cod. beni culturali.
Infine, in relazione al secondo motivo di ricorso, la Regione ribadisce che la possibilità di ampliare i fabbricati rurali nella misura massima del dieci per cento non è stata introdotta dalla legge regionale impugnata ma era già prevista nella normativa pregressa.
4.– Anche il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato una memoria nella quale, in via preliminare, rileva come, a fronte della richiesta da parte della Regione di una pronuncia di inammissibilità, nessun argomento a sostegno sia addotto ex adverso.
La difesa erariale ribadisce gli argomenti già illustrati nel ricorso a favore dell’illegittimità costituzionale della norma impugnata, precisando che essa non si limita a stabilire l’utilizzazione per fini agrituristici di fabbricati già esistenti per lo svolgimento di attività connesse, ma ammette la indiscriminata possibilità di ampliamento di immobili esistenti che saranno destinati ad attività agrituristica. Tale previsione, che consente quindi interventi non meramente conservativi senza che sussista «alcuna connessione attuale che giustifichi l’espansione volumetrica», inciderebbe in maniera manifesta sul contesto paesaggistico circostante, con conseguente invasione della competenza legislativa statale in materia.
Il ricorrente insiste, poi, nel ritenere rilevante la mancata adozione di un PPR co-pianificato tra Stato e Regione; il valore programmatico di tale strumento sarebbe, infatti, strumentale a un’organica gestione, sull’intero territorio nazionale, delle trasformazioni inerenti ai beni immobili in zona di pregio paesaggistico. Non avrebbe, dunque, alcun valore la presenza di piani territoriali adottati in via autonoma dalla Regione stessa, senza la necessaria co-pianificazione.
Quanto al protocollo di intesa siglato nel 2017, la difesa statale precisa che la Regione Lombardia ha omesso, nei tre anni della sua vigenza, di adottare il PPR di concerto con il Ministero e che, al termine del periodo di validità di questo accordo, le parti erano in procinto di rinnovarlo ma non si è giunti alla sua sottoscrizione. In questo quadro si inserirebbe la norma impugnata, che, pertanto, contrasterebbe in maniera palese con il dovere di leale collaborazione che grava sullo Stato e sulle regioni.
In relazione al secondo motivo di ricorso, il Presidente del Consiglio dei ministri contesta l’esistenza di un rapporto di continuità tra le varie disposizioni che si sono susseguite nella disciplina del previsto incremento volumetrico. In particolare, ritiene che vi sia una «manifesta e sostanziale differenza» tra la disposizione previgente e quella oggetto di impugnativa, in quanto nella prima l’ampliamento del dieci per cento era ammesso solo per i beni destinati a uso agrituristico, mentre nella seconda questa possibilità è riconosciuta «in virtù di una non meglio specificata futura, eventuale, destinazione ad attività connesse all’agricoltura» degli immobili in questione.
Infine, richiamando la giurisprudenza amministrativa in materia, la difesa statale rileva che il legislatore regionale non può comprimere o annullare i poteri urbanistici dei comuni, ma può soltanto garantire forme adeguate di partecipazione dei comuni stessi ai procedimenti che ne condizionano l’autonomia. Ipotesi, questa, che non ricorrerebbe nel caso di specie, in cui si è in presenza di una previsione generalizzata e incidente su zone di indiscusso pregio paesaggistico, tale da comportare una rilevante compressione delle prerogative comunali in materia di pianificazione urbanistica.
5.– All’udienza, le parti hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni rassegnate nei rispettivi atti.
Motivi della decisione
1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 1, lettera a), della legge reg. Lombardia n. 23 del 2021, in riferimento agli artt. 3, 5, 9, 117, commi primo e secondo, lettere p) e s), e 118, commi primo e secondo, Cost. e al principio di leale collaborazione, in relazione: agli artt. 135, 143 e 145 cod. beni culturali, alla Convenzione europea sul paesaggio e all’art. 14, comma 27, lettera d), del d.l. n. 78 del 2010, come convertito.
2.– Prima di esaminare le censure mosse dalla difesa statale, occorre ricostruire il contesto normativo nel quale si colloca la disposizione impugnata.
2.1.– Essa ha inciso sul comma 3 dell’art. 154 della legge reg. Lombardia n. 31 del 2008, che, nel testo vigente prima della modifica, recitava: «Il riuso degli immobili rurali destinati ad agriturismo, anche distaccati, può avvenire attraverso interventi di ristrutturazione edilizia, di restauro e risanamento conservativo e attraverso ampliamenti necessari all’adeguamento igienico-sanitario e tecnologico. È, altresì, consentito, per una sola volta, l’ampliamento nella misura massima del dieci per cento della superficie lorda di pavimento destinata a uso agrituristico sulla base della potenzialità agrituristica risultante dal certificato di connessione».
L’impugnato art. 6, comma 1, lettera a), ha dunque sostituito solo il secondo periodo del comma 3 del citato art. 154, che ora è del seguente tenore: «È, altresì, consentito, per una sola volta, l’ampliamento nella misura massima del dieci per cento della superficie lorda dei fabbricati, individuati nel certificato di connessione, già destinati o da destinare all’attività agrituristica».
L’art. 154 della legge reg. Lombardia n. 31 del 2008 è stato oggetto di numerose modifiche, anche successive alla proposizione dell’odierno ricorso; modifiche che hanno interessato il suo contenuto, la sua numerazione e la sua rubrica.
La disposizione originaria era infatti rubricata «Locali da utilizzare nell’attività agrituristica» ed era riportata sub art. 155 della legge reg. Lombardia n. 31 del 2008, per poi divenire – a seguito dell’art. 1, comma 1, della legge reg. Lombardia n. 11 del 2019 – «Locali da destinare ad attività agrituristiche», assumendo l’odierna numerazione di art. 154.
Da ultimo, dopo l’impugnativa oggetto dell’odierno giudizio, il testo dell’art. 154 è stato modificato dall’art. 5, comma 2, della legge della Regione Lombardia 20 maggio 2022, n. 8 (Prima legge di revisione normativa ordinamentale 2022), il quale ha anche riscritto la rubrica, che oggi recita: «Fabbricati da destinare ad attività agrituristiche». Peraltro, le modifiche successive alla proposizione dell’odierno ricorso non hanno interessato il secondo periodo del comma 3 dell’art. 154, sostituito dalla norma impugnata.
2.2.– Quest’ultima ha, però, mantenuto sostanzialmente inalterata la struttura del testo previgente.
Dal confronto tra i due testi si deduce che le modifiche sono consistite nella sostituzione della superficie di riferimento (da quella lorda di pavimento a quella lorda dei fabbricati) e nella estensione della possibilità di ampliamento anche ai fabbricati «da destinare» all’attività agrituristica, ma «individuati nel certificato di connessione».
Inoltre, il testo previgente faceva riferimento alla «superficie lorda di pavimento destinata a uso agrituristico sulla base della potenzialità agrituristica risultante dal certificato di connessione».
2.3.– Stando alle scarne indicazioni desumibili dai lavori preparatori, la modifica operata con la disposizione impugnata sarebbe diretta «ad una migliore formulazione della disposizione di cui al secondo periodo del comma 3 dell’art. 154 della l.r. 31/2008 nel senso di: a) eliminare il riferimento al pavimento in quanto, a seguito del regolamento edilizio-tipo (R.E.T.), recepito con D.G.R. 24 ottobre 2018 - n. XI/695, il parametro SLP non si usa più, dovendosi usare il parametro SL (superficie lorda), così definito: “Somma delle superfici di tutti i piani comprese nel profilo perimetrale esterno dell’edificio escluse le superfici accessorie”; b) precisare che l’ampliamento è consentito anche in sede di primo rilascio del certificato di connessione, non essendo richiesto l’avvio dell’attività» (così la relazione approvata il 24 novembre 2021 dalla Commissione consiliare II «Affari istituzionali»).
3.– Ricostruiti la portata e il significato della disposizione impugnata, deve essere innanzitutto superato il dubbio sull’ammissibilità dell’impugnazione sollevato dalla resistente. La stessa difesa regionale, infatti, non fa seguire, alla richiesta di una declaratoria di inammissibilità delle questioni promosse, l’indicazione e l’illustrazione di specifiche ragioni a suo sostegno, cosicché si deve financo escludere che sia stata formulata una vera e propria eccezione di inammissibilità.
4.– Sempre in via preliminare, è necessario definire il thema decidendum.
Al riguardo, deve essere respinta la richiesta della difesa regionale di «considerare l’impugnazione, ove ritenuta ammissibile, rivolta […] alla parte in cui sono state aggiunte al testo previgente dell’art. 154, comma 3, secondo periodo della LR n. 31/2008 le parole “o da destinare”», giacché il gravame ha invece ad oggetto l’intero secondo periodo del comma 3 del citato art. 154, come appunto sostituito dall’art. 6, comma 1, lettera a), impugnato.
Questa Corte non può che constatare, del resto, come le due ragioni di censura sviluppate nel ricorso investano, sia da un punto di vista strettamente letterale, sia da uno sostanziale, l’intera disposizione impugnata e non solo le parole «o da destinare».
Deve, pertanto, ritenersi che oggetto delle odierne questioni sia l’intero art. 6, comma 1, lettera a), della legge reg. Lombardia n. 23 del 2021.
5.– Restando sempre ai profili preliminari, correttamente la difesa statale esclude che la mancata impugnazione del testo previgente dell’art. 154 della legge reg. Lombardia n. 31 del 2008 – che già consentiva l’ampliamento, nella misura massima del dieci per cento, della superficie di pavimento degli immobili rurali destinati ad agriturismo – possa determinare una sorta di tacita accettazione della previsione regionale, con conseguente inammissibilità delle odierne questioni.
Questa Corte ha ripetutamente affermato che «l’ammissibilità del ricorso in via principale non è preclusa dal carattere confermativo o riproduttivo di una disposizione rispetto ad altra norma non impugnata, in quanto “ogni provvedimento legislativo esiste a sé e può formare oggetto di autonomo esame ai fini dell’accertamento della sua legittimità: l’istituto dell’acquiescenza non si applica ai giudizi in via principale, atteso che la norma impugnata ha comunque l’effetto di reiterare la lesione da cui deriva l’interesse a ricorrere dello Stato (ex plurimis, sentenze n. 237, n. 98 e n. 60 del 2017, n. 39 del 2016, n. 215 e n. 124 del 2015)” (sentenza n. 25 del 2021). Di conseguenza, una disposizione ripetitiva di una precedente norma è comunque impugnabile e oggetto di censura anche rispetto al contenuto riproduttivo o di rinvio» (sentenza n. 23 del 2022; tra le più recenti, anche sentenze n. 24, n. 21 e n. 5 del 2022).
6.– Si può quindi procedere ad esaminare il primo gruppo di censure prospettate dal Presidente del Consiglio dei ministri.
L’art. 6, comma 1, lettera a), della legge reg. Lombardia n. 23 del 2021 è impugnato, innanzitutto, in riferimento al principio di leale collaborazione e agli artt. 9 e 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione agli artt. 135, 143 e 145 cod. beni culturali.
Il ricorrente muove dalla specifica situazione della Regione Lombardia, nella quale manca una pianificazione paesaggistica frutto dell’elaborazione congiunta di Stato e Regione, per sottolineare che solo al piano paesaggistico frutto della copianificazione spetterebbe individuare la tipologia delle trasformazioni compatibili e di quelle vietate, nonché le condizioni delle eventuali trasformazioni. Ciò determinerebbe la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione agli artt. 135, 143 e 145 cod. beni culturali.
Del pari sarebbe violato il principio di leale collaborazione, poiché il carattere unilaterale dell’iniziativa assunta dalla Regione si porrebbe in contrasto con il protocollo d’intesa sottoscritto il 21 luglio 2017 dalla Regione Lombardia e dal Ministero per i beni e le attività culturali (oggi, Ministero della cultura), avente ad oggetto la redazione congiunta del piano paesaggistico.
Infine, sarebbe violato l’art. 9 Cost., a causa dell’abbassamento del livello di tutela paesaggistica determinato dalla norma impugnata.
Questa Corte ritiene che le censure appena illustrate debbano essere trattate congiuntamente perché tutte riconducibili a un’unica ragione di impugnativa.
6.1.– Le questioni sono fondate.
6.2.– Consentendo l’ampliamento, nella misura massima del dieci per cento, della superficie lorda (e non di pavimento) dei fabbricati da destinare ad attività agrituristica, la disposizione regionale impugnata introduce la possibilità di aumentare la volumetria degli edifici esistenti in zona agricola, e ciò stabilisce senza prevedere al contempo una espressa e adeguata clausola di salvaguardia dei beni sottoposti a tutela paesaggistica.
Non sono infatti idonei ad assolvere a questa specifica funzione di salvaguardia, né il generico riferimento alla tutela del paesaggio (indicato tra le finalità perseguite dalla Regione) contenuto nell’art. 150, comma 1, lettera b), della stessa legge reg. Lombardia n. 31 del 2008, né l’altrettanto generica previsione recata dall’art. 3, comma 2, della legge statale n. 96 del 2006 di disciplina dell’agriturismo, che attribuisce alle regioni il compito di disciplinare «gli interventi per il recupero del patrimonio edilizio esistente ad uso dell’imprenditore agricolo ai fini dell’esercizio di attività agrituristiche, nel rispetto delle specifiche caratteristiche tipologiche e architettoniche, nonché delle caratteristiche paesaggistico-ambientali dei luoghi».
Si tratta, in entrambi i casi, di disposizioni che indicano in via generale le finalità e gli obiettivi che devono essere perseguiti dalla normativa regionale in materia di agriturismo, senza che da esse possano desumersi vincoli puntuali a tutela dei valori paesaggistici di volta in volta rilevanti nei singoli interventi di trasformazione del territorio.
6.3.– Nel caso di specie, d’altro canto, l’omessa indicazione, da parte della norma regionale impugnata, della espressa necessità di rispettare il piano paesaggistico o il codice di settore non può ritenersi compensata dalla possibilità di un’interpretazione rispettosa dei vincoli suddetti.
Come questa Corte ha ripetutamente affermato, invero, una tale omissione non determina di per sé l’illegittimità costituzionale della disposizione solo ove nella stessa regione sia operante un piano paesaggistico approvato secondo quanto previsto dagli artt. 135, 143 e 145 cod. beni culturali (sentenze n. 187 e n. 24 del 2022, n. 124 e n. 54 del 2021). Laddove invece un piano paesaggistico codeciso tra lo Stato e la regione non sia stato ancora approvato, «occorre maggiore cautela nel valutare la portata precettiva delle norme che intersechino profili attinenti con tale pianificazione», e ciò «[n]on perché la Regione non possa in nessun caso attivare le proprie competenze legislative, ma perché va evitato il rischio che esse […] permettano il consolidamento di situazioni tali da ostacolare il compiuto sviluppo della pianificazione paesaggistica» (sentenza n. 187 del 2022).
Pertanto, «[i] ritardi nella elaborazione del piano paesaggistico […], sebbene contrari agli obblighi gravanti sulla Regione e tali da produrre gravi disfunzioni (con conseguenti eventuali responsabilità)» devono essere compensati con l’esplicitazione del necessario rispetto della normativa posta a tutela del paesaggio (sempre sentenza n. 187 del 2022).
Dirimente è, quindi, la circostanza che la pianificazione paesaggistica nella Regione Lombardia è attualmente rimessa non a un piano codeciso fra Stato e Regione, ma al piano territoriale regionale (PTR), approvato dal Consiglio regionale con deliberazione 19 gennaio 2010, n. 951, e successivamente modificato e integrato. In particolare, la sezione 3 del PTR contiene il piano paesaggistico regionale (PPR), che ha recepito, consolidato e aggiornato il piano territoriale paesistico regionale (PTPR) vigente in Lombardia dal 2001 (artt. 19 e 102 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005).
Per quanto, dunque, non si possa negare che la Regione Lombardia risulti dotata – e lo sia in effetti già da prima dell’entrata in vigore del codice dei beni culturali e del paesaggio – di uno strumento di pianificazione specificamente orientato alla tutela del paesaggio, tuttora operante come parte del PTR, è altrettanto evidente che tale pianificazione esprime scelte imputabili in via esclusiva alla Regione stessa, alle quali lo Stato è rimasto estraneo, e che resta ancora inattuato, nella Regione, il modello di pianificazione paesaggistica prescritto dal medesimo codice, il cui tratto caratterizzante è costituito appunto dall’elaborazione congiunta dello Stato e della Regione.
L’indiscussa prevalenza del piano paesaggistico così elaborato, ripetutamente ribadita da questa Corte (tra le più recenti, sentenze n. 240, n. 229, n. 221, n. 192, n. 187, n. 45 e n. 24 del 2022; n. 261, n. 257, n. 251, n. 201, n. 164, n. 141, n. 74, n. 54 e n. 29 del 2021; n. 276 e n. 240 del 2020), non costituisce una mera petizione di principio, ma sottende quel «dovere di assicurare “che tutto il territorio sia adeguatamente conosciuto, salvaguardato, pianificato e gestito in ragione dei differenti valori espressi dai diversi contesti” (art. 135, comma 1, cod. beni culturali)». Dovere che «rinviene il suo imprescindibile presupposto nella visione d’insieme delle aree da tutelare e dei contesti in cui le medesime sono inserite» (sentenza n. 187 del 2022).
I principi di elaborazione congiunta, inderogabilità e prevalenza del piano paesaggistico si impongono, quindi, al legislatore regionale, il quale non può né esplicitamente derogare ai vincoli della pianificazione paesaggistica, né aggirarli introducendo, in assenza del piano codeciso, previsioni atte a pregiudicare le scelte condivise di tutela che nel piano stesso troveranno necessaria espressione.
In definitiva, la mancanza di un piano paesaggistico frutto del pieno coinvolgimento dello Stato e della Regione e l’impossibilità di trarre dalla normativa regionale un’interpretazione tale da far ritenere comunque operanti i vincoli paesaggistici determinano l’illegittimità costituzionale della norma impugnata per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. in relazione al principio della necessaria copianificazione paesaggistica e, in connessione con esso, al principio di leale collaborazione.
6.4.– È violato, infine, anche l’art. 9 Cost. in ragione dell’evidente abbassamento del livello di tutela paesaggistica derivante da una previsione che estende la possibilità di ampliamento dei fabbricati rurali, senza considerare gli effetti sul paesaggio.
6.5.– Per tutte queste ragioni, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 1, lettera a), della legge reg. Lombardia n. 23 del 2021.
7.– Restano assorbite le ulteriori censure promosse nei confronti della medesima norma.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
Dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 1, lettera a), della legge della Regione Lombardia 16 dicembre 2021, n. 23 (Seconda legge di revisione normativa ordinamentale 2021).
Corte costituzionale, sentenza (ud. 23 novembre 2022) 19 dicembre 2022, n. 252
Svolgimento del processo
1.– Con ricorso depositato il 6 ottobre 2021 (reg. ric. 56 del 2021), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge della Regione Siciliana 29 luglio 2021, n. 19 (Modifiche alla legge regionale 10 agosto 2016, n. 16 in materia di compatibilità delle costruzioni realizzate in aree sottoposte a vincolo), in riferimento agli artt. 3, 117, secondo comma, lettere l) ed s), 123 e 127 della Costituzione, nonché in riferimento agli artt. 14 e 27 del regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione dello statuto della Regione siciliana), convertito nella legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2.
La legge reg. Siciliana n. 19 del 2021 si compone di due articoli, l’art. 1, strutturato in due commi (di cui solo il primo è oggetto dell’odierno gravame), e l’art. 2, che regola l’entrata in vigore della legge.
Con la disposizione impugnata, il legislatore regionale intende fornire l’interpretazione autentica dell’art. 24 della legge della Regione Siciliana 5 novembre 2004, n. 15 (Misure finanziarie urgenti. Assestamento del bilancio della Regione e del bilancio dell’Azienda delle foreste demaniali della Regione siciliana per l’anno finanziario 2004. Nuova decorrenza di termini per la richiesta di referendum), che ha attuato in Sicilia il cosiddetto terzo condono edilizio, introdotto dall’art. 32 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella legge 24 novembre 2003, n. 326.
Ai sensi del citato art. 24, comma 1, è consentita, dalla data di entrata in vigore della legge, la presentazione dell’istanza per il rilascio della concessione edilizia in sanatoria «ai sensi dell’art. 32 del decreto-legge n. 269 del 2003»; inoltre, sempre il richiamato art. 24 – in forza dell’art. 1, comma 1, della legge reg. Siciliana n. 19 del 2021 – deve essere interpretato nel senso che è ammissibile la sanatoria delle opere abusive «realizzate nelle aree soggette a vincoli che non comportino inedificabilità assoluta».
Più nel dettaglio, la disposizione impugnata inserisce, nella legge della Regione Siciliana 10 agosto 2016, n. 16 (Recepimento del Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia approvato con decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380), l’art. 25-bis, rubricato «Norme di interpretazione autentica», in base al quale:
«1. L’articolo 24 della legge regionale 5 novembre 2004, n. 15 si interpreta nel senso che sono recepiti i termini e le forme di presentazione delle istanze presentate ai sensi dell’articolo 32 del decreto legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito con modificazioni dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, e pertanto resta ferma l’ammissibilità delle istanze presentate per la regolarizzazione delle opere realizzate nelle aree soggette a vincoli che non comportino inedificabilità assoluta nel rispetto di tutte le altre condizioni prescritte dalla legge vigente. 2. Per la definizione delle pratiche di sanatoria di cui al presente articolo, gli enti competenti rilasciano il nulla osta entro i termini previsti dalla normativa vigente».
Quanto al comma 2 dell’art. 1 della legge regionale impugnata, che, come detto, non è oggetto di gravame, prevede che, mediante il rinvio alla «normativa vigente», il citato nulla osta venga reso entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge ovvero, nel caso di istanza di riesame, dalla data di presentazione della medesima istanza.
1.1.– L’Avvocatura generale dello Stato premette che l’art. 32 del d.l. n. 269 del 2003, come convertito, consentiva, al fine di regolarizzare il settore edilizio, il condono delle opere abusive esistenti mediante il rilascio del titolo abilitativo alle condizioni stabilite dalla stessa norma statale e dalle normative regionali, fatte comunque salve le competenze delle Regioni a statuto speciale (commi da 1 a 4).
Il condono avrebbe dovuto riguardare le opere ultimate entro il 31 marzo 2003 che non avessero comportato un ampliamento dell’esistente in misura superiore al trenta per cento della relativa volumetria o, in alternativa, che presentassero ulteriori caratteristiche espressamente indicate (commi 25 e 26).
Il termine di presentazione delle domande veniva fissato a pena di decadenza entro il 10 dicembre 2004, con l’attestazione del pagamento dell’oblazione e dell’anticipazione degli oneri concessori (comma 32).
Tali disposizioni venivano dettate come estensione della disciplina del condono già introdotta dalle leggi 28 febbraio 1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere abusive), e 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), con una importante differenza: venivano espressamente escluse dall’ambito di applicazione del terzo condono le opere abusive realizzate in aree soggette a vincoli di inedificabilità relativa (comma 27, lettera d), la cui sanatoria era invece ammessa dai precedenti condoni.
In tale ambito, argomenta l’Avvocatura, con l’art. 24 della legge regionale n. 15 del 2004, la Regione Siciliana aveva integralmente recepito quanto stabilito dall’art. 32 del d.l. n. 269 del 2003, come convertito, attesa la previsione – al comma 1 del citato art. 24 – che la concessione edilizia in sanatoria può essere richiesta e rilasciata nelle forme e nei limiti di cui all’art. 32 della legge nazionale.
In ragione di tale richiamo, doveva ritenersi che non fossero ammissibili le istanze presentate per la regolarizzazione delle opere realizzate in aree soggette a vincoli di inedificabilità relativa, appunto escluse dal citato comma 27, lettera d), dell’art. 32.
Non poteva dunque continuare ad applicarsi l’art. 23 della legge della Regione Siciliana 10 agosto 1985, n. 37 (Nuove norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, riordino urbanistico e sanatoria delle opere abusive), che, nel recepire il primo condono, ammetteva tale misura anche con riguardo alle opere realizzate in aree soggette a vincolo di inedificabilità relativa dietro nulla osta dell’autorità competente per il vincolo, limitando il divieto di sanatoria solo in relazione alle zone caratterizzate da inedificabilità assoluta.
In tal senso, nel ricorso vengono richiamate alcune sentenze della Corte di cassazione secondo cui «il legislatore regionale, a differenza di quanto accaduto con la L.R. n. 37 del 1985, ha recepito nell’ambito territoriale della Regione Sicilia, la L. n. 326 del 2003, art. 32 direttamente e integralmente e cioè sia con riguardo alle forme che ai limiti ivi previsti tra cui, anche, la previsione di cui al comma 27, lettera d), per la quale la concessione edilizia in sanatoria non può essere rilasciata per interventi di nuova costruzione in aree sottoposte ai vincoli ivi citati» (viene richiamata la sentenza della Corte di cassazione, sezione terza penale, n. 30693 del 2021). Il ricorrente evidenzia che, sulla base del medesimo orientamento, la legge reg. Siciliana n. 37 del 1985 non potrebbe dunque prevalere sulla normativa statale sopravvenuta che disciplina in ogni suo aspetto il condono edilizio, anche tenuto conto della posteriorità temporale di quest’ultima rispetto alla prima (sul punto vengono richiamate le sentenze della Corte di cassazione, sezione terza penale, 8 aprile 2016, n. 45527, e 27 ottobre 2011, n. 45977).
1.2.– Ciò premesso, con il primo motivo di ricorso il Presidente del Consiglio dei ministri lamenta la violazione degli artt. 117, secondo comma, lettera s), 123, 127, Cost., nonché degli artt. 14 e 27 dello statuto di autonomia. La disposizione impugnata, espressione della competenza statutaria primaria della Regione Siciliana nelle materie dell’urbanistica e della tutela del paesaggio (art. 14, primo comma, lettere f ed n), nell’estendere l’ambito di applicazione del condono edilizio alle aree soggette a vincoli di inedificabilità relativa, contrasterebbe con la norma di grande riforma economico-sociale contenuta nell’art. 32, comma 27, lettera d), del citato d.l. n. 269 del 2003, come convertito, che esclude il condono in presenza di vincoli relativi; limitazione, questa, introdotta dallo Stato nell’esercizio della competenza legislativa esclusiva nella materia della tutela dell’ambiente e dei beni culturali (art. 117, secondo comma, lettera s, Cost.).
A sostegno di tale censura, il ricorrente deduce che la disposizione impugnata, erroneamente definita dal legislatore regionale di interpretazione autentica, introdurrebbe una indebita estensione, per la sola Regione Siciliana, dei limiti di applicazione del terzo condono edilizio, in contrasto con quanto stabilito dall’art. 32, comma 27, lettera d), del d.l. n. 269 del 2003, come convertito, le cui previsioni non sarebbero derogabili da parte del legislatore regionale e che infatti l’art. 24 della legge reg. Siciliana n. 15 del 2004 aveva integralmente recepito.
Più nello specifico, i limiti statali al condono edilizio assurgerebbero nel caso delle regioni ordinarie a principi fondamentali sanciti dallo Stato nella materia, di competenza legislativa concorrente, del governo del territorio e, nel caso delle regioni ad autonomia speciale, a norme di grande riforma economico-sociale.
A quest’ultimo riguardo, nel ricorso viene richiamata la sentenza n. 196 del 2004 con cui – in relazione al terzo condono – questa Corte avrebbe affermato che le previsioni concernenti la determinazione massima dei fenomeni condonabili integrano norme di grande riforma economico-sociale che, sulla base degli statuti, costituiscono un limite per le potestà legislative primarie delle regioni ad autonomia speciale.
D’altro canto, secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, questa Corte avrebbe ripetutamente sancito la prevalenza del potere legislativo statale nel vincolare la competenza legislativa regionale, anche esclusiva, allorquando le leggi nazionali dettino norme di riforma economico-sociale nella materia della tutela dell’ambiente, dei beni culturali e del paesaggio, onde evitare una lesione diretta dei beni culturali e paesaggistici, con conseguente grave diminuzione del livello di tutela garantito nell’intero territorio nazionale.
Ad avviso del ricorrente, pertanto, il limite al condono edilizio posto dall’art. 32, comma 27, lettera d), del d.l. n. 269 del 2003, come convertito, rientrerebbe a pieno titolo nell’ambito delle norme di grande riforma economico-sociale, proprio in quanto introdotto a salvaguardia delle esigenze di tutela dei beni culturali e del paesaggio (art. 117, secondo comma, lettera s, Cost.).
La disposizione impugnata eccederebbe quindi dai limiti alla potestà legislativa regionale sanciti dallo statuto di autonomia e violerebbe i parametri costituzionali che regolano la formazione delle leggi regionali, con invasione della sfera di competenza legislativa esclusiva dello Stato.
1.3.– La norma impugnata violerebbe altresì l’art. 3 Cost. sotto il profilo della ragionevolezza e della coerenza e certezza dell’ordinamento giuridico.
A fondamento di tale censura, il ricorrente evidenzia ancora una volta il carattere innovativo e non meramente interpretativo della disposizione impugnata, in quanto renderebbe sanabili, su beni vincolati di interesse culturale e paesaggistico, interventi che pacificamente non lo sono in base alla disciplina statale e regionale.
Per l’effetto, la disposizione impugnata non dirimerebbe alcun dubbio interpretativo sulla portata di una determinata norma, attribuendole una delle possibili varianti di senso compatibili col tenore letterale, bensì introdurrebbe surrettiziamente una prescrizione nuova e retroattiva, estendendo l’ambito di applicabilità del condono edilizio.
Il ricorrente ricorda che, «anche se non costituzionalizzato al di fuori della previsione contenuta nell’art. 25 Cost.», il principio di irretroattività della legge assurge a valore di principio generale ai sensi dell’art. 11, primo comma, delle disposizioni preliminari al codice civile, cui il legislatore dovrebbe preferibilmente attenersi; nel caso in cui invece intenda discostarsene, il medesimo dovrebbe allora ispirarsi con particolare rigore al canone della ragionevolezza.
In virtù di tale premessa, l’estensione dell’ambito di applicazione del condono edilizio alle zone soggette a vincoli di inedificabilità relativa sarebbe irragionevole e lesiva del principio di stabilità dei rapporti giuridici, in quanto verrebbe modificato l’esito delle pratiche di condono, a distanza di circa diciassette anni dalla relativa presentazione, con la possibilità persino – ai sensi di quanto previsto dal comma 2 dell’art. 1 della legge regionale in esame – di riaprire i procedimenti già definiti con provvedimento inoppugnabile e su cui eventualmente potrebbe essersi formato un giudicato negativo.
1.4.– Ad avviso del ricorrente, infine, l’estensione con efficacia retroattiva dell’area degli illeciti condonabili avrebbe una evidente ricaduta anche sul piano dell’ordinamento penale, parimenti riservato alla potestà legislativa statale, con conseguente violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. e dell’art. 14 dello statuto della Regione Siciliana.
Infatti, la disposizione regionale consentirebbe – si legge nel ricorso introduttivo – «di dare legittimamente corso a una domanda di sanatoria amministrativa ai sensi degli artt. 23 della legge reg. Sicilia n. 37 del 1985» e 32 del d.l. n. 269 del 2003, come convertito, «quando per lo stesso abuso si configurano ipotesi di illecito penale sanzionate ai sensi dell’art. 181 del Codice dei beni culturali».
Del resto, anche questa Corte avrebbe più volte statuito che in tema di condono edilizio il limite della materia penale opera pure nei confronti delle regioni ad autonomia speciale (al riguardo, viene nuovamente richiamata la sentenza n. 196 del 2004).
Di conseguenza, la norma impugnata finirebbe per invadere la sfera riservata al legislatore statale in materia penale, con un inammissibile e ingiustificato trattamento di favore per gli illeciti commessi nel territorio siciliano in danno del paesaggio e del patrimonio culturale.
2.– Con atto depositato il 4 novembre 2021, si è costituita in giudizio la Regione Siciliana, in persona del Presidente pro tempore, chiedendo che le questioni vengano dichiarate inammissibili e comunque non fondate.
2.1.– L’eccezione di inammissibilità viene sollevata sotto il profilo della carente motivazione delle censure, deducendo che il ricorrente si sarebbe limitato a indicare il parametro violato, senza in alcun modo esplicitare le ragioni che militerebbero in favore della tesi dell’illegittimità costituzionale della norma impugnata.
2.2.– Nel merito, la Regione resistente esclude la violazione degli artt. 117, secondo comma, lettera s), e 123 Cost., evidenziando che la disposizione censurata avrebbe reale portata interpretativa e integrerebbe espressione della competenza legislativa esclusiva della Regione Siciliana prevista dall’art. 14, primo comma, lettere f) ed n), dello statuto di autonomia.
Al riguardo, viene premesso che sulle modalità di recepimento del terzo condono edilizio, ad opera dell’art. 24 della legge reg. Sicilia n. 15 del 2004, si è instaurato un nutrito contenzioso nell’ambito del quale il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, prendendo posizione per la prima volta con il parere n. 291 del 2010, avrebbe interpretato in termini del tutto condivisibili il citato art. 24, lettura che sarebbe stata appunto recepita dalla disposizione impugnata.
In particolare, il CGARS avrebbe reiteratamente affermato che il divieto di cui all’art. 32, comma 27, lettera d), del d.l. n. 269 del 2003, come convertito, andrebbe inteso in Sicilia come riferito unicamente ai vincoli assoluti e non anche a quelli relativi.
A sostegno di tale assunto, nel parere n. 291 del 2010 sarebbe richiamato l’art. 1, comma 1, della legge reg. Siciliana n. 37 del 1985, attuativa del primo condono edilizio introdotto dalla legge n. 47 del 1985, ai sensi del quale «[la legge n. 47 del 1985] e successive modifiche e integrazioni si applica, ad eccezione degli artt. 3, 5, 23, 24, 25, 29 e 50, nella Regione Siciliana con le sostituzioni, modifiche e integrazioni della presente legge».
Il CGARS avrebbe quindi evidenziato che l’art. 23 della legge reg. Siciliana n. 37 del 1985 sostituisce con un unico articolo gli artt. 32 e 33 della legge n. 47 del 1985 i quali, nella loro formulazione originaria, ammettevano – nel definire le condizioni di applicabilità del condono – la sanatoria delle opere abusive realizzate in zone soggette a vincoli di inedificabilità relativa.
In virtù dell’accorpamento indicato, il testo dei citati artt. 32 e 33 vigente nella Regione Siciliana sarebbe impermeabile alle modifiche successivamente apportate dalla legislazione statale e quindi coinciderebbe tuttora con la versione iniziale.
La vigenza di quanto originariamente previsto dagli artt. 32 e 33 della legge n. 47 del 1985 si tradurrebbe – ha sostenuto il CGARS nel parere citato – secondo un’esegesi necessariamente sistematica, nella «salvezza» di quanto previsto dall’art. 23 della legge reg. Siciliana n. 37 del 1985 che li ha recepiti, con la conseguenza che in Sicilia il divieto di cui all’art. 32, comma 27, lettera d), del d.l. n. 269 del 2003, come convertito, «deve considerarsi riferito unicamente ai vincoli “assoluti”, e non anche a quelli cosiddetti relativi; per i quali ultimi può, invece, ottenersi la concessione in sanatoria, ove si realizzino tutte le altre condizioni stabilite dal predetto art. 32-33, ancora vigente nella Regione».
D’altro canto, nell’indicare i limiti al condono edilizio, proprio l’art. 32, comma 27, del d.l. n. 269 del 2003, come convertito, farebbe espressamente salva, nel suo incipit, la disciplina contenuta negli artt. 32 e 33 della legge n. 47 del 1985, che, nel caso della Regione Siciliana, rimarrebbero insensibili alle modifiche apportate successivamente dal legislatore statale, tra le quali appunto rientrerebbero i limiti introdotti dal comma 27 dell’art. 32 del d.l. n. 269 del 2003, come convertito.
Inoltre, non consistendo lo scopo di un vincolo di inedificabilità relativa nell’impedire in sé l’edificazione, bensì nel conformarla secondo modalità che la rendano compatibile con la tutela dell’interesse in funzione del quale il vincolo è stato posto, ammettere la sanatoria di opere realizzate in presenza di un vincolo relativo all’esito di una valutazione postuma, ma di contenuto analogo, non determinerebbe alcun arretramento di tutela del patrimonio culturale.
Oltretutto, ad avviso del ricorrente, il divieto di cui all’art. 32, comma 27, lettera d), del d.l. n. 269 del 2003, come convertito, nemmeno integrerebbe una norma fondamentale di riforma economico-sociale, in quanto tale idonea a vincolare la potestà legislativa primaria regionale, essendo priva di contenuto riformatore e non attenendo a un bene comune di primaria importanza per la vita sociale ed economica, come invece richiederebbe la costante giurisprudenza costituzionale (vengono richiamate le sentenze n. 198 del 2018, n. 164 del 2009 e n. 378 del 2007).
A riscontro di tale assunto, viene osservato che l’art. 32, comma 1, della legge n. 47 del 1985, come modificato dal comma 43 dell’art. 32, del d.l. n. 269 del 2003, come convertito, nel suo incipit prevede testualmente che, «[f]atte salve le fattispecie previste dall’art. 33, il rilascio del titolo abilitativo in sanatoria per opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo, è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso […]».
Risulterebbe, quindi, confermata la condonabilità di opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo relativo, con la conseguenza che, nella determinazione massima dei fenomeni condonabili su cui non potrebbe incidere il legislatore regionale, non andrebbe inclusa la sanatoria degli abusi commessi nelle aree soggette a vincoli di inedificabilità relativa.
Ciò risulterebbe avvalorato anche dai commi 14, 15, 16 e 17 dell’art. 32 del d.l. n. 269 del 2003, come convertito, che prevedono la possibilità di sanatoria degli abusi realizzati su aree di proprietà statale, qualora sussista la disponibilità dello Stato a cedere a titolo oneroso la proprietà dell’area su cui insiste l’opera abusiva, anche nel caso di aree soggette ai vincoli di cui all’art. 32 della legge n. 47 del 1985.
Da quanto sin qui complessivamente osservato discenderebbe, ad avviso della Regione resistente, la non fondatezza del primo motivo di ricorso.
2.3.– In ordine alla violazione degli artt. 3 e 117, secondo comma, lettera l), Cost. (rispettivamente secondo e terzo motivo di ricorso), la Regione Siciliana deduce che tali censure poggerebbero sull’erroneo presupposto interpretativo che il condono in esame estingua i reati paesaggistici previsti dall’art. 181 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137), e non i reati edilizi, caratterizzati da disciplina differenziata e diversa oggettività giuridica.
Nell’atto di costituzione viene poi evidenziato, richiamando gli insegnamenti del CGARS in materia di legislazione urbanistica della Regione Siciliana, che l’estinzione del reato non inciderebbe sulla legittimità urbanistica dell’opera e non risulterebbe pertanto vietato introdurre una sanatoria urbanistica che non determini l’estinzione dei connessi illeciti penali, attesa la totale separazione logico-concettuale della vicenda penale da quella amministrativa.
Sarebbe quindi consentito alla Regione Siciliana, nell’esercizio di una propria competenza legislativa, introdurre ipotesi ulteriori di estinzione della difformità urbanistica a prescindere dall’illiceità penale dell’attività edilizia svolta.
Peraltro, anche questa Corte avrebbe statuito, ad esempio nella sentenza n. 196 del 2004, che gli effetti amministrativi e penali dei condoni edilizi non debbano necessariamente coincidere, affermando che la riserva della materia penale in favore del legislatore statale possa ritenersi violata solo quando la fonte normativa integratrice extra-statale pretenda di introdurre una fattispecie di reato, ma non anche allorquando concorra alla determinazione del precetto normativo secondo lo schema della norma penale in bianco.
A tale ultimo riguardo, viene in particolare richiamata la sentenza n. 46 del 2014 di questa Corte, secondo cui la legislazione regionale può «concorrere a precisare, secundum legem, i presupposti di applicazione di norme penali statali, svolgendo, in pratica, funzioni analoghe a quelle che sono in grado di svolgere fonti secondarie statali: ciò, particolarmente, quando la legge statale subordini effetti incriminatori o decriminalizzanti ad atti amministrativi (o legislativi) regionali (il riferimento è, in particolare, alle cosiddette norme penali in bianco: sentenze n. 63 del 2012 e n. 487 del 1989)».
In tale prospettiva, la disposizione regionale impugnata avrebbe appunto solo precisato i limiti di applicazione del terzo condono, facoltà peraltro espressamente prevista dall’art. 32 del d.l. n. 269 del 2003, come convertito, che fa salve le competenze delle regioni a statuto speciale (comma 4), escludendo dalla possibile applicazione del condono, nel rispetto della normativa vigente in Sicilia, solamente gli abusi realizzati nelle aree soggette a vincoli assoluti (art. 23, della legge reg. Siciliana n. 37 del 1985).
Neppure si verificherebbe una disparità di trattamento tra il territorio siciliano e il resto d’Italia, in quanto la violazione dell’art. 3 Cost. si potrebbe configurare solo se si negasse la spettanza alla Regione Siciliana del potere di incidere con proprie norme sulla materia di competenza legislativa esclusiva, laddove «è fisiologicamente connaturata allo stesso principio regionalistico la possibilità di regimi differenziati della stessa fattispecie tra Regione e Regione» (sentenza n. 46 del 2014), anche ammettendo il compimento di attività edilizie contrastanti con gli strumenti edilizi, penalmente sanzionate in altre regioni.
3.– Con atto depositato il 16 novembre 2021, è intervenuta, ad adiuvandum, l’associazione Legambiente Sicilia Aps, che si è definita titolare di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto dedotto in giudizio, avendo tra i propri fini statutari la tutela del patrimonio storico, artistico e culturale del territorio e del paesaggio.
4.– Con memoria depositata l’8 marzo 2022, la Regione Siciliana ha chiesto che l’intervento spiegato da associazione Legambiente Sicilia Aps venga dichiarato inammissibile.
Nella camera di consiglio dell’11 maggio 2022, l’intervento è stato dichiarato inammissibile con l’ordinanza di questa Corte n. 134 del 2022.
5.– Il 30 maggio 2022, la Regione Siciliana ha depositato memoria integrativa, richiamandosi alle proprie argomentazioni difensive.
In punto di inammissibilità, la Regione resistente ha aggiunto che il ricorso si caratterizzerebbe per perplessità e oscurità delle censure, non risultando chiaro se il Presidente del Consiglio dei ministri contesti l’illegittimità costituzionale della norma scaturente dall’interpretazione autentica (cioè la sanabilità di abusi in presenza di vincoli di inedificabilità relativa) o se, piuttosto, si limiti ad escludere che tale norma possa costituire una delle opzioni possibili della norma interpretata. In particolare, il Presidente del Consiglio dei ministri non avrebbe promosso una questione di legittimità costituzionale, bensì articolato una questione interpretativa avente ad oggetto l’art. 24 della legge reg. Siciliana n. 15 del 2004, al fine di escludere che tale norma possa essere letta nel senso di ritenere ammissibile in Sicilia il terzo condono edilizio in presenza di vincoli relativi.
In ordine alla violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., la Regione resistente ha precisato che il ricorrente non avrebbe motivato adeguatamente le ragioni della violazione del supposto parametro interposto rappresentato dall’art. 181 cod. beni culturali; disposizione, quest’ultima, che, anzi, confermerebbe che ad una sanatoria amministrativa non corrisponde sempre una sanatoria penale, in quanto la sanatoria amministrativa “postuma” ivi disciplinata escluderebbe la sanzione penale solo nei casi indicati dal comma 1-ter del citato art. 181.
Nel merito, dopo aver ribadito che l’art. 32, comma 27, lettera d), del d.l. n. 269 del 2003, come convertito, non assurge a norma di grande riforma economico-sociale, la Regione Siciliana ribadisce che nemmeno questa Corte avrebbe mai riconosciuto tale natura. In particolare, nello stabilire che è sottratto allo spazio di intervento affidato al legislatore delle regioni ad autonomia particolare «quanto è immediatamente riferibile ai principi di questo intervento eccezionale di “grande riforma” (il titolo abilitativo edilizio in sanatoria, la determinazione massima dei fenomeni condonabili)» (sentenza n. 194 del 2006), questa Corte non avrebbe affatto affermato che per «determinazione massima dei fenomeni condonabili» debbano intendersi i limiti di cui al citato art. 32, comma 27. Ed infatti, tale locuzione atterrebbe esclusivamente alla definizione delle volumetrie massime condonabili.
In tale prospettiva, sarebbero del tutto inconferenti quelle sentenze richiamate dal ricorrente in cui questa Corte ha stabilito che – nell’ambito della competenza legislativa esclusiva nella materia della «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. – lo Stato può continuare ad imporre al legislatore delle regioni ad autonomia speciale, che eserciti la propria competenza statutaria nella materia dell’urbanistica, il rispetto delle leggi qualificabili come «riforme economico-sociali» emanate nella materia di cui al citato art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.
6.- Il 1° giugno 2022, la Regione Siciliana ha depositato istanza di rinvio dell’udienza, rappresentando di aver condiviso con la Presidenza del Consiglio dei ministri – Dipartimento per gli Affari regionali e per le autonomie l’opportunità di istituire un tavolo di lavoro congiunto per valutare modificazioni alla norma impugnata.
7.- Con memoria del 6 giugno 2022, il Presidente del Consiglio dei ministri ha aderito all’istanza di rinvio presentata dalla Regione.
8.- In accoglimento dell’istanza di rinvio, l’udienza pubblica è stata rinviata al 22 novembre 2022, nella quale le parti hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni formulate nei rispettivi scritti difensivi.
Motivi della decisione
1.– Con ricorso depositato il 6 ottobre 2021 (reg. ric. n. 56 del 2021), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge reg. Siciliana n. 19 del 2021, in riferimento agli artt. 3, 117, secondo comma, lettere l) ed s), 123 e 127 della Costituzione, nonché in riferimento agli artt. 14 e 27 dello statuto della Regione Siciliana.
Con la disposizione impugnata, il legislatore regionale intende fornire l’interpretazione autentica dell’art. 24 della legge reg. Siciliana n. 15 del 2004, che ha recepito in Sicilia il terzo condono edilizio, previsto dall’art. 32 del d.l. n. 269 del 2003, come convertito.
In forza della disposizione impugnata, la menzionata norma di recepimento deve essere interpretata nel senso che è ammissibile la sanatoria delle opere abusive «realizzate nelle aree soggette a vincoli che non comportino inedificabilità assoluta».
Più nel dettaglio, la disposizione impugnata aggiunge l’art. 25-bis, «Norma di interpretazione autentica», alla legge reg. Siciliana n. 16 del 2016, disponendo quanto segue:
«1. L’articolo 24 della legge regionale 5 novembre 2004, n. 15 si interpreta nel senso che sono recepiti i termini e le forme di presentazione delle istanze presentate ai sensi dell’articolo 32 del decreto legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito con modificazioni dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, e pertanto resta ferma l’ammissibilità delle istanze presentate per la regolarizzazione delle opere realizzate nelle aree soggette a vincoli che non comportino inedificabilità assoluta nel rispetto di tutte le altre condizioni prescritte dalla legge vigente. 2. Per la definizione delle pratiche di sanatoria di cui al presente articolo, gli enti competenti rilasciano il nulla osta entro i termini previsti dalla normativa vigente».
2.– Con il primo motivo di ricorso, il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 117, secondo comma, lettera s), 123 e 127, Cost., nonché degli artt. 14 e 27 dello statuto di autonomia, in quanto la disposizione impugnata, pur espressione della competenza statutaria primaria della Regione Siciliana nelle materie dell’urbanistica e della tutela del paesaggio (art. 14, primo comma, lettere f e n), contrasterebbe con la norma di grande riforma economico-sociale contenuta nel già richiamato art. 32, comma 27, lettera d), del d.l. n. 269 del 2003, come convertito.
In particolare, la disposizione impugnata, limitando espressamente l’esclusione della sanatoria alle sole aree sottoposte a vincoli di “inedificabilità assoluta”, estenderebbe implicitamente il condono edilizio anche alle opere realizzate nelle aree soggette ad altri possibili vincoli (di cosiddetta inedificabilità relativa), in violazione dell’invocato parametro interposto.
L’impugnato art. 1, comma 1, della legge reg. Siciliana n. 19 del 2021 non potrebbe avere – ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri – carattere interpretativo bensì innovativo (si tratterebbe di norma surrettiziamente nuova e «retroattiva approvata a distanza di quasi diciassette anni») e contrasterebbe con l’indicata norma statale ritenuta di grande riforma economico-sociale.
Le limitazioni di cui al citato art. 32, comma 27, lettera d), del d.l. n. 269 del 2003, come convertito, sarebbero state introdotte dallo Stato nell’esercizio della competenza legislativa esclusiva nella materia della «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali» (art. 117, secondo comma, lettera s, Cost.).
L’impugnato art. 1, comma 1, della legge reg. Siciliana n. 19 del 2021 eccederebbe quindi dai limiti alla potestà legislativa regionale, sanciti dallo statuto regionale (le grandi riforme economico-sociali), in violazione dei parametri costituzionali che regolano la formazione delle leggi regionali (artt. 123 e 127 Cost.), con invasione, al contempo, della sfera di competenza legislativa esclusiva statale (art. 117, secondo comma, lettera s, Cost.).
Quanto alle norme di grande riforma economico-sociale, nel ricorso viene richiamata la sentenza di questa Corte n. 196 del 2004 con cui – in relazione al terzo condono – si è affermato che le previsioni concernenti la determinazione massima dei fenomeni condonabili afferiscono al limite, posto alle potestà legislative primarie delle regioni a statuto speciale, rappresentato dalle grandi riforme economico-sociali. In particolare, quelle operanti nelle materie della tutela dell’ambiente, dei beni culturali e del paesaggio, con conseguente grave diminuzione del livello di tutela garantito nell’intero territorio nazionale.
2.1.– Nel ricostruire il quadro normativo di riferimento, il Presidente del Consiglio dei ministri si è soffermato sulla portata applicativa della norma che la Regione Siciliana ha inteso interpretare.
Ad avviso del ricorrente, l’art. 24 della legge reg. Siciliana n. 15 del 2004, nel rinviare all’art. 32 del d.l. n. 269 del 2003, come convertito, senza limitazioni di sorta, avrebbe recepito integralmente il suo contenuto precettivo, inclusi i limiti alla sanatoria dettati dal comma 27, lettera d).
In questo senso, si sarebbe ripetutamente pronunciata la Corte di cassazione penale, valorizzando il dato letterale del citato art. 24, sia pure non in linea con l’orientamento espresso dal CGARS, secondo il quale il rinvio alla legislazione statale dovrebbe invece intendersi limitato ai termini e alle forme di presentazione dell’istanza di sanatoria. Ad avviso del CGARS, infatti, nell’ambito della Regione Siciliana dovrebbe continuare ad applicarsi la disciplina attuativa del primo condono edilizio, prevista dalla legge statale n. 47 del 1985 e recepita dalla legge reg. Siciliana n. 37 del 1985, preclusiva della sanatoria solo a fronte di vincoli di inedificabilità assoluta.
Questa soluzione sarebbe però, ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri, palesemente errata, in quanto – come evidenziato dalla Corte di cassazione – una legge regionale anteriore non potrebbe prevalere su una disciplina nazionale successiva.
È per tale ragione che, sempre secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, dovrebbe escludersi la natura interpretativa della disposizione impugnata, posto che la medesima estende con efficacia retroattiva l’ambito di applicazione del condono ad ipotesi non consentite dalla norma che intende interpretare, e quindi non rientranti nelle possibili varianti di senso del testo originario.
3.– La Regione Siciliana, nella costituzione in giudizio e nella successiva memoria, ha eccepito l’inammissibilità delle censure, per oscurità e difetto di motivazione, in quanto il ricorrente si sarebbe limitato a indicare i parametri violati, senza indicare le ragioni a sostegno del vulnus lamentato.
3.1.– Le eccezioni non sono fondate.
Invero, il Presidente del Consiglio dei ministri ricostruisce il quadro normativo, nazionale e regionale, attinente al terzo condono edilizio ed esamina la relativa giurisprudenza costituzionale, amministrativa e penale, motivando adeguatamente sulla violazione dei parametri invocati.
4.– Nel merito, sono fondate le questioni promosse in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera s), Cost. e 14 dello statuto della Regione Siciliana.
Va premesso che la disposizione impugnata, a dispetto della qualificazione fornita dal legislatore regionale, ha carattere innovativo perché – consentendo, con efficacia retroattiva, la sanatoria delle opere realizzate nelle aree soggette a vincoli di inedificabilità relativa – è in evidente contrasto con quanto stabilito dalla disposizione che intende interpretare.
Già sulla base della sua portata letterale, infatti, l’art. 24 della legge reg. Siciliana n. 15 del 2004 richiama espressamente l’art. 32 del d.l. n. 269 del 2003, come convertito, nella sua integralità. Di conseguenza, tale rinvio riguarda non solo i termini e le forme della richiesta di concessione in sanatoria, ma anche i limiti entro i quali questa deve essere rilasciata, tra cui quello previsto dal citato comma 27, lettera d), dell’art. 32, che attribuisce «carattere ostativo alla sanatoria anche in presenza di vincoli che non comportino l’inedificabilità assoluta» (sentenza n. 117 del 2015; in senso conforme, sentenze n. 181 del 2021, n. 225 del 2012, n. 290 e n. 54 del 2009 e n. 196 del 2004). Fra questi, ma non solo, come prescrive la citata lettera d), vi sono «i vincoli imposti a tutela degli interessi idrogeologici e delle falde acquifere, dei beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali qualora istituiti prima della esecuzione di tali opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici».
In tal senso, si è espressa ripetutamente, tra l’altro, la Corte di cassazione penale, chiarendo, in termini che questa Corte reputa condivisibili, che la legge reg. Sicilia n. 37 del 1985, nel recepire il primo condono edilizio, che ammetteva la sanatoria in presenza di vincoli relativi, non può prevalere sulla normativa statale sopravvenuta che disciplina, in ogni suo aspetto, il terzo condono edilizio e che è anch’essa recepita dalla citata legge reg. Siciliana n. 15 del 2004 (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenze 24 giugno 2021, n. 30693, 8 aprile 2016, n. 45527, e 27 ottobre 2011, n. 45977).
Non pare condivisibile, invece, il diverso avviso del CGARS, adunanza del 31 gennaio 2012, parere n. 291 del 2010, secondo cui, nell’ambito della Regione Siciliana, dovrebbe continuare ad applicarsi la disciplina attuativa del primo condono edilizio, prevista dalla legge n. 47 del 1985, preclusiva della sanatoria solo a fronte di vincoli di inedificabilità assoluta.
Deve dunque escludersi che l’applicabilità del condono edilizio in presenza di vincoli relativi possa rientrare «tra le possibili varianti di senso del testo originario» dell’art. 24 della legge reg. Siciliana n. 15 del 2004 (sentenze n. 70 del 2020 e n. 73 del 2017).
4.1.– Ciò premesso, è ben vero che la disposizione impugnata, nella sua portata innovativa, è espressione della competenza statutaria primaria della Regione Siciliana nelle materie dell’urbanistica e della tutela del paesaggio (art. 14, primo comma, lettere f ed n), tuttavia è altresì vero che essa, ai sensi dello stesso art. 14, deve essere esercitata «senza pregiudizio» delle riforme economico-sociali, che assurgono, dunque, a limite “esterno” della potestà legislativa primaria. Le “grandi riforme” sono quindi individuate, nel caso di specie, dal legislatore nazionale nell’esercizio delle sue competenze esclusive in materia di ambiente (art. 117, secondo comma, lettera s, Cost.).
Infatti, questa Corte ha più volte affermato che, in relazione alle competenze legislative di tipo primario previste dagli statuti speciali, lo spazio di intervento affidato al legislatore regionale, con riguardo alla disciplina del condono edilizio, è circoscritto – oltre che dal limite della materia penale – da «quanto è immediatamente riferibile ai principi di questo intervento eccezionale di “grande riforma” (il titolo abilitativo edilizio in sanatoria, la determinazione massima dei fenomeni condonabili)» (sentenza n. 196 del 2004; in senso conforme, sentenza n. 232 del 2017).
In riferimento al caso in esame, assurgono pertanto a norme di grande riforma economico-sociale le previsioni statali relative alla determinazione massima dei fenomeni condonabili, cui devono senz’altro ricondursi quelle che individuano le tipologie di opere insuscettibili di sanatoria ai sensi dell’art. 32, comma 27, del d.l. n. 269 del 2003, come convertito, incluso il limite di cui alla lettera d).
Quest’ultimo, infatti, è stato introdotto dal legislatore statale nell’esercizio della competenza legislativa esclusiva, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.
La diposizione impugnata eccede quindi i limiti della potestà legislativa primaria della Regione Siciliana sanciti dallo statuto di autonomia.
4.2.– In ragione di quanto sin qui illustrato, deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 1, comma 1, della legge reg. Siciliana n. 19 del 2021 per violazione degli artt. 117, secondo comma, lettera s), Cost. e 14 dello statuto della Regione Siciliana.
5.– Ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), va inoltre dichiarata, in via conseguenziale, l’illegittimità costituzionale delle residue disposizioni della legge reg. impugnata n. 19 del 2021 (artt. 1, comma 2, e 2), che difettano di autonoma portata a seguito della caducazione della norma censurata (ex plurimis, sentenze n. 117 del 2022 e n. 77 del 2021; sul tema anche sentenza n. 68 del 2022). Infatti, il comma 2 dell’art. 1 stabilisce che il nulla osta previsto dalla disposizione impugnata venga reso entro novanta giorni dall’entrata in vigore della legge, ovvero, nel caso di istanza di riesame, dalla data di presentazione della stessa; l’art. 2 dispone che il testo legislativo entri in vigore il giorno stesso della pubblicazione.
6.– Restano assorbite le questioni promosse in riferimento agli artt. 3, 117, secondo comma, lettera l), 123 e 127, Cost., nonché all’art. 27 dello statuto della Regione Siciliana.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge della Regione Siciliana 29 luglio 2021, n. 19 (Modifiche alla legge regionale 10 agosto 2016, n. 16 in materia di compatibilità delle costruzioni realizzate in aree sottoposte a vincolo);
2) dichiara, in via conseguenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale degli artt. 1, comma 2, e 2 della legge reg. Siciliana n. 19 del 2021.